Il campo base

Il lungomare di Maputo è percorso da una strada a due corsie che partendo dal centro della baia passa lungo le colline che sovrastano il mare e  termina contro un terrapieno. Un ponticello conduce quindi su una stradina sterrata che continua verso nord circondata da paludi e mangrovie. In Mozambico c’è una marea molto forte e quando è bassa, la sabbia si scopre per centinaia di metri verso il largo lasciando esposti molluschi e animaletti marini di vario genere che sono preda di uccelli e non solo. Infatti la popolazione si reca sulla battigia in cerca di cibo e  di qualsiasi cosa  sia  fonte di proteine. E’ possibile addentrarsi con un fuoristrada fino ad arrivare al mare  verso l’isola di Inhaca che da lì sembra  distante un tiro di fucile. Bisogna però stare molto attenti a non allontanarsi troppo e conoscere gli orari delle maree perché in pochi istanti si rischia di perdere l’auto e anche la vita date le fortissime correnti ( In seguito avrei avuto modo di scoprirlo sulla mia pelle).Lungo la strada bambini  da soli si aggirano in cerca di qualcosa da fare per procurarsi il cibo e credo che nascere cane in Mozambico sia proprio una grande sfortuna. Ho assistito, senza poter intervenire, a trucide torture perpetrate sugli animali nel corso del tempo passato in questo paese, e quando sono intervenuto spesso ho rischiato di essere picchiato o peggio.

Os meninos da rua, come si chiamano i ragazzini che spesso sono orfani o abbandonati dai genitori, girano in bande di 10 15 soggetti alcuni armati di machete e non è opportuno scontrarsi con loro soprattutto per uno straniero. Quando sono arrivato, come ho già detto, era in corso una guerra civile tra due fronti: da un lato il FRELIMO ( frente de libertaçao do mozambique ) al potere dal 1975 sostenuto da Russia, Cuba, e dagli altri paesi dell’area socialista africana, dall’altro il RENAMO ( resistencia nacional  mozambicana), sostenuto dalla Rodesia e dal Sudafrica.

L’aria che si respirava per strada era tesa, sempre e comunque e avevamo istruzioni di non girare mai la sera e di non frequentare alcune zone della città. Circolavamo in auto, a velocità sostenuta e non ci fermavamo mai neanche quando c’era una richiesta di soccorso da parte di qualcuno lungo la carreggiata. Il pericolo era dietro l’angolo e l’ambasciata italiana  che monitorava la situazione , era in continuo contatto con la direzione della società per prendere decisioni rapide nel caso  che la situazione precipitasse.


D’altronde al mio arrivo al campo base dove c’erano  i prefabbricati che ospitavano i tecnici e gli operai qualcosa aveva attirato la mia attenzione: l’ingresso era protetto da una sbarra e alcuni militari in mimetica controllavano il personale in entrata ed in uscita. L’ingresso era posto verso la fine della recinzione alta 3 metri con in cima  4 ricorsi di filo spinato , che circondava l’insediamento e all’angolo, dove girava per dirigersi verso il fondo dell’appezzamento, c’era un container messo in verticale con in cima una mitragliatrice  posta su un treppiede e fari che illuminavano a giorno  tutta l’area sottostante. Altre “ altane”, così venivano chiamate le torri con i proiettori e le mitragliatrici, erano poste a distanza regolare ed a tutti gli angoli del campo. A fianco dell’ingresso invece c’era un container  nella posizione normale, che pensai servisse come ufficio per il corpo di guardia. In seguito notai che su  un  lato c’era un’ apertura protetta da sbarre e  anche delle mani che dall’interno  ci si tenevano  attaccate:si trattava di una pseudo prigione dove venivano trattenuti i mozambicani che  lavoravano  nel cantiere che  avevano commesso qualche reato o semplicemente erano sospettati di simpatizzare per l’altra fazione. La popolazione del campo era di circa 1550 persone, a pieno regime,  di cui quasi 300 tecnici  espatriati, tra italiani, portoghesi, francesi, belgi, sudafricani e quindi il numero degli operai locali era rilevante e  i militari fungevano da polizia per controllare questa enorme massa di lavoratori. In realtà i mozambicani sono un popolo mite e tranquillo ma le problematiche politiche che in quel periodo insanguinavano il paese entravano anche all’interno del campo. I soldati  che proteggevano l’insediamento erano del Frelimo,  e dato che  l’opera che si stava costruendo era di interesse nazionale,  era un obiettivo di sabotaggio da parte dell’altra  fazione belligerante (Renamo). Da qui l’enorme spiegamento di forze profuso da parte delle autorità per proteggere i lavori e il personale che ci lavorava. Il container/prigione serviva anche a facilitare gli interrogatori…infatti quando i malcapitati venivano lasciati chiusi all’interno per qualche ora, in pieno giorno e sotto un sole impietoso,  con la temperatura all’interno che raggiungeva facilmente i 60 gradi,  e forse più, tutto di ferro,  di  color marrone, scuro, con una sola finestrella 40×40,  diventavano molto più inclini a fornire le informazioni richieste…  d’altronde erano in guerra, e di conseguenza anche noi.

Il campo era molto ben organizzato. Le abitazioni dove abitavamo noi espatriati, erano suddivise in quelle per i single e quelle per coloro che si erano portati la famiglia. Erano comode e ognuna aveva il suo spazio esterno dove in molti avevano fatto piccoli orti. C’era la zona centrale con la mensa, un piccolo market, e perfino una piscina. Di fronte dall’altro lato della strada, la società che aveva in carico la Direzione Lavori, aveva costruito un locale adibito a bar, luogo di incontro per il dopolavoro.  A poca distanza dalla piscina avevano realizzato un campo di atterraggio per l’elicottero che veniva usato per gli spostamenti su Maputo del personale  e in caso di necessità per evacuare nel vicino Sudafrica ,chi poteva essere vittima di un grave incidente. Nel campo c’era un’infermeria gestita da un medico italiano.

Insomma  era a tutti gli effetti un piccolo villaggio autosufficiente da cui durante le 24 ore gli operai andavano a lavorare e tornavano a fine turno. Una specie di circuito chiuso, in quanto non era permesso e comunque caldamente sconsigliato, uscire dal campo per andare in giro, magari a Maputo, che in una situazione del genere diventava quasi un miraggio lontano di chissà quali meraviglie! Infatti il lavoro era articolato sulle 24 ore, con turni durante il giorno e la notte senza interruzioni. Questo dà la misura dell’importanza che  la realizzazione di questa infrastruttura rivestiva per il governo del Mozambico che per finanziare l’opera aveva sottoscritto un accordo bancario con il Mediocredito per 110 milioni di $. Era purtroppo  nelle settimane precedenti il mio arrivo giunta  la notizia dell’uccisione di due tecnici italiani che stavano lavorando alla costruzione di un’altra diga, quella di Corumana nel sud del paese, e della richiesta della Farnesina di accrescere al massimo le misure di sicurezza nel cantiere pena la chiusura dello stesso e il rimpatrio di tutto il personale. Ecco il perché dello stato di “guerra” che avevo trovato varcando la sbarra d’ingresso al campo.