I sequestrati di Brega
Erano le 6 del mattino e mi stavo dirigendo verso il campo di Azzawya.
Lungo la strada a doppia carreggiata che portava da Tripoli verso ovest, a quell’ora poche automobili, alcuni carretti trascinati da poveri cavalli magri e ridotti male. Camion dai colori sgargianti e scritte in arabo di versetti del corano appiccicate sui parabrezza, invadevano l’aria con fumo nero e puzzolente, rendendo difficile superare. Lungo i bordi lampioni spezzati durante degli incidenti, contorti e piegati su se stessi come serpenti su una vittima, arrugginiti dalla salsedine, rimanevano a testimonianza di un regime che spendeva poco per il decoro urbano. Allontanandomi da Tripoli, la campagna a tratti brulla e spelacchiata, in alcuni tratti sembrava una discarica a cielo aperto. Carcasse di auto incidentate sui bordi, mai rimosse, giacevano saccheggiate da qualsiasi cosa potesse essere utile. Nella mia testa facevo un paragone con me stesso, e mi sentivo un po’ come un’automobile nuova che poteva sbattere contro un paracarro e poi di lì a poco cominciare ad arrugginire : essere svuotato di tutto ciò che di buono e di pulito avevo dentro. L’episodio di corruzione di qualche giorno prima mi aveva profondamente scosso, ma soprattutto era stato l’atteggiamento dei miei superiori a sconvolgermi. Ero partito per Tripoli pieno di speranza e d’entusiasmo perché l’incarico che avevo era prestigioso e mi sentivo capace di portarlo a termine fino in fondo. Ma questo libico, questo Salah, che avevo tra i piedi, mi impediva di vedere un futuro luminoso. Anzi cominciavo a pormi delle domande su quel futuro. Comunque ero arrivato in cantiere ed avevo appuntamento col manager della raffineria e logicamente dovevo andarci con Salah. Abderrahmane ben Khaled era un uomo molto potente. Quando entrai nel suo ufficio posto sul lato ovest della raffineria al primo piano di una palazzina bianca, Salah mi presentò. Lui avrà avuto 45 anni, capelli folti riccioluti baffi imponenti. Lo scopo di quella visita, oltre alla presentazione, era la richiesta di sbloccare dei pagamenti arretrati di alcuni lavori che avevamo eseguito e terminato perché fermati da un loro supervisore per motivi campati in aria ( non era stato unto a dovere). Purtroppo a parte quattro parole in croce dette in inglese, tutta la conversazione avvenne in arabo tra Salah e il direttore e anche se lui mi traduceva ciò che diceva e viceversa, io non potevo avere la sicurezza che le mie parole sarebbero state riportate correttamente. Quindi dopo un quarto d’ora, andammo via con la promessa che avrebbe dato istruzioni per sbloccare il pagamento ma ebbi nettamente la certezza che quanto ci dovevano sarebbe stato decurtato da una tangente che Salah si sarebbe diviso con Ben Khaled. Infatti una delle tecniche di questi signori era quella di fermare il pagamento dei lavori adducendo false motivazioni, per poi arrivare dopo accordi sottobanco a pagare dopo aver sottratto una percentuale. Elementare Watson!
Quella settimana dovevo andare a Marsa El Brega dove la S.I.I. aveva già diversi cantieri aperti e un mucchio di problemi sia con i libici che con il personale italiano. Cristina era rientrata in Italia per una settimana e la sera prima di partire per Brega, andai con due colleghi venuti da Roma e che dovevano venire con me in cantiere, a mangiare in un ristorante in città a Tripoli. Abituato a fare molta attenzione a ciò che mettevo in bocca, quella sera praticamente non mangiai quasi nulla. L’indomani mattina un autista ci accompagnò all’aeroporto e mentre eravamo in attesa di imbarcare, i miei due colleghi cominciarono a dare segni di forte disagio e sparirono nei bagni dell’aeroporto tenendosi la pancia. Regola numero 1, mai mangiare in un ristorante a Tripoli se non vuoi avere mal di pancia (e non solo), regola numero 2, viaggiare sempre col bimixin, regola numero 3, mai andare in un cesso all’aeroporto, meglio buttarsi dietro un cespuglio piuttosto che aumentare esponenzialmente le possibilità di prendersi qualche malattia micidiale.
La cittadina di Brega, nel golfo della Sirte, era un feudo di Khaddafi e quindi erano stati fatti moltissimi lavori e si capiva che il generale ci teneva molto. Il campo della società, posto a qualche km di distanza dalla raffineria era costituito da container climatizzati e albergava una decina di tecnici italiani principalmente di origine sarda. Non è facile descrivere quello che trovai al mio arrivo. Si respirava un’aria di sofferenza e di disperazione. Il personale non aveva potuto rientrare in Italia da più di un anno a causa del fatto che i lavori di costruzione di una palazzina all’interno della raffineria erano stati interrotti dalla S.I.I poiché la direzione lavori libica aveva bloccato i pagamenti. Come ho già accennato, secondo prassi consolidata, i passaporti erano in mano del direttore dello stabilimento che si rifiutava di restituirli adducendo il fatto che i lavori non erano stati eseguiti a regola d’arte. Chiaramente erano scuse, ma il fatto che a Tripoli non ci fosse un responsabile capace di dirimere il problema, aveva congelato il cantiere. Quando ero partito dall’Italia, mi era stato accennato questo problema ma solo in modo superficiale. Al mio arrivo all’aeroporto, trovai tutta la delegazione degli operai ad attendermi. Durante il breve viaggio fino al campo, mi raccontarono per sommi capi le loro sventure, accusando di inerzia la società da un lato e dall’altro commentando la controparte libica con tutta una sequela di insulti. Andammo subito a vedere il cantiere della discordia e mi resi conto, guardando le relazioni delle riunioni fatte con i libici che tutto verteva sull’impermeabilizzazione della copertura dell’edificio. Il problema risiedeva nel fatto che la proprietà aveva imposto un subappaltatore libico per fare i lavori, sotto la supervisione degli assistenti italiani e in effetti il lavoro che ne era derivato era sicuramente malfatto. Il giorno dopo arrivò sul posto anche Salah e gli chiesi di andare dal manager della raffineria perché volevo parlare con la direzione. L’indomani alle 10 ci recammo negli uffici dove era stata convocata la riunione. La struttura del complesso assolutamente avveniristica, con grandi vetrate fumé e lunghi corridoi dove affacciavano gli uffici, moquette marrone scura e boiserie color mogano lungo le pareti. La sala riunioni sembrava la plancia di un astronave, con un tavolo ellittico rigorosamente di palissandro, lungo più di 15 mt. Tutto intorno su poltrone a alto schienale, erano seduti i componenti del consiglio di amministrazione della raffineria. Mancava solo il signor Spok e gli altri componenti di Star Trek! Forse pensavano che mi sarei intimorito, ma dopo i convenevoli in arabo tradotti da Salah, iniziai a spiegare in inglese quello che avevo intenzione di fare e gli chiesi a di redigere un verbale di quello che ci saremmo detti che alla fine avrebbe dovuto essere firmato da tutti. La mia proposta prevedeva il totale rifacimento del manto di copertura a nostre spese senza utilizzare il subappaltatore ma prendendo in carico direttamente i lavori utilizzando solo gli operai italiani. Mi presi 15 giorni di tempo per consegnare l’opera e chiesi di verbalizzare il fatto che alla consegna del cantiere ci avrebbero subito restituito i passaporti del personale. Dopo che ebbero ascoltato quello che dovevo dire, iniziò un parlottare in arabo che logicamente non riuscii a comprendere ma leggevo nella faccia di Salah che questa volta non ci sarebbe stata trippa per gatti e che sarebbero stati costretti ad accettare la mia proposta. Quando uscimmo dagli uffici Salah mi disse che era la prima volta che il consiglio di amministrazione della raffineria si era posto in maniera costruttiva nei confronti della S.I.I. Ed in effetti le strette di mano che ci scambiammo prima di lasciare la riunione me lo avevano confermato. Poi il fatto che in futuro avrebbero cercato di pugnalarmi alle spalle era un ‘altra storia. Incaricai uno degli assistenti di supervisionare i lavori e gli chiesi di essere informato giorno per giorno sull’avanzamento. Sarei tornato a Brega solo quando avessero concluso le opere di impermeabilizzazione dopo esattamente 15 giorni e non ci doveva essere alcun ritardo. Sarei stato inflessibile con loro se avessero tardato anche di solo un giorno. Ne andava della mia reputazione e avrebbe contato molto nei futuri rapporti con la raffineria.
Il momento più bello, 15 giorni dopo, fu quando, consegnati i lavori, dopo una riunione di cantiere che sancì la buona esecuzione dell’opera, ricevetti dal General Manager i passaporti degli operai e potei consegnarli nelle loro mani. Tutti avevano già prenotato il volo per rientrare in Italia, e mi godetti un Hip Hip Hurra e tante strette di mano ed abbracci. Alcuni avevano le lacrime agli occhi e mi ringraziarono, per loro era stato un calvario vivere sequestrati nel campo per un anno, senza poter lavorare, facendo quotidianamente le stesse identiche cose, svegliarsi, andare in mensa, fare la colazione, poi passeggiare per il campo fino all’ora di pranzo, quindi mangiare ( sempre le stesse cose), passeggiare nuovamente, o prendere l’auto magari arrivando fino al paese di Marsa el Brega dove non c’era assolutamente nulla da fare o vedere, tornare al campo, cenare, vedere un film nella sala comune e poi ritornare nel container a dormire. Non sapevo quanti di loro sarebbero rientrati dopo le ferie, ma ero conscio del fatto che ero riuscito a liberarli. Ora il problema era far accettare alla società i costi supplementari che avevo dovuto sostenere per rifare tutta l’impermeabilizzazione, ma già avevo una mezza idea su come impostare una serie di varianti in corso d’opera sui prossimi cantieri che dovevamo aprire, per pareggiare i conti.