Khartum

Quando il Lockheed 737 Tristar dell’Inch’Allah Airways, com’era comunemente chiamata la compagnia di bandiera sudanese, si staccò in volo dalla pista dell’aeroporto Leonardo da Vinci, le vibrazioni dei motori insieme a quelle di tutta la carlinga,  ricordavano il rombo delle cascate del Niagara.

Improvvisamente si spalancarono due o tre bagagliere che sovrastavano i passeggeri dall’altro lato del corridoio mentre una maschera per l’ossigeno cadeva davanti alla testa del signore sudanese seduto affianco a me. L’hostess, accorsa prontamente, richiuse con slancio i coperchi dei portabagagli e con un sorriso spinse  nel suo alloggiamento la maschera. I passeggeri, quasi tutti sudanesi o egiziani, fecero poco caso all’accaduto: dovevano esserci abituati, ma io no! Pensavo  che forse sarebbe stato l’ultimo viaggio della mia vita e che se fossimo riusciti a raggiungere il mare dopo la virata sopra Fiumicino, l’ammaraggio avrebbe mandato in mille pezzi l’aereo ed anche me…Cominciava così, con i migliori auspici, la mia missione in Sudan sotto il patrocinio della Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri. Ero stato contattato da una Consulting che lavorava per la realizzazione di infrastrutture nella zona di Wad Madani, circa a 200 km a sud di Khartum e il mio incarico consisteva nel controllo dei cantieri.

Le poche luci dell’aeroporto rischiaravano  a malapena il tratto di pista al lato  della quale si era fermato il 737.  Era ancora buio pur essendo le 6 del mattino e in mezzo alla folla vidi un  viso palesemente europeo di un ragazzo sulla trentina con barba e capelli folti e a tracolla una sacca di tessuto. Era il mio contatto. Dopo le formalità doganali molto rapide e poco accurate, uscimmo nel piazzale antistante  e salimmo sull’auto di Roberto.

Lungo il tragitto che ci conduceva a casa sua guardavo le camionette con cassone ripiene di persone: erano i taxi collettivi dove tu salivi, se riuscivi a        superare il teorema dell’impenetrabilità dei corpi solidi e pagavi sulla base del tragitto che dovevi fare. Un ragazzo appeso all’esterno con i piedi su un predellino incassava il prezzo della corsa al volo. Ci voleva una notevole abilità a fare quel lavoro senza precipitare nella polvere.

Rumore assordante e clacson continuo, dromedari e greggi di pecore frammiste alle auto, il tutto immerso in un polverone pazzesco che ti entrava ovunque fin nelle mutande. Le strade erano costeggiate da alberi di Jacaranda  dal colore viola intenso che  si alternavano ad alberi di Juda di un  rosa fiammeggiante ma l’assoluta mancanza di un manto bituminoso continuo, le buche  e i tratti di terreno inframmezzato da pezzi di asfalto facevano somigliare l’auto più ad un dromedario lanciato sulle dune per cui era difficile godere di questo spettacolo della natura. Passammo sopra il ponte sul Nilo Bianco che conduceva a Omdurman, la città vecchia. Khartum si trova alla confluenza del Nilo Bianco e del Nilo Azzurro e spesso è possibile vedere le due tinte mescolarsi serpeggiando nell’acqua per molti kilometri. In realtà le acque del  Nilo Bianco  che nasce dal lago Vittoria tra Kenia e Tanzania, sono piene di sodio e quando si mescolano con quelle del Nilo Azzurro che ha le sue sorgenti nel Lago Tana in Etiopia, le due densità differenti   provocano disegni e serpentine lungo il corso del fiume.

Prima di partire per la destinazione finale del mio viaggio e cioè la città di Wad Madani, dovevo incontrare il mio omologo sudanese, un ingegnere del Ministero delle Infrastrutture e quindi dovevo trattenermi per qualche giorno a Khartum. Ne avrei approfittato per iniziare il processo di acclimatazione alla nuova realtà.

Il mattino seguente, verso le 7,  Roberto mi condusse al Ministero e mi lasciò di fronte all’edificio, ci saremmo visti verso le 12   per mangiare qualcosa insieme.

Premetto che noi occidentali abbiamo la mania di dare delle definizioni a  tutto campo quando vogliamo spiegare come è un luogo o una persona o altro, basandoci su dei parametri che fanno parte integrante della nostra vita: quindi Ministero, ci aspettiamo un edificio, con stanze corridoi, attrezzatura di vario genere, personale a disposizione, orari ferrei, lasciapassare, etc.

e tendiamo ad assimilare questi parametri anche a delle realtà lontane anni luce dalla nostra.

Quindi quando mi sono avvicinato al portone vicino al quale mi aveva lasciato il mio collega,  entrai e improvvisamente   tutto ciò che mi ero immaginato di trovare, non è così, o meglio mi ritrovo ad aggirarmi in un ambiente che faticherei a definire Ministero. Non mi riferisco alla struttura che ha tutto il diritto di essere fatiscente e priva di qualsiasi manutenzione dato che ci troviamo in uno dei paesi più poveri al mondo, ma è l’aria che si respira che a tutta prima ti colpisce. Un insieme speziato frammisto a cannabis e odore di cucina. Infatti c’è chi sta cucinando su un fornelletto elettrico, chi sta sbucciando della frutta, chi sta pregando su un tappetino rigorosamente in direzione della Mecca, il tutto in mezzo a corridoi lunghissimi su cui si aprono porte sui due lati   (porte quasi tutte aperte), che danno su stanzoni praticamente privi di mobilio se non fosse per una scrivania dell’epoca del generale Gordon e di una macchina da scrivere tipo Olivetti lettera 44 che fa bella mostra di se. Dietro la scrivania emerge una donna avvolta nel suo toub (tobe ) dal colore sgargiante ma non velata e sorridente e si rivolge a me in un inglese perfetto, quasi oxfordiano e mi domanda chi sto cercando. Preso alla sprovvista,mi impappino e non riesco a pronunciare il nome dell’ingegnere oggetto della mia visita, ma lei con una gentilezza rara, esce da dietro la scrivania e sovrastandomi di un buon mezzo metro mi fa cenno di seguirla. Avrò tempo in seguito durante la mia permanenza in Sudan di apprezzare le doti di questo popolo fiero e dai lineamenti delicati. La spilungona che calza dei sandali infradito 45 almeno,si ferma di fronte ad una porta e mi invita ad entrare. L’ufficio da quello che intuisco deve essere quello del suo capo  e  la fortuna mi dice che si tratta proprio di Moudawi , il mio interlocutore sudanese per il  prossimo  futuro.

Anche lui sul metro e novanta longilineo, pantaloni neri e camicia bianca, due ciuffi di capelli crespi laterali che ricordano un po’ un clown, ma di   ridicolo non ha assolutamente nulla. Due occhi scuri e penetranti che denotano un’intelligenza viva e bei  lineamenti , potrà avere circa 36 anni. Ci salutiamo calorosamente ed è subito simpatia reciproca. Guarda l’orologio e sono le 9 del mattino. Avrò modo di ricordarmi che a quell’ora, caschi il mondo, qualsiasi cosa tu stia facendo, passa in secondo piano in Sudan:  è breakfast time! Moudawi mi invita ad andare a fare colazione in un posto di sua conoscenza poco distante. Tè, zuppa di fave, caffè con latte, un pezzo di pane e….soprattutto la halawa pasta di sesamo dolcissima e buonissima che si scioglie in bocca.