Passaggio a Merka

Il colore rosato delle pietre che costituivano le pareti della casa tradiva la provenienza dal corallo. Sullo spigolo  del muro ormai arrotondato dai secoli, dal vento,  e dalla sabbia innumerevoli mani si erano posate  mentre la gente passava nell’angusto vicolo che conduceva alla casa situata a poche decine di metri dal porticciolo del villaggio. Alcune donne con delle giare in equilibrio precario sulla testa mi precedevano lungo il sentiero. Non era possibile che l’arrivo di un bianco a Merka non fosse preceduto da grida e richiami di vario genere. Soprattutto perché a Merka si arrivava solo dalla spiaggia e non dalla strada posta  nell’interno completamente disastrata e quindi intransitabile. Quindi già a diverse centinaia di metri era possibile scorgere qualsiasi automezzo si stesse dirigendo verso la cittadina suscitando la curiosità degli abitanti e  soprattutto dei bambini.

Quella mattina, dopo aver effettuato un giro per il campo base ormai completato e operativo al 100%, avevo deciso di passare per la  cava dove avevamo iniziato a raccogliere il materiale corallino frantumato per il rilevato della strada e a trasportarlo lungo  tutto il  tracciato  tra Afgooyee e Golwein ammonticchiandolo ogni tot km in grossi cumuli  in modo tale da garantire agli operatori di fare il meno cammino possibile al momento della stesa del materiale. Quindi c’era un grandissimo traffico di mezzi nel tragitto tra la cava e le due estremità della strada. I dumper Perlini sollevavano un polverone bestiale e la visibilità era scarsa. Mi era stato comunicato che mancava un camion all’appello la sera precedente e alcuni assistenti avevano percorso tutto il tragitto ma col sopraggiungere del buio erano rientrati senza aver trovato  nulla.

Avevo quindi deciso di mettermi alla ricerca del mezzo e avevo chiesto a Cristina se voleva seguirmi in questa caccia ai ladri.  Aveva accettato con gioia. Già da qualche giorno la stavo ospitando nella nostra resthouse dopo che  aveva preferito allontanarsi dalla casa dove viveva con il marito.( Il suo matrimonio era  ormai finito da tempo). La allegra brigata dei  professori dell’università, tra cui appunto il marito, tutti in Somalia con supercontratti di esperti del  Ministero degli Esteri Dipartimento della Cooperazione allo Sviluppo, aveva organizzato nel tempo libero, delle “lezioni private “per le  studentesse  dei loro corsi. Il risultato era stato che Cristina, dopo un chiarimento aveva deciso di prendere  le sue cose, di lasciarlo e di rientrare in Italia.

Iniziammo a seguire la pista che conduceva alla cava cercando di vedere se c’erano delle tracce evidenti  del passaggio del grosso mezzo che uscivano dal tracciato. In effetti dopo alcuni km, al limitare di una duna di sabbia alta una ventina di metri, sulla destra notai che il solco lasciato dagli assi dei dumper sulla pista si interrompeva bruscamente e alcuni alberelli di acacia erano stati schiacciati. Sicuramente il mezzo era passato da lì.  Mi inoltrai in mezzo alla boscaglia seguendo le tracce e dopo circa 2 km arrivammo sul mare. Le cose dovevano essere andate così: L’autista , dopo aver scaricato il materiale lungo la strada, era tornato verso la cava, aveva  bypassato l’impianto di frantumazione lasciandoselo alle spalle senza farsi notare , evitando quindi  di transitare per il posto di controllo  predisposto prima di entrare in cava proprio per poter contare il numero di viaggi che effettuava ogni singolo camion.

Dopo tante ore, le tracce sulla battigia erano ormai scomparse perché cancellate dal sopravvenire dell’alta marea. Il furbacchione aveva previsto tutto ! Ma aveva fatto i conti senza  sapere  che che io ero più ostinato di lui. Iniziai quindi a correre lungo il mare in direzione di Merka. Come accennavo prima ,il nostro arrivo nei pressi del villaggio non passò inosservato e frotte di ragazzini ci corsero incontro gridando. Quando parcheggiai l’auto ci circondarono ed iniziarono a chiederci cose, alcuni  salirono sul cofano. A quel punto mi venne un’idea: se erano venuti incontro a noi, sicuramente avevano fatto lo stesso a maggior ragione con il dumper Perlini, gigantesco e lanciato a tutto gas lungo la spiaggia. Avevo bisogno di parlare con loro e quindi di chiedere ad un abitante del luogo che parlava italiano di fare le domande giuste al posto mio. Entrammo a piedi nella piazzetta adiacente al porticciolo e ci inoltrammo nel dedalo di viuzze seguendo un cartello sbiadito che indicava un ristorante, sempre seguiti dal nugolo di ragazzini.

In effetti dopo una cinquantina di metri arrivammo all’entrata di una casa con un insegna che ci faceva presumere che lì si poteva mettere qualcosa sotto i denti. Il vocio dei ragazzini scatenò le urla di una donna che uscì imbestialita con in mano un bastone la cui durezza aveva sicuramente intenzione di provare sulla loro  schiena, ma quando ci vide si ricompose si scusò e  in perfetto italiano ci fece cenno di entrare. Sulla quarantina, bei lineamenti, occhi profondi scurissimi, aveva una brutta cicatrice che le deturpava la guancia. Le chiesi come si chiamasse. Il suo nome era  Aamiina ed era sposata con un italiano che viveva a Merka da più di venti anni. Le spiegai la situazione e le chiesi di fare delle domande ai ragazzi a proposito del dumper. La mia intuizione si rivelò giusta. Il mezzo era transitato il pomeriggio precedente, aveva percorso una pista che contornava il villaggio ed aveva proseguito in direzione sud ovest verso l’interno. (In realtà la direzione era approssimativa ma abbastanza verosimile in quanto l’autista doveva cercare un luogo non in vista ove smontare il mezzo con calma senza dare nell’occhio e lungo la spiaggia non c’erano nascondigli). Questo sempre che invece non avesse optato per portarlo fino in Kenya ma lo escludevo perché gli ci sarebbe voluta una cisterna di carburante per arrivarci. Ringraziai la donna, le dissi che saremmo tornati un’altra volta per pranzare e partimmo di corsa a riprendere l’auto per continuare l’inseguimento.

Dopo aver contornato Merka la pista si biforcava, una parte andava verso il mare, l’altra s’ inoltrava  nell’interno. Man mano che  proseguivo in mezzo alla savana la terra diventava sempre più rossa e fina. Dovevo procedere con le marce ridotte e ad alta velocità perché c’era il rischio di piantarsi nei punti in cui il vento aveva accumulato più strati di sabbia.  Erano le due del pomeriggio e non avevo tanto tempo a disposizione in quanto alle 16 la marea avrebbe iniziato a risalire rendendo il mio viaggio di rientro a Mogadishu molto problematico. Dopo una serie di saliscendi piuttosto ripidi la pista si allargò e alla base del costone di roccia che seguiva verso il basso vidi che c’era una specie di cava per il prelievo della sabbia.  Un vecchio escavatore  su cingoli era parcheggiato in fondo . Numerose tracce di mezzi d’opera mi segnalavano che in quel luogo si caricava del materiale attivamente. Più in là la pista terminava in un boschetto di acacie.  Non c’era anima viva. Si sentiva solo il rumore del vento. Nessuna traccia del dumper. Cominciavo a perdere la speranza.  Scendemmo per dare un’occhiata intorno e salimmo sopra una montagnola di sabbia alta una decina di metri…la sabbia sembrava essere stata accumulata recentemente. Quel luogo era strano , c’era qualcosa che non mi convinceva. Perché il dumper era stato portato fin lì? Per usarlo per trasportare del materiale? C’era qualcosa che non quadrava. Stavo per andare verso l’auto per   tornare indietro, quando mi ricordai di  una storia che mi era stata raccontata in Gabon da un guardacaccia. Dei bracconieri avevano ucciso un elefante per togliergli le zanne ma erano stati intercettati  da un elicottero che aveva trasmesso via radio  ai guardacaccia  le coordinate. Quando i militari erano arrivati sul posto non avevano trovato né i bracconieri né l’elefante e pensando di aver sbagliato posto erano tornati alla base. In realtà l’elefante era stato completamente sepolto  sotto la sabbia diventando così invisibile. Allora pensai che era l’ennesima favola africana come quella del pescatore che era stato inghiottito dall’anaconda mentre dormiva sulla riva del fiume e si era svegliato mezzo dentro e mezzo fuori dalle fauci del  serpente. Guardai l’escavatore, il punto da cui avevano estratto la sabbia, considerai la dimensione della montagnola su cui mi trovavo, quindi  scesi di corsa  e estrassi dall’ auto una pala che portavo sempre con me. Aggredii  con foga il cumulo di sabbia circa a mezza altezza e iniziai a scavare come un forsennato. Cristina mi osservava muta e stupita. Dopo circa venti minuti di scavo la pala urtò contro una superficie metallica. Avevo trovato il bordo superiore della cabina del dumper. I ladri non  volevano smontare solo qualche pezzo ma tutto il mezzo e con questo strattagemma avrebbero atteso che le acque si fossero calmate per poi portarlo in un luogo sicuro dove procedere alla demolizione totale. Tornammo rapidamente sui nostri passi e dopo una corsa a tutta birra lungo il bagnasciuga  dove le onde ormai lasciavano pochi metri di sabbia dura  su cui  appoggiare le ruote, sollevando schizzi e spruzzi altissimi, giungemmo all’impianto di frantumazione dove avevamo un posto radio. Comunicai al campo dove trovare il dumper e chiesi al nostro Captain Mohamed Aden Scheick di mandare nel frattempo i suoi uomini a pattugliare la cava prima dell’imbrunire. Lessi negli occhi di Cristina la felicità di aver partecipato insieme a me ad un’avventura che sicuramente non era nei suoi piani quando era sbarcata all’aeroporto di Mogadishu alcuni mesi prima. Sulla via del ritorno la stringevo a me e pensavo che quello che stavamo vivendo in questi giorni non l’avremmo mai dimenticato indipendentemente da come sarebbe stata la nostra vita nei mesi a venire. Il sole si abbassava sempre più sull’orizzonte creando riflessi colorati sulle dune che cambiavano colore dal rosso infocato al rosa pallido mentre alcune gazzelle spaventate dal rumore fuggivano disordinatamente in tutte le direzioni.