Milano, 26 giugno 2019 – Artie Shaw e Benny Goodman sono un’altra cosa, ma in fondo chi è mai andato a sentire Woody Allen suonare il clarinetto con la Eddie Davis New Orleans Jazz Band per avventurarsi in paragoni? Ci si va, come accadevenerdì prossimo agli Arcimboldi, per scoprire l’altra anima dell’icona del grande schermo. Un po’ come capita quando Johnny Deep, Russel Crowe, Kevin Costner, Jeff Bridges imbracciano la chitarra o, per rimanere nel jazz, Clint Eastwood si siede al pianoforte (pure con merito).

«So benissimo che la gente viene ad ascoltarmi perché sono un attore e regista», va ripetendo lui, che a Milano seguirà le ultime fasi della regia di “Gianni Schicchi” alla Scala. «Se dovessi vivere di sola musica morirei di fame. I miei modelli sono Sidney Bechet, George Lewis, Johnny Dodds, Albert Burbank. E, per il fatto che li cito, spero non si rigirino nella tomba». Complici prezzi da Carnegie Hall, in Italia stavolta è andata meno bene che in passato. Se, infatti, il concerto di Milano è confermato, quello di due giorni dopo a Firenze no. Periodo un po’ così per Woody, scaricato da Amazon – produttore del suo ultimo film “Un giorno di pioggia a New York” – a causa delle accuse della figlia adottiva, Dylan Farrow, e del polverone mediatico che ne è seguito. Ma nei cinema italiani la pellicola arriverà regolarmente il 3 ottobre prossimo.

Nonostante il lunedì sera si esibisca a Manhattan dagli anni Settanta, prima al Michel’s Pub poi al Cafè Carlyle, Woody non s’è mai tolto di dosso la naivété di un dilettante di talento. Era il 1971 ed aveva girato da poco “Il dittatore dello stato libero di Bananas” quando il regista fece una delle sue prime apparizioni nei panni di jazzman davanti alle telecamere del Dick Cavett Show rendendo pubblica quella che fino a quel momento era stata solo una passione privata. D’altronde il jazz è sempre stato al centro della sua vita come confermano le colonne sonore dei suoi film e perfino quel Woody che Allen se l’è preso da Woody Hermann, visto che lui in realtà si chiama Heywood Allen, anzi Allan Stewart Königsberg come è stato registrato all’anagrafe fino all’età di 17 anni. Pure le due figlie adottate assieme alla terza moglie Soon-Yi Previn, la cinese Bechet Dumain Allen e la coreana (nata in Texas) Manzen Tio Allen hanno nomi che rimandano a due miti del Woody musicista quali Sidney Bechet e Manzie Johnson. Quando in “Manhattan” l’ipocondriaco protagonista Isaac Davis mette il secondo movimento della sinfonia Jupiter di Mozart, Frank Sinatra, e la versione di “Potato headline blues” incisa da Louis Armstrong nelle cose per cui vale la pena di vivere, è in realtà Allen stesso a parlare. «Ricordo ancora l’emozione di quando nel ’96 a Milano si spensero le luci; ero spaventatissimo e avrei voluto tanto fuggire via, ma questo per fortuna in “Wild Man blues” (il docufilm di Barbara Kopple tratto l’anno successivo da quel tour – ndr) non si vede». Una forma di pudore che ha indotto il New Yorker più famoso del pianeta a rispedire al mittente tutte le richieste dei principali festival jazz europei. «Non mi sento abbastanza in gamba per affrontare appassionati di quel tipo», ha detto. «E poi la mia presenza su certi palchi rappresenterebbe un insulto per i jazzisti veri».

FONTE

Di the milaner

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