Il ponte di Boane

Il riverbero accecante del sale steso ad asciugare in cumuli lungo le stradine in mezzo alla salina, bruciava gli occhi. Un vento tiepido tirava da sud e portava l’acre odore frammisto di putrefatto e di alghe marce dal fondo della baia di Maputo. Attirato dal volo dei flamingos che avevo cominciato a scorgere in lontananza mentre stavo rientrando alla diga da Maputo, avevo fatto una diversione dalla strada principale ( poco consigliato anzi da non farsi assolutamente) ed ero arrivato alle saline di Matola. Dall’alto di una collina improvvisamente mi era apparsa una quantità inimmaginabile di fenicotteri rosa  che razzolavano nella salina in cerca di crostacei. Non c’era anima viva e la struttura produttiva aveva un ‘aria alquanto abbandonata. Magazzini sgangherati e gru arrugginite facevano da coreografia a quel posto che una volta al tempo dei portoghesi esportava sale in tutto il Mozambico ed anche in Rodesia. Era il destino di tutte le imprese che erano state nazionalizzate dal governo di Samora Machel e dal suo consigliere Marcelino dos Santos, mallevadori del Socialismo Scientifico,che aveva gettato il paese nella miseria più nera.

Senza una ragione apparente la nuvola rosa si levò in volo e con riflessi cangianti, a seconda che mostrassero  un lato o l’altro, i fenicotteri iniziarono una danza meravigliosa. Rimasi a guardarli per un quarto d’ora e poi mio malgrado girai il muso dell’auto per riprendere il cammino verso il Pequenos Libombos. Ero andato a ritirare la mia auto personale che era arrivata con la nave da Ravenna.  Al campo avevamo delle vetture a disposizione ma non andavano utilizzate logicamente al di fuori del lavoro. Avevo acquistato una Land Cruiser BJ42 in Belgio e l’avevo fatta spedire a Maputo. Il potente fuori strada mi permetteva di tirarmi fuori da eventuali problemi che si fossero verificati durante il mio (poco) tempo libero che cercavo di passare o al mare o in luoghi dove la natura la faceva da padrona. Alla fine decisi di spostarmi solo con la mia auto e restituii alla direzione quella in comodato.

Ero stato incaricato di seguire i lavori di ricostruzione di un ponte ferroviario  danneggiato da una  piena dell’Umbeluzi.nel 1984. Il ponte si trovava a diversi km di distanza dalla diga in una zona relativamente tranquilla ma comunque non sicura. La piena aveva seriamente danneggiato le pile e anche gli appoggi laterali. Dovevamo eseguire delle palificate sotto le fondazioni delle pile e ricostruire i basamenti. Poi la trave del ponte sarebbe stata sospesa con dei cavi d’acciaio montati su dei portici posti al di sopra di ogni pilastro. Il lavoro veniva eseguito da un subappaltatore della CMC, la Teixeira Duarte di Lisbona. Il mio incarico consisteva nel controllo tecnico dei lavori e poi visto che il calcestruzzo lo fornivamo noi con le nostre autobetoniere, dovevo occuparmi degli stati di avanzamento lavori.

La pista che collegava il campo al ponte ferroviario era lunga una ventina di km. La stagione delle piogge  aveva ridotto il fondo ad una massa di fango con delle tracce profonde anche mezzo metro.

Le autobetoniere a doppia trazione posteriore a 6 assi faticavano non poco a portare i 6/8 metri cubi di calcestruzzo. Quando succedeva un imprevisto eravamo costretti a richiedere l’intervento di una seconda autobetoniera per scaricare il contenuto e poter rimorchiare la motrice all’officina. Non potevamo lasciare il mezzo durante la notte perché non avremmo trovato più niente, sarebbe stato cannibbalizzato in poche ore.

Quella mattina mi stavo dirigendo verso il cantiere del ponte e grossi nuvoloni carichi d’acqua si avvicinavano  minacciosi. Procedevo lentamente perché il fondo  molto rovinato non permetteva di correre. Gruppi di vacche scheletriche mi attraversavano la strada e un pastore con una gamba sola ed una stampella fatta con due tubi di ferro saldati cercava di attirare la mia attenzione agitando uno straccio. Senza scendere dall’auto mi avvicinai al poveretto che mi indicava qualcosa dietro ad alcuni alberi.. C’era un vitello che era caduto dentro una buca piena di fango e non riusciva ad uscire e stava per soffocare perché agitandosi sprofondava sempre più giù.

A questo punto mandai tutte le raccomandazioni a farsi benedire e facendo una rapida retromarcia, portai la parte posteriore della Land Cruiser a qualche metro dalla testa del vitello. In macchina avevo una corda robusta che portavo con me per ogni evenienza. Bando agli indugi infilandomi per metà nel fango cercai di passare la corda dietro il collo e sotto le zampe anteriori. Non era un’impresa facile anche perché il vitello si agitava terrorizzato. Al terzo tentativo riuscii a passare la cima e a fare un nodo che non stringesse troppo. Fissai quindi al gancio di traino l’altro capo e saltai in macchina. Con la prima ridotta innestata, centimetro dopo centimetro, riuscii ad estrarre il povero animale dalla buca in cui era caduto. Esausto e spaventato il vitello quasi non si mosse quando gli sfilai la corda e mentre il povero pastore mi diceva frasi di ringraziamento nel suo dialetto per me incomprensibile, in lontananza vidi arrivare la prima  autobetoniera della giornata con il suo carico di cemento. Ero una maschera di fango e l’autista quando arrivò a qualche metro dalla mia auto scese di corsa per sapere cosa fosse successo, pensando forse ad un incidente o ad un guasto che mi avesse costretto a sdraiarmi nel fango sotto l’auto. Fu il pastore a spiegargli l’accaduto nella sua lingua che l’autista conosceva perché probabilmente era della stessa etnia. Forse non tutti sanno che le autobetoniere sono dotate di una pompa con una  lancia ad acqua che  serve sia per aggiungere liquido nella coclea sia per lavare la stessa una volta scaricato il calcestruzzo. Chiesi a Maquene, così si chiamava l’autista, di farmi un trattamento speciale con la lancia e ripulirmi prima di riprendere la strada per Boane. Tra le risate di tutti ripartii alla volta del ponte, la temperatura alta avrebbe contribuito a scaldare   il mio corpo ed  asciugare i miei vestiti, ma il mio cuore era già   caldo così!