Quando arrivai in Sudan nell’1983, era in corso da anni una sanguinosa guerra civile tra il Nord ed il Sud. Questa guerra durò molto a lungo e fu solo nel 2005 che fu messa la parola fine al conflitto. Il paese è diviso praticamente in due parti: il Nord con Khartum, prettamente arabo musulmano , desertico, appoggiato dall’Iran, il Sud con Giuba, abitato da popolazioni animiste, lussureggiante e ricco di petrolio e di risorse minerarie appoggiato dall’ Etiopia . Nell’anno del mio arrivo, il presidente sudanese Ja’far al Nimeiri, promulgò la legge islamica ( la shari’a) in tutto il territorio nazionale senza minimamente considerare le differenze di credo e di religione delle etnie del Sud. Questo portò a una recrudescenza del conflitto tra l’esercito regolare sudanese e il SPLA (Sudan people’s liberation army) condotto dal colonnello John Garang.
Non è che aWad Madani si risentisse della guerra in corso, lontana centinaia di km., ma certamente il movimento della popolazione che fuggiva dalle zone dove c’erano i combattimenti era evidente guardando i camion stracarichi di poveretti che erano stati costretti a lasciare le loro poche cose e scappavano da carestia e malattie. Ma non c’era solo quello di conflitto. Nella confinante Eritrea si stava anche combattendo e molti rifugiati feriti venivano trasportati proprio a Wad Madani dove era operativo un centro di raccolta profughi situato a poche centinaia di metri dalla mia abitazione. Avevo avuto modo di conoscere alcuni volontari di MSF (Medecins Sans Frontieres) che ci lavoravano e in diverse occasioni mi ero recato all’infermeria del centro per prendere delle medicine per i miei colleghi sudanesi ed avevo visto che medici chirurghi ,venuti espressamente dalla Francia, operavano 7 giorni su 7 i soldati eritrei feriti in sale operatorie approssimative ed inadeguate a sopportare un carico di feriti così numeroso. I medici facevano i turni lavorando di giorno e di notte e allo scadere della settimana ripartivano e venivano sostituiti da altri. La situazione era veramente critica anche perché mancava il personale paramedico di supporto e i pochi infermieri sudanesi forniti dal governo non erano sufficientemente preparati.
In ogni caso la situazione sanitaria generale del paese era critica. Basti pensare che nella cittadina di Madani non esisteva un sistema fognario ma i gabinetti quasi sempre collocati in un casotto all’angolo della recinzione muraria delle case, avevano uno sportello posto verso l’esterno sulla strada. Al mattino, non tutti giorni, passava un addetto con un carretto che apriva lo sportello, estraeva un bidone pieno di escrementi, lo vuotava e lo rimetteva al suo posto. Mentre per quanto atteneva alle acque “chiare”, in basso sotto la strada scorrevano tranquillamente a cielo aperto lungo rigagnoli dall’odore nauseabondo. In quelle condizioni era molto facile un’ esplosione di colera, di ebola e di altre malattie contagiose. Chi parte per un paese in via di sviluppo è preparato psicologicamente a trovarsi in situazioni spesso al limite della sopravvivenza, e quindi a far fronte a modelli di vita così lontani da quelli cui siamo abituati, ma quello che ho visto a Madani ha comunque abbondantemente superato ogni immaginazione.
C’era un cantiere di una strada in costruzione dove gli operai erano cinesi, i geometra erano cinesi, gli ingegneri erano cinesi, il macchinario era importato dalla Cina e gran parte dei materiali pure. Le maestranze lavoravano con turni continui e vivevano in un campo a in containers con aria condizionata. Era il primo esempio che vedevo realmente con i miei occhi della svendita di qualche minerale prezioso al gigante cinese da parte del governo sudanese: tipo- cosa ti serve? Una strada- perfetto te la costruisco io, tempo 24 mesi sarà pronta -ma come posso pagare? Non ti preoccupare, dammi l’esclusiva per l’estrazione del xxx nella zona di yyy per 99 anni e la strada è bella che pagata. Penso a tutto io. Tu nel frattempo goditi l’appartamento a Monmartre che hai scelto sul catalogo. Cioè in altre parole l’ingerenza della Cina in questa area africana si faceva sentire e si poteva vedere nei fatti. D’altronde gli operai cinesi non parlavano altra lingua e non facevano amicizie. Una volta finita quella strada sarebbero andati a farne un’altra o sempre in Sudan o magari nella confinante Etiopia, così spostare i macchinari sarebbe costato poco e la dipendenza del paese dalla tigre gialla sempre più grande.