La mosca del mango

Tumbu fly o putsi fly (cordylobia  antropophaga) ha un ciclo molto rapido. In un clima caldo umido come quello della West Africa la mosca del mango deposita le uova sulla sabbia e a maggior ragione su un supporto più comodo e umido come un telo di spugna. Appoggiandosi sul telo con la schiena o la pancia, oppure strofinandosi per asciugarsi, le uova entrano sotto la pelle. In capo a tre giorni si schiudono e le larve iniziano la loro vita sottocutanea creando infiammazioni e dolori intensi ed insopportabili al malcapitato.  Quando il periodo di incubazione finisce la larva lascia l’ospite umano   e  cadendo per terra  inizia il  nuovo ciclo diventando una pupa che poi si trasforma in mosca.

Era la mattina del 24 dicembre verso le 9 quando un  gruppo di turisti inglesi, tre donne e due uomini   arrivarono  sulla spiaggia di Sussex dove Franco ed io stavamo pulendo due grosse ricciole che avevamo appena preso. Il sole scaldava già molto ma una bella brezza dal mare rinfrescava l’aria. Il profumo intenso dello iodio e l’odore acido delle alghe che marcivano sulla battigia si mischiavano al fumo di legna che veniva dal vicino villaggio. Il gruppetto  evidentemente entusiasta per la bellezza del luogo si era liberato dei vestiti e stava godendo delle onde di risacca  facendosi sballottare a destra e a manca come tappi di sughero. Felici ridevano e scambiavano battute. Prima di gettarsi in mare avevano passato una mezz’ora  a crogiolarsi al sole sulla sabbia sdraiati su dei teli di spugna. Usciti dall’acqua raccolsero gli asciugamani da terra e si asciugarono strofinandosi con la spugna in modo da togliere l’umidità dai loro corpi. Quindi si sdraiarono ancora a prendere il sole.

Occupati a pulire il pesce che dovevamo preparare per un pranzo di Natale che avevamo organizzato con i tecnici del campo di Bumbuna, non facemmo caso a quello che facevano i turisti che si trovavano ad una ventina di metri di distanza.

Avevamo però notato che  il gruppo risiedeva in un albergo di Freetown, il Mammy Yoko hotel situato sulla collina prospiciente Cape Sierra  in fondo a Lumley Beach  perché erano arrivati sulla spiaggia con un pulmino recante l’insegna dell’hotel.

Alcuni giorni dopo mi trovavo casualmente nella hall dell’albergo per una birra con un collega appena arrivato dall’Italia quando riconobbi una delle ragazze inglesi che avevamo visto  sulla spiaggia di  Sussex .Si avvicinò al bancone del bar e notai che aveva sulla guancia e sulla spalla segni evidenti che cordylobia stava  progredendo nella colonizzazione dell’ospite. Le dissi chi ero e che l’avevo vista con  il suo gruppo di amici fare il bagno alcuni giorni prima a Sussex e le chiesi come stava . Mi disse che tutto il gruppo non stava bene e che pensavano di rientrare a Londra in anticipo sul previsto. Tutti si lamentavano di avere bolle e foruncoli strani sul corpo  dalle spalle alle zone intime, molto dolorosi e pensavano di essersi beccati una qualche malattia tropicale anche perché avevano preso degli antibiotici che non avevano dato alcun risultato. Non erano andati all’ospedale di Freetown, il Connaught, perché quando erano arrivati nell’ingresso erano rimasti sconvolti dalla sporcizia. Dentro di me pensai che invece proprio in quel caso avrebbero fatto bene a farsi vedere dai medici dell’ospedale che sicuramente avrebbero capito al volo di che si trattava  e li avrebbero potuti aiutare. Janice,  sui 35 anni, così si chiamava la ragazza,  era molto inglese, rossa, lentigginosa e vestita da Hippy anni ’70. I capelli ricci le incorniciavano il viso  e le ricadevano sulle spalle  bruciate  dal sole . La gonna, anzi il sari stile indiano ad ampie pieghe le nascondeva completamente il corpo e quindi anche le bolle che sicuramente aveva dappertutto. Non sapevo come introdurre  l’argomento sulla mosca del mango quando il mio collega che non sapeva nulla di quanto era accaduto, le offrì di unirsi  a noi insieme ad i suoi amici per un aperitivo.

Non volevo fare la parte del saccente ma mi rendevo conto che con poche parole avrei potuto porre fine alle sofferenze di 5 persone consentendogli di continuare le vacanze che altrimenti avrebbero interrotto bruscamente. Inoltre il rientro in Inghilterra avrebbe costituito per tutti loro un immediato ricovero in ospedale e  solo Dio sa se avrebbero trovato subito chi avrebbe capito cosa era loro successo. Quindi allorquando  tutto il gruppo si sedette intorno ad un tavolo nella sala breakfast dell’hotel,  e iniziò a sorseggiare un qualche liquido più o meno alcolico, chiesi a Janice con una scusa di seguirmi alla reception.  A questo punto la misi al corrente di quello che pensavo fosse loro successo sulla spiaggia e delle conseguenze che ciò aveva comportato. Le spiegai come potevano liberarsi delle larve coprendo il buco che era visibile sulla sommità di ogni bubbone con del grasso per asfissiare l’insetto e costringerlo a venire fuori da solo. In alternativa potevano anche immergersi in una vasca con dell’acqua tiepida ma questo procedimento sarebbe stato forse più complicato. Con un po’ di pazienza e sicuramente dolore in capo a un paio di giorni l’incubo sarebbe finito. La povera ragazza, dapprima non disse nulla, poi scoppiò in un pianto dirompente. Era terrorizzata dal sapere che dentro di lei c’erano dei vermi che la stavano colonizzando, si sentiva abitata, quasi il suo corpo fosse diventato un condominio. In realtà quello che era successo a questi turisti mi era accaduto i primi tempi dopo il mio arrivo in Sierra Leone, solo che la mia colpa era stata quella di non accorgermi che il “boy” che si occupava della mia biancheria, non aveva stirato a dovere una camicia dopo che avendola lavata l’aveva messa ad asciugare attaccata ad un filo all’aperto. Infatti  l’ alta temperatura uccide le uova e elimina il rischio di  diventare l’ospite  della mosca .

Questo episodio mi fa introdurre un capitolo di carattere sanitario visto che chi ha vissuto tanto tempo in condizioni precarie di igiene o quantomeno in situazioni dove non ci sono i mezzi che la possano garantire, o ha degli anticorpi grossi come cavallette oppure soccombe in poco tempo.

L’idraulico che stava a Bumbuna, alcuni mesi dopo la cena di Natale di cui ho parlato prima, ebbe un attacco di epatite fulminante e dovemmo trasferirlo d’urgenza a Freetown con una delle nostre auto durante  un viaggio allucinante sotto una pioggia tropicale. Era iniziata la stagione delle piogge   e le strade erano piene di fango e  i torrenti straripavano portando con se terra rossa e detriti e distruggendo tutto quello che trovavano sul loro corso.  L’evacuazione di Mario durò 16 ore: 16 ore di incubo durante le quali Ali ed io ci demmo da fare per cercare di alleviare la sofferenza del poveraccio che con 40 di febbre, vomito e nausea fortissima si stava raccomandando l’anima al signore. Ci davamo il turno al volante per stare dietro con Mario e sostenerlo. La strada fino a Lunsar era   ridotta malissimo e sui lati c’erano tantissime auto ferme con gente che chiedeva soccorso. Ma non potevamo fermarci. In tarda notte arrivammo a casa mia a Freetown e scaricammo Mario e lo mettemmo a letto in attesa di poterlo evacuare con Europ Assistance. Il medico che abitualmente curava il nostro personale lo visitò ma non poté fare nulla salvo fargli della morfina. L’aereo sarebbe dovuto atterrare alle 6 di mattina. Alle 4 Mario cessò di vivere.

Washington Michinga si occupò di tutte le pratiche per trasferire la salma, prima all’ospedale Connaught per verificare le cause della morte e poi all’aeroporto per l’imbarco verso l’Italia.

Purtroppo nella mia lunga vita trascorsa in questi posti, ho dovuto partecipare ed assistere a tanti episodi tristi di questo genere. Amici, colleghi o solo conoscenti strappati alla vita, per mancanza di mezzi di soccorso adeguati, negligenze delle società o del governo ospitante, menefreghismo delle autorità locali  e  incapacità degli organismi diplomatici.