C’era un luogo a Maputo che rivestiva un interesse particolare per tutti i mozambicani e gli espatriati: la loja franca ovvero un duty free shop. In realtà era una sorta di supermercato dove si riusciva a trovare in vendita un po’ di tutto, prodotti occidentali, di ogni genere dai vestiti al cibo alle auto etc. e dove si pagava in valuta sonante e non in meticais. Chiaramente era frequentato dagli stranieri residenti e dai mozambicani ricchi che potevano permettersi di pagare in dollari usa o rand sudafricani sia perché avevano delle entrate in valuta sia e soprattutto perché cambiavano alla candonga ( il mercato nero) ingenti quantità di valuta locale pari alla carta straccia. Il negozio era sorvegliato giorno e notte da guardie armate ed era la meta fissa di noi sfigati che quando era possibile riuscivamo a raggiungere Maputo per acquistare quello che ci mancava al campo. Devo dire che per me era una metà molto saltuaria perché non avevo necessità particolari ma per coloro che magari si erano trasferiti con moglie e figli il discorso era diverso.
Un giorno però ci andai proprio di proposito ed ecco il perché. Vi ricordate che il mio povero giardiniere tuttofare mi aveva fatto conoscere una vedova con tre figli che avevo assunto a lavorare a casa? Isabel appunto. Un fine settimana che avevo la possibilità di andare a Maputo, ne approfittai per darle un passaggio e la condussi là dove aveva la sua abitazione. Il quartiere si chiamava Bagamoyo e per raggiungerlo dovetti passare per sette gironi infernali. L’odore dell’immondizia bruciata pervadeva l’aria e ti entrava nelle narici, avresti creduto di trovarti dentro una discarica. A tratti il fumo era così denso che ero costretto a rallentare quasi a passo d’uomo. Bambini mezzi nudi correvano in mezzo alla strada tra le auto, sporchi, malati, disperati.
Cani e scimmie si contendevano quello che gli umani lasciavano delle immondizie che giacevano un po’ ovunque. Stradine fangose scendevano sulla destra verso baracche improbabili coperte con pezzi di lamiera arrugginiti. Erano giorni che non pioveva e la temperatura era molto alta, c’era un umidità che ti si appiccicava addosso come una bagascia che cerca di trascinarti in un bordello. Rivoli di acqua putrida scorrevano in mezzo ai sentieri e precipitavano contro le pietre che delimitavano la carreggiata. Quando finalmente arrivammo nei pressi della sua abitazione, la povera donna mi chiese di farla scendere alcune decine di metri prima di raggiungere la porta. Non voleva che io vedessi quello che c’era al di là dentro la sua casa. La tranquillizzai e mi fermai davanti ad uno steccato con una porticina che si apriva in un piccolo patio. Entrai con lei e subito le vennero incontro i bambini. Il più grande, doveva avere 12 anni o giù di lì, si chiamava Lourenço, la seconda era Ana di circa 10 anni , e il più piccolo di un anno e mezzo Adam. Isabel aveva perso il marito da tre anni e aveva avuto il terzo figlio in circostanze tragiche in seguito ad uno stupro compiuto da miliziani che l’avevano anche picchiata e seviziata. Non ho mai capito se il marito fu ucciso in seguito a quello che le era capitato e non ho mai voluto approfondire perché mi rendevo conto che per lei era una sofferenza indicibile parlarne. Nessun pavimento, quattro sedie mezze zoppe , un tavolino di formica, una lampada ad acetilene attaccata al soffitto. Un armadietto con poche cose dentro e nella stanza attigua un letto o meglio una rete malandata con su un materasso che sicuramente proveniva da una discarica.
Nel cortiletto davanti la casa uno sgabuzzino fungeva da cesso ma, in un angolo c’era la cosa più importante: un rubinetto con l’acqua corrente! Isabel mi spiegò che quella fila di baracche di cui faceva parte la sua, e per la quale pagava anche un affitto, faceva parte di un esperimento che il comune di Bagamoyo portava avanti grazie alla collaborazione di una ONG tedesca che aveva iniziato a distribuire l’acqua proveniente da un pozzo situato sulla collina. L’unico problema era che l’acqua c’era solo quando c’era la corrente elettrica che faceva partire la pompa, cioè quasi mai.
In quei momenti tu sei in una situazione difficile. Da un lato ti guardi dentro e fai l’analisi della tua vita, di quello che sei, di quello che hai. Dall’altro sei travolto in una spirale di dolore e di impotenza. Ti verrebbe voglia di scappare mille miglia lontano e vorresti non essere mai venuto lì. Isabel doveva aver parlato molto ai suoi figli di me perché avevano un atteggiamento di gioia mista a paura. Ero il “ patrao”, così si rivolgevano i mozambicani a noi bianchi, o quantomeno un certo tipo di mozambicani. Il che mi fa fare una digressione sul colonialismo becero dei portoghesi. Ho avuto modo di conoscerne tanti durante il periodo passato in Mozambico e molti di quelli, correntemente definiti Mozambicani bianchi, e cioè quelli che avevano deciso di non andarsene dopo l’abbandono delle colonie nel 1975, ed erano rimasti sul posto, non avevano un bel modo di comportarsi con gli “ indigeni.” Il colonialismo è sempre stato una brutta esperienza per i popoli che sono stati invasi e sottomessi ma quello operato dai portoghesi è sicuramente uno dei più trucidi. Io non mi sono mai sentito il ”patrao” di nessuno ma questa formula era molto in uso nella povera gente con poca o inesistente cultura. Cercai di fare il disinvolto e di stabilire un minimo di rapporto con i bambini ma dopo alcuni minuti, salutai Isabel e mi diressi verso la vettura. I piccoli mi corsero dietro e arrivati vicino alla macchina capii che il loro desiderio era quello di salire dentro con me e fare un giro.
Ana con in braccio il piccolo si accomodò sul sedile del passeggero e Lourenço salì sulla panca posteriore. Mentre percorrevo la via che conduceva alla strada principale di Bagamoyo vidi che altri bambini che evidentemente conoscevano i miei “ospiti” fare cenni di saluto. Capii che a quel punto loro avrebbero goduto nel quartiere di una notorietà dovuta al fatto che erano con me e sarebbero stati molto invidiati. Mi diressi verso il centro di Maputo e parcheggiai sotto la Loja Franca. Dissi a Ana di aspettare in macchina e portai con me Lourenço dentro il supermercato. Alla porta il guardiano non voleva far entrare Lourenço e ebbi il mio daffare a convincerlo che non avrebbe rubato nulla. Comunque un dollaro usa, fu più convincente delle mie parole ed entrammo. Se avessi avuto una cinepresa avrei potuto filmare il viso del ragazzino che con la bocca aperta e un filo di bava che gli usciva dalle labbra non sapeva più dove guardare. Immaginavo tutto quello che gli passava per la testa e mi diedi del cretino per averlo portato con me. Ma ormai era troppo tardi. Caricammo derrate alimentari, scatolame di tutti i tipi, magliette, saponi, dentifrici, spazzolini, penne, quaderni, e quant’altro non ricordo in auto e ci dirigemmo di ritorno alla loro casa. Avevano passato le due ore più emozionanti della loro giovane esistenza e una volta arrivati dovetti promettere loro che sarei ritornato a vederli e a fargli fare un altro giretto in auto.
Nella strada di ritorno a Pequenos Libombos riflettevo su quanto avevo fatto nel pomeriggio e mi dicevo che forse la mia decisione di cercare di portare loro un briciolo di benessere in più sicuramente aveva reso felici quei bambini ma aveva ,se possibile, ancora aumentato il mio sentimento di impotenza nei confronti di una realtà che sicuramente non potevo cambiare.