di Marcello Veneziani
Quest’estate ha trovato il suo eroe. È un uomo di novantadue anni, in Trentino, che fugge da una residenza per anziani, chiamatelo ospizio se preferite, e torna a casa sua con le sue gambe. Organizza per bene la sua fuga, mette anche dei cuscini al suo posto nel letto per eludere la sorveglianza e far credere che era ancora a letto sotto le lenzuola; percorre vari chilometri a piedi e infine ritrova la sua vecchia casa e vi si barrica dentro. Indipendentemente dall’esito della sua fuga romantica e vitale, purtroppo scontato, quell’uomo ha dimostrato tre o quattro cose.
La prima, che un uomo a novantadue anni non è finito, ma ha ancora volontà, capacità e autodeterminazione, riesce a trovare la strada da solo ma riesce soprattutto a trovare energie fisiche e mentali per costruire e portare a compimento la sua fuga; reagisce con un atto vitale all’idea di accettare la morte in forma rateale, giorno dopo giorno, nell’apposita anticamera. (Cotidie morimur, dicevano i latini). La seconda,che la solitudine dei vecchi è oggi siderale, assoluta, e non c’è Rsa che possa dar loro conforto e assistenza, quando mancano gli affetti primari e quel museo degli orrori che è considerata la famiglia, la grande latitante, pur con tutte le giustificazioni che può avere.
La terza, che la voglia di tornare a casa, è la voglia di tornare se stessi, di abbracciare il proprio mondo e il proprio passato, di ritrovare il luogo che ci vide giovani o solo meno vecchi, con tutta la costellazione di affetti, premure, consuetudini che danno un senso e un sapore alla vita.
Quanti vecchi come lui sognano di tornare a casa, di fuggire dagli ospizi variamente denominati, anche confortevoli, se non addirittura di lusso, per riprendere il flusso della vita, e magari concludere la loro esistenza non in un posto separato, asettico, privo di ricordi e di odori nostrani, ma laddove hanno vissuto, patito, gioito, faticato, amato. C’è un passaggio misterioso dell’età in cui il verbo vivere muta nel verbo campare; che è un sopravvivere, o comunque tirare avanti a malapena, con fatica e rassegnazione, ed è pur sempre il modo per “scampare” il male maggiore. L’anonimo eroe trentino, che è fuggito dall’Rsa interpretando il Ribelle jungeriano in chiave senile, e passando al bosco per poi tornare a casa, voleva tornare a vivere, non gli bastava più campare. Il suo gesto non è un’istigazione alla fuga riservata ai vecchi, ma è un messaggio per tutti coloro che non vogliono solo campare, ma vogliono vivere, nella pienezza del loro senso e dignità, pur con tutti i limiti e le incertezze di una condizione precaria, cagionevole; giacché la vecchiaia in sé, dice Cicerone, è una malattia, indipendentemente dai malanni che poi ciascuno soffre. Un gesto di fierezza e dignità, ma anche una ricerca estrema di felicità nella dimensione più genuina, quella di tornare alle proprie cose, alla propria vita, alla padronanza della propria esistenza attraverso un piccolo universo sentito come il proprio habitat. Una dichiarazione d’indipendenza, un sovranismo senile e individuale ma che riapre un mondo di affetti, di nostalgie, di relazioni perdute.
Mi è capitato in passato, di ricordare una tenera e struggente poesia di un poeta mio compaesano, vissuto a cavallo tra l’ottocento e il novecento, Riccardo Monterisi. Era il tempo in cui le famiglie povere, con tanti figli e poco da mangiare, portavano i loro vecchi ai Cappuccini, l’ospizio in cui s’andava a morire. E un uomo, un padre di famiglia, aveva caricato sulle sue spalle il suo vecchio padre per andarlo a lasciare là, dai Cappuccini. Andava con la morte nel cuore, sapendo di condividerla col suo vecchio padre. A un certo punto, a una salita, si fermò per riprendere fiato ed energia. E in quella pausa il suo vecchio padre disse che tanti anni prima, proprio in quel punto, anche lui con suo padre caricato sulle spalle, si era fermato, per riprendere forza e proseguire il cammino. Dopo averlo ascoltato in silenzio, suo figlio come rinvigorito da una nuova energia caricò suo padre sulle spalle, andando però nella direzione opposta. Suo padre allora gli disse che i Cappuccini erano dall’altra parte, stava sbagliando. E lui rispose, ruvido, essenziale, che sarebbero tornati a casa, perché dove si sfamano sei bocche se ne possono sfamare sette. Finché campo…
L’ho citata in modo impreciso, non l’ho davanti a me, ma solo negli anfratti della memoria e del cuore; però quella lezione di vita e di umanità è di una purezza essenziale, grandiosa. Era una società povera e affamata quella, non c’era da salvaguardare il proprio tenore di vita, la propria libertà, il divertirsi, ma si doveva faticosamente vivere, mangiare, dormire in un letto, sotto un tetto, ripararsi dal freddo e dalla fame. Eppure…
Sono realista, non pretendo da nessuno che si riporti sulle spalle suo padre, sua madre, a casa. Però invito ad allargare lo sguardo, a capire la vita anche dal punto di vista degli altri, a vedere il mondo con altri occhi, sotto altre luce; ad aprirsi, caricarsi sulle spalle la vita, munirsi di coraggio e di pazienza, che sono poi gli ingredienti veri della forza d’amare. Poi certo, ci scontreremo con i nostri limiti, le nostre fragilità, le nostre buone ragioni. Però quel giovanotto di 92 anni, eroe della vecchiaia che non si arrende, ci dice qualcosa e noi non possiamo fare finta di niente, mettere un like sulla sua bella storia e passare ad altro… La vita vera ci chiama e noi non possiamo voltarci dall’altra parte, scrutando il vuoto e il nulla, di fuori e di dentro.
La Verità – 4 agosto 2023
Splendido, grazie per questa VITAlità🤗.