Prologo
Ho deciso di raccontare ” La mia Africa” (non quella di Karen Blixen), ma quella vissuta in tanti a nni di lavoro in numerosi paesi africani, mostrando spassionatamente quelle che sono state le mie esperienze di vita quotidiana nel confronto con un ambiente spesso ostile ma anche generoso e stimolante. Scrivo senza pregiudizi e preconcetti cercando di dare a coloro che vorranno leggermi un idea più corretta di quella che i media e i luoghi comuni attribuiscono a questo grande continente ricco di storia, di etnie, di drammi e di tensioni, ma anche di persone ricche di umanità.

Fabrizio De Robertis

INDICE:

CAPITOLO I – La voglia di conoscere

CAPITOLO II- L’Algeria degli anni 80

CAPITOLO III – L’Aria diventa pesante

CAPITOLO IV- Il Viaggio

CAPITOLO V – Khartum

CAPITOLO VI – 45°All’ombra

CAPITOLO VII –La guerra

CAPITOLO VIII- Baragem dos Pequenos Libombos

La voglia di conoscere

CAPITOLO I

Il traghetto della Tirrenia aveva lasciato da pochi minuti la banchina del porto di Napoli in direzione di Tunisi con la mia Land Rover parcheggiata nella stiva,piena di bagagli di ogni genere compreso un piccolo frigo da 80 litri e la mia cagnetta Diana, Finalmente potevo tirare un sospiro di sollievo dato che dopo mesi di tentativi di trovare un contratto di lavoro, di interviste con organizzazioni non governative, di anticamere alla Farnesina negli uffici della cooperazione allo sviluppo, ero riuscito a farmi dare una lettera di ingaggio come professore presso la facoltà di architettura di Algeri (EPAU Ecole Polytechnique d’Architecture et d’Urbanisme)che dovevo recapitare in loco prima dell’inizio dell’anno accademico. Negli anni ’70 se uno voleva fare il servizio civile, non era come al giorno d’oggi. C’era in vigore una legge (Pedini) che ti permetteva di sostituire il sevizio militare con quello civile, solo affrontando una permanenza di 24 mesi trasferendoti all’estero in un paese in via di sviluppo attraverso un programma bilaterale di cooperazione tra il MAE italiano e il paese in questione.Ero riuscito a rimandare la partenza per il CAR svariate volte adducendo i più diversi motivi, ma ormai con i carabinieri sotto il portone, prima che mi ritirassero il passaporto, avevo dovuto “scappare” e rendermi irreperibile sperando di sistemare le cose una volta giù in Algeria.
Dopo circa 24 ore lo sbarco a Tunisi e l’inizio del viaggio in terra d’Africa : quante volte durante i mesi precedenti la partenza mi ero immaginato quei momenti! Il sole accecante e l’aria bollente di quell’inizio settembre del 1978 riempivano i miei occhi e i miei polmoni ma tutto era magico! In quel contesto di odori, confusione, folla urlante sul molo, iniziava per me l’avventura della vita, quella vera, che avevo sempre sognato durante i lunghi anni di studio prima di laurearmi con il massimo dei voti e la lode. Mio padre presente il giorno della discussione della laurea, era uscito correndo dall’aula perché, lui, un militare tutto d’un pezzo, si era commosso quando uno dei professori aveva chiesto a gran voce per me la lode e i complimenti della commissione. Ed io non volevo deludere le sue aspettative ed avevo scelto, pur non avendo nulla contro il servizio militare, di non perdere 24 mesi di tempo, di iniziare subito un’esperienza lavorativa. Non immaginavo quanto questa esperienza avrebbe contato per me negli anni a venire!

La Land Rover ben si adattava alle strade sconquassate tunisine e sobbalzi, buche e traffico caotico mi accompagnavano verso la frontiera di Tabarqua . Qui i militari ansiosi di vedere quello che avevo portato con me mi diedero un primo assaggio di quello che potevano essere i rapporti tra un “bianco” cristiano occidentale e un arabo mussulmano orientale. Auto svuotata, valige aperte con il contenuto rovesciato per terra, attese di ore per sapere se avevo o no il diritto di recarmi in Algeria e soprattutto PERCHÉ volevo andarci. Era circa mezzanotte quando frastornato ho lasciato il posto di dogana per proseguire il viaggio. Faccio un piccolo inciso per dire che tra il posto di frontiera tunisino e quello algerino, non ci sono alcun decine di metri bensì circa 30 km che si snodano in mezzo a boschi di querce da sughero in una zona che è ” terra di nessuno” (oggi si direbbe una buffer zone), pericolosa e mal frequentata. Ma questo io non lo sapevo.

Al mattino presto l’arrivo alla frontiera algerina di Oum Tboul. Quattro doganieri assonnati mi hanno chiesto i documenti e dopo avermi fatto un po’ di storie per il frigorifero che avrebbero voluto volentieri trattenere per portarselo a casa, hanno timbrato tutto ciò che si poteva timbrare tra il passaporto e i documenti al mio seguito, e finalmente sono entrato in Algeria. (Avrò modo negli anni a seguire, di rendermi conto di come la ex colonia francese avesse assorbito dalla ex madre patria tutta la burocrazia e la gerarchizzazione della pubblica amministrazione con dei risultati a dir poco allucinanti).
Mentre guidavo cercando di catturare con gli occhi ogni singolo elemento che sfilava lungo il tragitto, cercavo di immaginare quello che poteva essere ormai il mio futuro in quella terra. E fantasticavo di viaggi nell’interno alla scoperta del deserto e delle oasi, del mare ricco di pesce e quasi vergine. Mi immaginavo di stringere amicizie con la gente del luogo e di imparare la loro lingua, di conoscere i loro usi e costumi e di studiare la loro cultura.
Una brusca frenata per evitare un asino in mezzo alla carreggiata, e una sbandata pericolosa mi riportarono alla realtà. Stava facendo buio e dovevo trovare un posto dove fermarmi.

La paura del buio

L’aria calda della notte filtrava attraverso la tenda che copriva la finestra spalancata sulla strada. Difficile dormire con quella temperatura.
Ero arrivato col buio a Skikda, cittadina di mare lungo la costa est, dove è presente Saipem dal 1968 con una raffineria ed un impianto di produzione di polietilene, e mi ero inoltrato nel centro cercando un albergo dove fermarmi. In una viuzza avevo trovato un’insegna con scritto Hotel in caratteri comprensibili e mi ero fermato lasciando l’auto proprio sotto la finestra della mia stanza. Nel mezzo della notte forse verso le 2 nel dormiveglia uno strano rumore proveniente dalla strada mi aveva fatto saltare giù dal letto e dalla finestra avevo visto che due persone stavano estraendo dalla Land rover i miei bagagli. Di corsa ho raggiunto il portone dell’albergo e con il proprietario anche lui svegliato dal trambusto sono uscito in bermuda e scalzo sul marciapiede. Mi sono infilato lungo la strada in salita che portava verso la direzione che avevo visto prendere ai ladri ma dopo una corsa a perdifiato di un centinaio di metri avevo dovuto desistere anche perché nel buio a destra e sinistra si perdevano numerosi vicoli ed era impossibile sapere dove si erano diretti.
In quel momento mi sono reso conto che stavo rischiando di brutto e ancora oggi sento nelle narici l’odore acre dell’immondizia che era ovunque anche tra i miei piedi scalzi che si mescolava a quello del cibo speziato che usciva dalle case. Il buio mi avvolgeva e strane voci mi arrivavano dai piani alti dei palazzi lungo la strada. Frasi di incoraggiamento a proseguire la caccia ed altre che mi consigliavano di lasciar perdere. Mentre ritornavo sui miei passi verso l’albergo il proprietario che mi era corso dietro mi ha detto che aveva chiamato la polizia e che dovevamo andare al commissariato subito.
La polizia algerina che avrei avuto modo di conoscere meglio negli anni successivi, si dimostrò molto efficiente. Ad una prima ricognizione del furto nell’auto, risultò mancare solo una valigia contenente molti effetti personali, vestiti e tutto un mondo di cose che avevo portato e che pensavo mi sarebbero servite durante la mia permanenza. Mi dissero di aspettare in una saletta del commissariato e dopo circa un paio d’ ore due poliziotti mi riportarono la valigia “intonsa”. Mi chiesero di verificare che non mancasse nulla, cosa che feci subito, ed in effetti tutto era al suo posto. Apro una parentesi perché ho detto che con me avevo la mia cagnetta Diana. Quando ero partito dall’Italia con lei già malata , non me l’ero sentita di lasciarla ai miei perché sicuramente sarebbe morta presto e volevo esserle vicino in quel momento. In auto nella sua cuccetta non aveva abbaiato durante il furto e quando, sceso di corsa avevo messo la testa sotto il telone , prima di correre dietro ai ladri, mi ero accertato che non le avessero fatto del male. Questo episodio, che fortunatamente per me si era risolto positivamente per quanto riguardava la questione materiale, gettava però una fosca luce proprio all’inizio della mia avventura.
La corsa nelle viuzze di Skikda nell’atmosfera densa della notte, carica di tensione e paura, mi riportava indietro a quando ero bambino e non volevo essere preda del buio. Nel resto del tragitto che mi portò ad Algeri il giorno seguente non cessavo di ripensare a quei momenti e mi dicevo che se volevo portare avanti la mia esperienza, in futuro non avrei più dovuto comportarmi così, non avrei più dovuto fare salti nel buio perché avrei potuto esserne inghiottito.
La casa che doveva essere il mio domicilio per i prossimi due anni, si trovava all’estremità ovest di Algeri in una zona conosciuta come la foresta di Bainem. La Cité de Bainem, un complesso residenziale di case HLM cioè case popolari, si adagia a gradoni lungo la collina che scende verso il mare suddivisa in 12 edifici di 4 piani. Il mio appartamento era situato al terzo piano ed essendo l’edificio il primo in basso avevo una splendida vista sul mare distante solo un centinaio di metri. Oltre la strada e lungo tutta la costa si sviluppa un insieme di casupole separate da vicoli stretti e muri alti di separazione tra le proprietà. Al di là, a tratti scogli scuri o piccole spiaggette con qualche barca di pescatori.
Il giorno dopo l’arrivo ho dovuto porre fine alle sofferenze della mia cagnetta, recandomi da un veterinario che dopo averla sedata l’aveva addormentata per sempre. Pensai di sotterrare Diana nella foresta dietro casa in modo da averla vicino e poter andare sulla sua tomba ogni tanto. Ma dopo due giorni dalla sepoltura nella fossa non trovai più nulla: i selvatici avevano utilizzato la sua carne per la loro sopravvivenza. Negli interrogativi che mi sono posto nei giorni successivi mi sono spesso chiesto se anche io avrei potuto essere una preda nel mondo in cui mi stavo inserendo.

segue CAPITOLO II- L’Algeria degli anni 80

Di the milaner

foglio informativo indipendente del giornale

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