Al mattino dopo aver passato una notte praticamente insonne, ringraziai il proprietario dell’albergo e piuttosto scossi dagli avvenimenti della sera precedente, lasciammo Skikda in direzione di Algeri. In questa avventura mi accompagnava Silvia, la mia ragazza, che  aveva voluto seguirmi durante il viaggio e che sarebbe rientrata a Roma in aereo la prossima settimana. La mia cagnetta, coricata dentro la cuccia nel cassone della Land Rover, non aveva reagito all’assalto dei ladri la notte precedente. Il tumore se la stava mangiando da dentro e sonnecchiava agitando la coda quando la chiamavo. Sapevo che non le restava molto tempo, ma avevo preferito portarla con me per esserle vicino quando fosse arrivato il momento. La strada scendeva nell’interno verso sud ovest transitando per paesi a tratti pieni di gente, e a tratti completamente deserti. Contavo di arrivare ad Algeri in serata perché non volevo fermarmi in qualche altro posto rischiando di farmi derubare o peggio, per cui cercavo di tenere una media il più alta possibile. All’altezza di Setif, dopo una serie di curve, la strada scendeva rapidamente verso la città che si intravedeva in lontananza. Eravamo circa a metà percorso e un posto di blocco ci costrinse a fermarci. Darak al Watani, ovvero l’esercito del popolo, l’equivalente dei nostri carabinieri. Avevano una Land Rover simile alla nostra, dello stesso tipo e colore. Il militare si avvicinò al finestrino di Silvia perché, ho omesso di dire che l’auto aveva la guida a destra. ( quando l’avevo comprata era ancora targata esercito di sua maestà britannica). Cercai di spiegare al milite in francese chi eravamo e dove stavamo andando ma lui parlava solo arabo e sembrava intenzionato a farci perdere tempo prezioso. Scesi dall’auto e mi avvicinai, gli tesi la mano e lui senza capire quello che stavo dicendo, mi porse la sua calda e sudaticcia più somigliante ad una banana che ad una mano.  Col tempo avrei imparato che il gesto di stringersi la mano non è molto comune tra gli algerini o tra i mussulmani in generale…

A questo punto presi il mio passaporto e glielo mostrai. Si avvicinarono gli altri colleghi e uno di loro che dai gradi sembrava essere il capo, in francese mi chiese dove andavamo. Lo informai che stavamo dirigendoci ad Algeri dove dovevo lavorare per l’Università. Mentre parlavo con lui notai che gli altri stavano confabulando e guardavano Silvia con insistenza. Uno di loro disse qualcosa al maggiore e lui mi chiese in modo brusco, chi fosse la donna che era a bordo. In un paese mussulmano o tu sei sposato oppure se hai vicino una femmina quella è una prostituta, questo lo sapevo, quindi dissi che era mia moglie e che ci eravamo appena sposati prima di partire. Il problema era che Silvia aveva capelli molto lunghi e neri, gli occhi scuri e avrebbe potuto sembrare di origini arabe. Capii al volo quello che poteva succedere, quindi afferrai il passaporto di Silvia e lo mostrai al maggiore che stava già dando ordini ai militari di farla scendere. A questo punto il maggiore, cambiò tono, si raddolcì e ci invitò a proseguire il nostro viaggio. Con il cuore in gola lo ringraziai e saltai in macchina, misi in moto e partimmo di gran carriera. Silvia che non parlava francese non aveva capito cosa stava succedendo ma aveva intuito dalla tensione che c’era un problema che la riguardava anche perché i militari avevano fatto numerosi cenni rivolgendosi a lei. Mentre guidavo e le spiegavo i fatti, mi domandavo se la sua presenza al mio fianco non avrebbe potuto creare nei prossimi giorni degli altri problemi. 

Avvicinarsi ad una grande città può essere sempre  problematico, soprattutto se non ci sei mai stato. A maggior ragione in un paese come l’Algeria. Io conoscevo l’indirizzo di due cooperanti che lavoravano presso l’Università che stavano facendo anche loro il servizio civile, perché mi era stato dato dalla Ong che mi aveva sponsorizzato: citè de Bainem, Ain Benian, Alger! Non avevo alcuna idea di dove potesse trovarsi questo luogo e quindi arrivati nei pressi della periferia, cominciai a chiedere ai passanti. Dopo alcune estenuanti spiegazioni in un francese algerinizzato, mi sembrò di capire che Ain Benian si trovasse all’estremità ovest di Algeri e quindi esattamente dal lato opposto della città. Erano le 18 e la strada era densa di traffico di uomini, animali, mezzi scassati e camionette col cassone straboccanti di tutto l’immaginabile. Dopo aver percorso circa 25 km in mezzo al caos più totale, la strada cominciò a costeggiare la corniche e, superato un sobborgo che si chiamava Pointe Pescade ( i cartelli stradali erano bilingue), arrivammo a Ain Benian e dopo circa un km sulla sinistra ci apparve la Cité de Bainem o meglio una serie di palazzine stile case popolari su tre piani poste lungo la collina che saliva verso la foresta. Di fronte alla prima casa c’era un parcheggio e mi fermai esausto. Alla finestra del secondo piano affacciato a prendersi il fresco della sera individuai un tizio che non era sicuramente un algerino. Capelli biondi lunghi sulle spalle, barba incolta,  a torso nudo. Quando ci vide scendere d’auto ci fece un cenno di saluto e un istante dopo era vicino a noi sul parcheggio. Si chiamava Franco ed era il mio contatto ! Ci invitò a salire su a casa e da subito si mostrò molto collaborativo. L’appartamento , un F3 come veniva comunemente definito, cioè tre camere, disponeva di due camere da letto, un soggiorno, una cucina, un bagno e un ripostiglio. Arredato per modo di dire, con poche cose, due brande, un tavolo su cavalletti in sala da pranzo , due materassi di gomma spugna per terra a mo’ di divano con sopra delle coperte algerine  colorate e dei cuscini a righe. Un balcone di fronte alla cucina aveva delle sbarre in cemento che nascondevano il panorama ma che si capiva essere un elemento architettonico appositamente studiato per evitare che da fuori si potesse vedere l’interno. Uno scaldabagno a gas sopra il lavandino garantiva la produzione di acqua calda, una  stufa a gas posta nel corridoio che distribuiva le stanze, il riscaldamento. Il bagno con una vasca di quelle con la seduta (credo di non averne mai viste in Italia) era separato dal wc che era rigorosamente alla turca con rubinetto sulla destra sostitutivo del bidet. Dalla finestra del soggiorno si poteva godere di una bella vista sul mare al di là delle casupole poste dall’altro lato della strada. Un piacevole odore di aria salmastra veniva trasportata dalla brezza serale. Il collega di Franco che abitava con lui, era in vacanza in Italia e non sarebbe rientrato prima di due settimane per cui noi ci sistemammo nella sua camera. Gli mancavano solo due mesi per terminare il servizio civile, quindi io avrei preso il suo posto. In seguito avrei capito quanto ero stato fortunato perché l’alloggio, negli accordi di cooperazione tra l’Università e il Governo italiano, doveva esser fornito dagli algerini e non era assolutamente evidente che nel giro di pochi giorni avrei avuto una sistemazione.

Mentre stavamo scaricando il bagaglio dall’auto una piccola folla di curiosi si avvicinò. Alcuni conoscevano Franco e scambiarono alcune parole con noi mentre scaricavamo e si resero disponibili a darci una mano a trasportare su al secondo piano le nostre cose. Franco ringraziò ma disse loro che non era necessario. Dopo ci spiegò che era meglio che la gente non vedesse cosa trasportavamo perché avrebbero potuto venire a rubare nell’appartamento una volta che noi fossimo usciti. Dato che all’Università si lavorava di domenica e di martedì e che era giovedì, avevamo un paio di giorndi tempo per sistemare le nostre cose e gettare uno sguardo nei dintorni della cité per capire dove ci trovavamo. Al mattino seguente, presi Silvia per mano e scendemmo per fare un giro nei dintorni. Lei voleva rendersi conto di dove mi avrebbe lasciato forse anche per sapermi immaginare quando fosse rientrata a Roma. Stavamo insieme da quasi 7 anni e la mia decisione di fare il servizio civile e quindi di allontanarmi per due anni non era stata semplice da prendere. Lei aveva un’attività con sua madre e non avrebbe potuto comunque seguirmi in Algeria. Avremmo dovuto restare separati per molto tempo e entrambi sapevamo che non sarebbe stato facile. La Cité era adagiata su un pendio che saliva verso la foresta. Le ultime due palazzine in alto erano state costruite in prossimità di un bosco misto di eucaliptus, lecci, pini e un forte odore di resina veniva trasportato dalla brezza di terra per poi mescolarsi con il forte odore salmastro che veniva dal basso. Una miscellanea di odori di cucine in attività, spezie e fognature non funzionanti, pervadeva la parte alta della Cité sospinta dal vento che arrivava dal mare. Gli spazi che separavano le abitazioni, posti su gradoni, erano mal tenuti, sporchi e attrezzature per far giocare i bambini mezze distrutte e arrugginite costellavano l’area. Sul lato destro delle abitazioni, una strada asfaltata conduceva verso la foresta e la zona di Bouzareah, un quartiere popoloso posto sulle colline. A poche decine di metri dall’ingresso della nostra palazzina c’era una Moschea con annessa scuola coranica. Scendendo verso il mare, attraversato un grande spiazzo di terra battuta, dall’altro lato della strada, c’era un locale dove si vendevano bibite e vino. Sì, perché pur essendo un paese mussulmano, il vino veniva venduto comunemente. Magari non era esposto in bella mostra nelle vetrine dove invece campeggiavano improbabili liquidi colorati analcolici dai nomi più suggestivi come “cokcola” oppure” sebaaup” a base di acqua e zucchero e aromi sintetici, ma se chiedevi al negoziante, immediatamente ti portava nel retro e ti dava la possibilità di scegliere tra: blanc de blanc, pelure d’ognons’ o cuvée du president, bianco, rosé e rosso rispettivamente, tutti made in Algeria e tutto sommato neanche pessimi! Il risultato della presenza di questi vini in quella boutique avremmo avuto modo di scoprirlo a distanza di qualche giorno. 

Finito da poco di cenare, saranno state le 21,30, affacciati alla finestra del salottino ci stavamo godendo una bella arietta fresca che veniva dal mare. Avevo portato alcuni kg di pasta italiana da casa e Silvia aveva preparato un sughetto all’arrabbiata con grande gioia e soddisfazione di Franco che era ormai stufo di pasti a base di scatolette e riso scondito. Numerose automobili nel frattempo si erano parcheggiate nella superficie in terra battuta che separava il parcheggio sottostante la nostra palazzina dalla strada prospiciente la vendita di alcolici. Evidentemente quel luogo era un punto di ritrovo per i giovani algerini che dopo aver passato giornate insoddisfacenti sia dal punto di vista lavorativo(ammesso che avessero un lavoro), che da quello delle relazioni umane (intendo con il sesso femminile), cercavano nel vino e nella compagnia delle sharmute (prostitute), uno sfogo alle loro frustrazioni. Infatti Franco ci confermò che quel locale fungeva anche da bordello. Improvvisamente dall’altro lato della strada sì fermo un’auto dopo una grande frenata. Ne scesero  due uomini che si precipitarono all’interno. Rumore di cocci rotti e grida ci arrivarono alle orecchie. Nel giro di alcuni minuti una decina di energumeni uscirono ed iniziarono ad azzuffarsi a suon di pugni e di bottiglie rotte in testa. Alcuni,in evidente stato di ebbrezza, si dimenavano e puntualmente finivano per terra calpestati e presi a calci. Dal piccolo centro abitato posto alle spalle del locale verso il mare affluirono altre persone, probabilmente richiamate dal gran casino e dalle urla e si buttarono nella mischia. Cominciarono ad apparire i primi coltelli che alla luce  giallastra dei lampioni stradali brillavano sinistramente nelle loro mani. Qualcuno rimase per terra e venne trascinato via dai compagni. La rissa durò circa una ventina di minuti e fu interrotta dall’arrivo di due pattuglie di Darak al Watani probabilmente chiamate dal proprietario del bordello che non ci teneva a che il suo locale finisse in pezzi. I militari cominciarono a picchiare sodo e a manganellate rapidamente ridussero i più esagitati a miti consigli. Arrivò anche un camion cellulare nel quale vennero fatti salire quasi tutti quelli che non erano riusciti a scappare all’arrivo dei militari. Un paio di soldati entrarono dentro il bordello e dopo circa una decina di minuti ne uscirono trascinandosi appresso un gruppetto di donne, verosimilmente l’oggetto e la causa della rissa. Ci guardammo negli occhi e Silvia che era terrorizzata mi disse che chissà che fine avrebbero fatto quelle poverette! 

Quello che avevamo visto solo tre giorni dopo il nostro arrivo ad Algeri unito al battesimo di Skikda, non ci rassicurava molto e Silvia che doveva rientrare in Italia il sabato seguente era molto preoccupata. La notte la passammo in bianco parlando del nostro futuro e di quella separazione che sarebbe dovuta durare ben due anni, anche se avrei avuto modo di rientrare in Italia qualche volta. Accoccolata tra le mie braccia pianse silenziosamente. Capiva che la vita cui andavo incontro e che avevo scelto, avrebbe sicuramente lasciato nel mio carattere e nel mio cuore dei segni indelebili che probabilmente ci avrebbero allontanato. 

Fabrizio de Robertis

Di THEMILANER

foglio informativo indipendente dell'associazione MilanoMetropoli.org

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