Il dossier completo sull’operato del governo del cambiamento: i disegni di legge, i decreti, i rapporti con le opposizioni, le presenze e le assenze paragonate agli esecutivi che lo hanno preceduto
I primi mesi del governo M5s-Lega in numeri e dati analizzati in rapporto agli esecutivi precedenti. Il rapporto AGI/Openpolis, aggiornato al 14 dicembre, mentre la discussione della legge di Bilancio era ancora in corso, consegna una fotografia che conferma “l’atipicità” del governo Conte, nato, dopo un’attesa di 90 giorni, dalle nozze “tra due forze avversarie durante la tornata elettorale”.
L’azione di governo a Palazzo Chigi
Nei primi 6 mesi di governo si sono svolte 29 riunioni del consiglio dei ministri, il numero più basso dal governo Letta ad oggi. In media gli incontri sono durati un’ora, seguendo ormai un trend consolidato che vede gli incontri a Palazzo Chigi sempre più brevi. Se durante il governo Letta duravano in media 1h 47min, con il governo Renzi siamo scesi a 1h 10min, per stabilizzarsi dal governo Gentiloni ad oggi sull’ora. Cinquantuno i provvedimenti legislativi deliberati tra disegni di legge, decreti legge e decreti legislativi, in linea con quanto avveniva nei governi precedenti.
Prima di entrare nello specifico di questi atti, è giusto ricordare che nell’attuale equilibrio istituzionale del nostro paese, il principale strumento legislativo è diventato il decreto legge. Nonostante infatti nasca per affrontate situazioni eccezionali e di emergenza, viene sempre più utilizzato per implementare l’agenda di governo, monopolizzando la produzione normativa del parlamento. Il governo Conte in questo non ha fatto eccezione.
Le poche proposte di governo
Se si vuole quindi analizzare l’azione di governo non si può non partire da un’analisi dei decreti legge emanati dallo stesso. Dei quattro governi analizzati l’esecutivo Conte è quello che nei primi 6 mesi di attività ne ha deliberati di meno. Un aspetto che di per sé potrebbe essere positivo, ma se non controbilanciato dalla presentazione di disegni di legge, rischia di lasciare la mole di proposte legislative relativamente bassa.
I dati ci raccontano esattamente questa dinamica. Dei quattro governi analizzati, solo l’esecutivo Gentiloni aveva presentato meno provvedimenti nei primi 6 mesi di governo. Escludendo le ratifiche dei trattati internazionali, il governo Conte ha deliberato in consiglio dei ministri 21 provvedimenti (11 decreti e 10 disegni di legge), 2 in più del governo Gentiloni che però aveva presentato più decreti legge. Va anche detto che il governo Gentiloni arrivava in un momento storico differente: alla fine di una legislatura già avviata, dopo altri 2 governi a guida Pd, e quindi con meno necessità di implementare una determinata agenda di governo. Come anticipato il confronto più calzante è con il governo Letta, nato in un contesto analogo e con presupposti simili: l’esecutivo nei primi 6 mesi deliberò 16 disegni di legge (senza contare le ratifiche dei trattati internazionali) e 15 decreti legge, per un totale di 31 provvedimenti, 10 in più del governo Conte.
L’attività di governo in parlamento
Fare un’analisi dell’attività di governo deve per forza di cosa includere quanto è successo in parlamento in questi primi 6 mesi. L’attesa per la nascita dell’esecutivo Conte ha notevolmente rallentato la reale partenza delle attività alla camera e al senato. Una serie di organi chiave infatti, come le commissioni permanenti, non potevano formarsi in assenza di una chiara maggioranza politica.
Le leggi approvate
Da inizio legislatura sono state approvate 19 leggi, di cui il 79% sono di iniziativa governativa. Il dato della produzione legislativa è il più basso tra i 4 governi presi in considerazione. I 2 esecutivi precedenti guidati da Renzi e Gentiloni, non propriamente paragonabili in quanto agevolati da una legislatura già avviata, nei primi 6 mesi avevano accompagnato l’approvazione di circa 50 leggi. Anche il governo Letta però, il più adatto a un paragone, aveva fatto registrato un numero più alto rispetto all’attuale esecutivo. Nei primi 6 mesi le leggi approvate dal parlamento erano state 26, il 40% in più rispetto all’attuale esecutivo.
È entrando nelle specifico dei testi approvati però che emergono ulteriori differenze con gli esecutivi precedenti. Quasi 2/3 delle leggi approvate dall’attuale parlamento sono conversioni di decreti legge. Dal 2013 ad oggi si tratta della percentuale più alta: con il governo Letta erano il 50%, il 30,36% con il governo Renzi, il 16% con l’esecutivo Gentiloni e oltre il 61% con l’attuale governo. Se nelle intenzioni della maggioranza c’era quella di rimettere il parlamento al centro delle dinamiche legislative, certamente quello che sta avvenendo va nella direzione opposta.
Oltre ai 12 decreti convertiti in legge, di cui 4 erano stati lasciati in eredità dal governo Gentiloni, in questi primi 6 mesi di maggioranza giallo-verde sono stati approvati anche 2 testi collegati al bilancio (assestamento 2018 e rendiconto 2017) e 1 trattato internazionale. Delle altre 4 leggi ordinarie approvate, 2 sono per l’istituzione di commissioni d’inchiesta (eco-reati e anti-mafia), uno per la sicurezza dei bambini nei veicoli e un ddl sulla disciplina processuale dei giudizi innanzi alla corte dei conti.
Le leggi approvate nei primi 6 mesi
La trattazione dei decreti in parlamento
Quando un decreto arriva in aula deve ottenere l’approvazione di camera e senato sul medesimo testo. Questo ovviamente lascia spazio a deputati e senatori di intervenire sulla proposta di legge per cercare di introdurre elementi nuovi o modificarne di già presenti. In un sistema parlamentare in cui l’iniziativa legislativa è sempre più in mano al governo, specialmente tramite decreto, la presentazione e conseguente approvazione di emendamenti è quel poco di margine che deputati e senatori hanno per influire sulla produzione normativa del parlamento.
In questo contesto, analizzare quanti emendamenti vengono approvati sui decreti del governo in discussione permette di monitorare quale ruolo venga effettivamente dato dall’esecutivo a camera e senato. In che misura si considera il parlamento un luogo in cui migliorare i provvedimenti del governo?
Nei primi 6 mesi di governo Letta, nella trattazione parlamentare dei decreti legge, sono stati approvati in media 128 emendamenti a provvedimento. Durante il primo semestre di governo Conte la media è invece di 44, quasi tre volte in meno rispetto a quanto fatto dall’esecutivo Letta. Numeri che mostrano quanto il peso della discussione in parlamento sia stato diverso nei due periodi presi in considerazione.
A che punto sono le proposte dei parlamentari
Oltre alle proposte del governo, che generalmente hanno più probabilità di diventare legge, in parlamento vengono trattate anche le proposte normative di deputati e senatori. Un disegno di legge segue generalmente il seguente iter: viene depositato, assegnato ad una commissione, luogo in cui aspetta di essere preso in esame per iniziare la sua trattazione. Una volta iniziato l’esame vengono scritte le relazioni da parte dei relatori, prima di concludere l’esame in commissione. Se approvato, a quel punto il provvedimento passa all’aula per la discussione ed eventuale approvazione.
Da inizio legislatura sono state depositate 2.326 proposte di iniziativa parlamentare, di cui oltre 2.200 hanno un iter non concluso, non essendo state approvate o ritirate.
Analizzando i dati di queste proposte, e confrontandoli sempre con l’esecutivo che ha iniziato la scorsa legislatura, appare evidente quanto la fase di stallo e studio parlamentare sia ancora in corso. Dopo i primi 6 mesi di governo Letta il 77% dei provvedimenti di iniziativa parlamentare erano già stati assegnati alla commissione competente, per il governo Conte la percentuale scende al 59,10%. E ancora, sotto il governo Letta solo il 5,65% delle proposte di iniziativa parlamentare erano ancora da assegnare ad una commissione, mentre attualmente la percentuale è al 35,59%. Infine nel primo semestre della scorsa legislatura delle oltre 2.000 proposte legislative di deputati e senatori, il 14,88% erano già in corso di esame in commissione. Durante i primi 6 mesi del governo Conte la percentuale di disegni di legge di iniziativa parlamentare che hanno avviato il proprio iter in commissione è ferma al 5,04%.
Al di là dei numeri, e mettendo insieme i diversi elementi analizzati fin ad ora, appare evidente che sia la produzione legislativa, che l’attività quotidiana in parlamento, sono state completamente in mano al governo, e hanno lasciato ben poco spazio a deputati e senatori. A inizio legislatura la maggioranza giallo-verde aveva evidenziato la volontà di rimettere il parlamento al centro del dibattito politico, ad oggi sembra che si stia andando nella direzione opposta.
Cosa ha discusso il parlamento?
Un altro modo per tastare il polso alla vivacità del dibattito parlamentare, è attraverso un’analisi dei voti finali. Quanto è stato difficile per il governo far approvare i disegni di legge che sono stati votati dall’aula?
In oltre il 50% dei voti finali in parlamento sono stati solo il 5% o meno i parlamentari che hanno espresso parere contrario. E ancora, solo il 20% dei voti finali alla camera e il 23% di quelli al senato hanno registrato almeno il 30% di voti contrari. Questi numeri ci raccontano di votazioni poco combattute, e generalmente non controverse. Ad esclusione dei decreti legge, tutti gli altri provvedimenti che hanno avuto il via libera da almeno una delle due aule erano provvedimenti non “politici” e non divisivi. Tra ratifiche di trattati internazionali (che generalmente hanno un’approvazione bi-partisan), l’istituzione di commissioni d’inchiesta, l’approvazione di leggi annuali (vedi legge europea o legge di delegazione europea) e la discussione di provvedimenti dal basso impatto normativo, camera e senato sono state impegnate in questi mesi con proposte di legge poco politicizzate. Se quindi i decreti legge sono stati pochi, come i disegni di legge di iniziativa governativa, è anche vero che in questi mesi non sono state discusse in parlamento proposte che controbilanciassero questa mancanza.
L’attività dei ministri
L’analisi di quanto fatto da ministri, viceministri e sottosegretari in parlamento può prendere diverse direzioni.
La prima di queste direzioni riguarda una possibilità permesse dal nostro impianto normativo. In Italia, a differenza di quanto avviene in Francia per esempio, gli incarichi di membro del governo e del parlamento sono compatibili. Questo vuol dire che i ministri, viceministri e sottosegretari, se eletti nell’ultima tornata elettorale, possono continuare a svolgere il loro incarico di deputato e senatore. Attualmente oltre il 75% dei membri del governo fanno anche parte del parlamento e questo, per ovvi motivi, limita fortemente la loro capacità di partecipare ai lavori dell’aula. I deputati e senatori in questione, per svolgere mansioni e attività collegate al loro incarico governativo, sono spesso in missione, e hanno quindi una percentuale molto bassa di partecipazione alle votazioni elettroniche dell’aula.
Tra i ministri i “peggiori” in questo senso sono alla camera Giulia Grillo, ministro alla salute del Movimento 5 stelle, con lo 0,27% di presenze, e al senato Matteo Salvini, vice primo ministro e a capo del Viminale, con il 2,52%. Il dato è sensibilmente basso, considerando che la percentuale media di presenze in aula è rispettivamente del 77,94% a Montecitorio e dell’86,63% a Palazzo Madama. Tra i viceministri e i sottosegretari la situazione non migliora. Alla camera i 3 con la percentuale più bassa di presenze sono Fioramonti (M5s – 1,12% di presenze), Giorgetti (Lega – 1,23%) e Castelli (M5s- 4,12%), mentre al senato abbiamo Merlo (Maie – 2,83%), Candiani (Lega – 6,12%) e Cioffi (M5s – 27,63%).
Ovviamente le colpe di questa situazione non sono tanto dei ministri che non partecipano ai lavori dell’aula, ma dell’impianto normativo che prevede questa possibilità. Svolgere due incarichi cosi importanti contemporaneamente appare essere difficile, e i dati delle presenze dei ministri, viceministri e sottosegretari alle votazioni dell’aula ne sono una chiara conferma.
Altro elemento significativo per valutare la relazione tra il governo e i membri del parlamento è lo strumento del sindacato ispettivo. Deputati e senatori hanno a disposizione una serie di atti per interrogare i ministri su determinate questioni, contestare le loro scelte, e chiedere chiarimenti su particolari criticità del paese. Tra questi strumenti abbiamo le interrogazioni a risposta scritta, che richiedono da parte del ministro competente la pubblicazione di una risposta su questioni sollevate da deputati e senatori. Da inizio legislatura ne sono state depositate circa 2.800, di cui solamente il 6% ha ottenuto una risposta scritta. Il dato è più o in meno in linea con quello degli esecutivi precedenti, ad eccezione del governo Gentiloni, quando la percentuale dopo 6 mesi era al 10,65%. Per Letta (6,02%) e Renzi (6,73%) i dati sono molto simili a quanto fatto registrare dall’esecutivo giallo-verde.
Entrando nel dettaglio dei singoli ministeri però emergono alcune differenze importanti. I due ministeri più sollecitati sono quello dell’interno (a guida Salvini) e quello dell’infrastrutture (a guida Toninelli). I due però hanno un tasso di risposta molto diverso: del 14% per il ministro del Movimento 5 stelle e del 6,18% per il leader della Lega.
Tra gli altri ministeri destinatari di un alto numero di interrogazioni, ce ne sono alcuni che sembrano non dare molta attenzione allo strumento. Il ministero della salute (Grillo – M5s) ha risposto solo a 1 interrogazione su 251, come anche quello dell’istruzione (Bussetti – Lega) con 1 risposta su 214. Anche presidenza del consiglio (1 su 175 – 0,57%), economia (0 su 163) e beni culturali (0 su 106), registrano dei dati particolarmente negativi.
Il sostegno al governo
La fase di attendismo che ha caratterizzato i primi mesi di governo Conte ha coinciso con un impiego molto limitato della fiducia. A differenza dei governi precedenti che hanno utilizzato i primi mesi per implementare riforme simbolo (vedi la promessa di una riforma al mese lanciata dal governo Renzi), e che quindi hanno utilizzato la fiducia per velocizzare il dibattito ed approvare più rapidamente determinanti provvedimenti, i primi 100 giorni del governo Conte, come visto, sono stati molto diversi.
Non a caso la prima questione di fiducia su un provvedimento in discussione è stata posta il 13 settembre sul milleproroghe, oltre 3 mesi dopo l’insediamento del governo. Da questo punto di vista quindi, proprio per il numero contenuto di proposte politiche, l’utilizzo della fiducia è stato particolarmente limitato.
Nell’ultimo periodo però, e l’avvicinarsi della sessione di bilancio, la situazione è notevolmente cambiata. Soltanto nei mesi di novembre e dicembre il governo ha posto 5 volte la fiducia: 2 volte sul decreto sicurezza, una sulla legge di bilancio, sul decreto fiscale e sul ddl anti-corruzione.
Il rapporto tra leggi approvate e voti di fiducia
Al 14 dicembre il governo Conte aveva posto 6 volte la fiducia su disegni di legge in discussione. Considerando i numeri assoluti siamo ben lontani da quanto registrato dai precedenti esecutivi Renzi e Gentiloni. I due esecutivi a guida Pd-Ncd avevano totalizzato rispettivamente 19 e 12 voti di fiducia nei primi 6 mesi di governo. Con numeri più bassi invece l’esperienza del governo Letta, che aveva utilizzato lo strumento solo 2 volte nel primo semestre alla guida del paese.
Il dato da tenere in considerazione però è quello che mette in relazione il numero di questioni di fiducia, con il numero di leggi approvate dal parlamento. Quest’analisi ci permette di comprendere il peso della fiducia sulla produzione legislativa dell’aula. Da questo punto di vista, considerando il limitato numero di leggi approvate dal parlamento, il rapporto per il governo giallo-verde è molto alto, al 31,58%. In media quindi, oltre il 30% delle leggi approvate in questa legislatura ha necessitato della fiducia per completare il proprio iter.
Dei quattro governi analizzati, solo l’esecutivo Renzi aveva registrato nei primi 6 mesi una percentuale più alta, del 33,93%. Più distante il valore per il governo Gentiloni (24%), e sensibilmente lontano il dato dell’esecutivo Letta (7,69%). Da questo punto di vista l’esperienza del governo Letta sembra essere stata su carta più propositiva dal punto di vista legislativo, e con un minor utilizzo della fiducia.
Se già mettere la fiducia in maniera ricorrente durante il dibattito parlamentare rappresenta un elemento negativo, utilizzare lo strumento 2 o più volte sullo stesso provvedimento è l’espressione massima di questa cattiva abitudine. Da questo punto di vista i primi 6 mesi del governo Conte sono stati però meno problematici dei precedenti due esecutivi. Renzi aveva posto la doppia fiducia in 5 diverse occasioni: decreto riforma Pa, decreto competitività, decreto droghe e farmaci off label, decreto irpef-80euro e il decreto jobs act. Su cifre analoghe anche il governo Gentiloni: ddl concorrenza, decreto migranti, decreto salva banche e il milleproroghe. Da inizio legislatura la doppia fiducia è stata utilizzata in una sola occasione, per l’approvazione in entrambi i rami del decreto sicurezza e immigrazione voluto dal ministro dell’interno Matteo Salvini. Ancora una volta l’esecutivo Letta registra il dato più virtuoso, non avendo mai posto due volte la fiducia sullo stesso provvedimento nel primo semestre di governo.
L’esito dei voti di fiducia
Il governo Conte ha una genesi simile a quella dei governi della scorsa legislatura: un’alleanza post voto tra schieramenti che erano avversari durante la competizione elettorale. In questo senso ha dovuto affrontare le stesse difficoltà che hanno affrontato i suoi predecessori, specialmente il governo Letta, cioè di mediare con un compagno politico nuovo, cercando i numeri necessari all’interno del parlamento per governare stabilmente. Come abbiamo avuto modo di raccontare nel nostro lavoro sui primi 100 giorni di governo, l’esecutivo nasceva con numeri poco rassicuranti, avendo uno scarto di maggioranza molto esiguo sia alla camera che al senato.
Nel corso della legislatura, e specialmente nei voti più recenti, le assenze hanno permesso al governo di ottenere la fiducia con un numero molto basso di voti favorevoli. Nel voto dello scorso 13 dicembre alla camera i Sì per il governo sono stati solo 310, ben 6 in meno della soglia abituale di maggioranza assoluta (316). E ancora, sempre nella stesa settimana ma questa volta al senato, il ddl anticorruzione ha ottenuto la fiducia con 162 voti favorevoli, uno solo in più rispetto alla soglia di maggioranza assoluta.
Conclusioni
Mentre viene finalizzato questo lavoro (17 dicembre 2018), il governo sta concludendo la partita sulla legge di bilancio 2019. Con dei tempi stretti, e un provvedimento così fortemente politico, è immaginabile che per il giorno di pubblicazione ulteriori questioni di fiducia verranno poste dall’esecutivo. Un discorso che oltre alla manovra, riguarderà da qui alla fine dell’anno probabilmente anche il disegno di legge anti-corruzione. È giusto quindi sottolineare che alcuni dati potranno essere non aggiornati, ma il senso delle conclusioni rimarranno valide.
I primi 6 mesi di governo Conte, come i primi 100 giorni d’altronde, sono stati atipici. La difficoltà di rodare una collaborazione politica tra 5stelle e Lega hanno preso in ostaggio il parlamento, congelandolo, e riducendo ancora di più il suo raggio d’azione.
Alcuni dei problemi emersi non sono nuovi: da un governo che monopolizza la produzione legislativa all’abusato ricorso alla fiducia, ma certamente il cambiamento tanto rivendicato dall’attuale governo è stato disatteso. Superato lo scoglio della legge di bilancio, sarà sicuramente da monitorare come varierà l’equilibrio tra i due partiti a Palazzo Chigi. Modifiche al famoso contratto di governo sono già state richieste da entrambe le parti, e con l’avvicinarsi delle elezioni europee nel maggio del 2019, questo potrebbe essere motivo di scontro, trattativa e, soprattutto, ulteriore stallo.