Il saggio

Erano passati alcuni mesi dal mio arrivo a Mogadishu e rapidamente il campo base stava prendendo corpo. Le istallazioni per il personale erano state montate e anche le cucine, la mensa e le zone comuni stavano per essere completate. Nel frattempo gli assistenti venuti dall’Italia si erano sistemati in qualche modo tra la palazzina degli uffici e l’Hotel Guuleed. Io stesso mi ero trasferito in una camera  dove c’era un divano letto ed un bagno privato al primo piano. Continuavano le assunzioni del personale locale e la filiale aveva cominciato a funzionare. I mezzi d’opera per la costruzione della strada erano arrivati al porto e stavamo perfezionando tutte le pratiche per l’importazione anche per i fuoristrada del personale degli uffici, dei Toyota Landcruyser HJ60 nuovi fiammanti: finalmente ero autosufficiente e mi potevo muovere in autonomia. La prossima sfida che mi attendeva era il reperimento di mano d’opera specializzata locale, quindi ferraioli, carpentieri, etc. ma soprattutto autisti di camion e pale meccaniche, grader, rulli, e tutti quei mezzi necessari alla costruzione della strada. Detto così sembra facile…ma non lo è!  Infatti, ed apro una parentesi, dovevamo fare i conti con svariati problemi: 1- bisognava cercare di assumere personale senza scontentare nessuna delle varie etnie, o famiglie presenti sul territorio, 2- dovevamo essere pronti ad essere sommersi da uno tsunami di somali che si sarebbero riversati nell’area prospiciente il campo base provenienti da tutta la regione ed anche da fuori, laddove si sarebbero svolte le selezioni, attirati dalla possibilità di lavorare, 3- avremmo dovuto fare fronte a coloro che non avrebbero o superato le prove o fossero comunque stati in esubero, all’indomani delle selezioni stesse.

Quindi grazie a Mahdi avevo incontrato un somalo, tale Abdelkader, un notabile del basso Shebeli, che ci avrebbe fatto da tramite con i vari capi tribù  dell’area. La mattina arrivarono nel mio ufficio verso le 8 Mahdi e questo “notabile”. Mahdi l’ho già descritto, ma credo valga la pena spendere due parole su Abdelkader, “kuwa caqliga leh” ovvero “il saggio” come veniva chiamato dai suoi accoliti. Alto e magro, sui 50 anni, la pelle del viso piena di piccole rughe che accompagnavano ogni zona del viso fin dietro le orecchie, a punta, enormi. La bocca una fessura, dietro la quale si intravedevano degli incisivi in oro che esalava dei miasmi che andavano dall’aglio alla cipolla mal digerita, con un pizzico di peperoncino. Vestiva, logicamente nel modo tradizionale e cioè con una djellabà che teneva in parte sollevata e sotto la quale si indovinava la pezza a quadretti bianchi e celesti stretta attorno ai fianchi lunga quasi a metà gamba: il famoso hoosgunti somalo. Ciabatte di pelle di capra con la punta arricciata  e un caftano appoggiato su una spalla. Completava l’abbigliamento un copricapo multicolore fatto ad uncinetto appoggiato in centro alla testa che lasciava uscire capelli grigi sulle tempie, più scuri sulla fronte e sul collo. Parlava in perfetto italiano con una strana cadenza del sud Italia, sembrava campano o molisano.

In realtà la sua funzione fu cruciale. L’indomani partimmo presto per fare un giro che ci avrebbe portato a conoscere almeno 5 delle tribù più numerose della regione. Quando arrivammo ad Afgooyee, prima meta del nostro cammino, entrammo in una casa bassa circondata da un grande giardino. Alcuni bambini ci precedettero urlando verso la porta  e apparve il nostro primo capo tribù. Ci fece entrare, ci sedemmo per terra su dei tappeti e ci fu offerto del té. Improvvisamente dalla porta iniziarono ad entrare uno dopo l’altro svariati somali in abito tradizionale e si sedettero accanto a noi. Abdelkader ci spiegò che il padrone di casa aveva convocato lì a casa sua tutti i responsabili delle varie tribù e che quindi non sarebbe stato necessario recarci altrove: tutto sarebbe stato deciso lì. Parlarono uno dopo l’altro e litigarono abbondantemente tra di loro. Ogni tanto Abdelkader, il saggio,  interveniva nel battibecco e mi metteva al corrente delle trattative. Dopo circa 3 ore e la mia testa che era diventata come un pallone, raggiunsero un accordo. O quanto meno sembravano…Il punto era quanti lavoratori per ogni tribù/etnia dovevano essere assunti. In base al potere che ogni tribù aveva, cercava di far iscrivere nelle liste più persone possibile. Posso assicurare che metterli d’accordo era un compito tutt’altro che facile. Il carattere tipico del somalo è poco remissivo e direi a volte prepotente, infido e poco incline ad accettare di essere messo da parte. Quindi Abdelkader aveva strappato un accordo di massima sul numero ma io avevo sostenuto che comunque tutti e avevo ribadito tutti, dovevano superare i test e chi non ci riusciva non avrebbe avuto la possibilità di essere assunto. In realtà il punto era un altro…. I lavoratori che avremmo assunto sarebbero stati pagati secondo le tabelle nazionali e logicamente in valuta locale cioè lo scellino somalo ovverosia potere d’acquisto zero, un po’ come gran parte delle valute dei paesi africani con l’eccezione del Randt sudafricano e del Franco cfa . Quindi, dove era la convenienza? Semplice, quelli che sarebbero venuti a lavorare con noi avrebbero avuto la grande possibilità di… rubare, rubare  qualsiasi cosa per poi rivenderla al mercato nero acquistando valuta oppure portandola in Etiopia o in Kenia dove sarebbe stato molto più facile trasformare l’oggetto rubato in denaro sonante vero. Da qui il gran baccano, le liti furibonde. Molti di questi uomini avevano già lavorato in altri cantieri sia in Somalia che nei paesi dell’est Africa o negli Emirati e quindi già avevano un minimo di competenze professionali ma la maggioranza era costituita da povera gente, contadini o pastori o nullafacenti che avevano solo l’obiettivo di poter fare il colpo della vita.

E venne il giorno delle selezioni. Avevamo scelto un’area poco distante dal campo base che ancora era in fase di ultimazione per effettuare le prove. Quella mattina dato che la voce si era sparsa come un virus, gli infettati erano più di 2000… pervenuti con ogni mezzo nella  piana. Qualche sparuto albero di acacia dava poco refrigerio ai convenuti che, a dorso di cammello, a piedi oppure ammonticchiati su dei pick-up o su dei camion sgangherati, affollavano il perimetro che avevamo delimitato con delle fettucce bianche e rosse. In fondo schierati uno a fianco all’altro avevamo parcheggiato i mezzi, due Dumper da cava Perlini, una pala caricatrice Cat 966, un grader, un rullo compattatore, una motrice Fiat 300 con un bassocarico.  C’era un rumore assordante e un polverone bestiale. Con l’aiuto di Abdelkader e di Mahdi iniziammo a chiamare dei nomi che si trovavano su una lista che i capi tribù ci avevano fatto pervenire. Schierati a fianco dei tre assistenti italiani che dovevano selezionare gli autisti c’erano gli uomini di Mohamed Aden Sheikh, il capitano della guarnigione.

Già erano intervenuti a più riprese menando mazzate ai più  che si avvicinavano senza essere stati interpellati. Quando Abdelkader con un megafono iniziò a chiamare, tutti tacquero e potemmo finalmente cominciare.  Le selezioni durarono tre giorni, la gente anche quelli che erano stati scartati continuò a restare nell’area dando vita ad un accampamento improvvisato. La sera montoni venivano sgozzati e cucinati su fuochi i cui bagliori   davano all’insieme un aspetto forse pittoresco ma poco rassicurante. La gente urinava e defecava ovunque e non avevano acqua se non quella portata in qualche tanica scaricata dai pick-up. Cito solo qualche momento colorito di quelle giornate infinite che iniziavano  alle 6 di mattina per concludersi alle 18 quando ormai non si vedeva più nulla. Un aspirante autista salì su un Dumper per effettuare la prova e quando l’istruttore gli lasciò i comandi e scese per monitorare il circuito che doveva fare, un gruppo di quattro o più somali che erano stati giudicati inadeguati, si arrampicarono sopra la cabina urlando e non vollero più scendere. L’autista che non si era accorto di nulla iniziò il circuito portandosi i quattro energumeni in giro lungo tutta la pista. Il rumore del motore era assordante e non poteva sentire le grida all’interno della cabina. Quando finalmente il tracciato fu concluso  e tornò al punto di partenza, sul tetto ce n’era rimasto solo uno attaccato con le unghie e con i denti, gli altri erano volati via uno ad ogni curva finendo nella sabbia fortunatamente senza conseguenze.

Un aspirante  palista che stava facendo le prove di carico su un dumper  pensò bene di impalare insieme alla sabbia due giovani che  per osservare più da vicino si erano seduti sopra il mucchio. Forse avevano masticato troppo khat ed erano rimbecilliti, fatto sta che il loader li sollevò insieme ad alcuni metri cubi di materiale e li scaraventò dentro il cassone del dumper , un bel volo di alcuni metri! Finite le prove la sera del terzo giorno avvenne l’impensabile. Stavamo recandoci a recuperare le auto per rientrare a Mogadishu, eravamo in quattro, i tre assistenti su un pick up, Abdelkader e Mahdi con un fuoristrada ed io con Corrado ed i due topografi sulla mia Land Cruiser, quando un’orda di somali ci si scagliò addosso pretendendo che li portassimo con noi. Premetto che già avevamo mandato i due dumper stracarichi di gente a Mogadishu. Ora posti a bordo ce ne sarebbero stati  tra le tre macchine forse 6 max 8 non certo 30 o 50. Al nostro diniego quindi fummo assaliti : alcuni cercarono di aprire gli sportelli, altri di salire sul tetto e sul cofano altri iniziarono a tirare pietre. Sceso dall’auto cominciai a tirarli giù ingaggiando un vero corpo a corpo. Pensavamo di essere spacciati, quindi risalii, misi in moto e partii a tutta birra travolgendo uomini, capre dromedari ed affini, trascinandomi per alcuni metri degli irriducibili attaccati alle porte che erano rimaste aperte. In quel momento arrivarono i militari di Mohamed Sheikh che spararono alcune raffiche in aria e bloccarono il tumulto. Tornando , mentre guidavo, pensavo se ne valeva la pena ! fare ciò che facevo mettendoci l’anima e magari rischiando di rimetterci le penne e mi risonava sempre nelle orecchie quella famosa frase:  “ma lei è matto, con il Presidente si trattano argomenti di alta strategia politica, questi “dettagli” se li vedrà lei sul posto”!