La strada sconnessa e piena di buche faceva saltare le sospensioni dell’auto che mi stava conducendo verso quella che sarebbe stata la mia abitazione per i prossimi mesi. All’aeroporto dove era venuto a prendermi un collega, tutto sommato ce l’eravamo cavata abbastanza bene considerando che i doganieri avevano trovato da ridire praticamente su tutto il contenuto del mio bagaglio, mutande comprese… L’impiegato sierraleonese incaricato di facilitare l’arrivo degli espatriati aiutandoli nell’espletamento delle complesse pratiche doganali, si era dato molto da fare ungendo a destra e a manca in maniera oserei dire sfacciata,la polizia e lo stuolo di personaggi che gravitavano nell’area off limits all’uscita dell’aeroporto. Washington Michinga era un signore sulla settantina, con barba bianca che gli incorniciava il viso, un continuo tra i capelli anche loro bianchi crespi con una pelata a mo’ di chierica in centro. Il suo accento inglese molto raffinato , quasi oxfordiano, mi dava l’impressione di essere sbarcato ad Heatrow e non a Freetown. Se non fosse stato per il vestito trasandato e gli infradito, il buon Washington poteva essere scambiato con un Lord del Sussex.
La villa, situata in Wilkinson road molto grande e su un solo livello, era circondata da un vasto giardino ben tenuto. Alberi di mango, lime, splendidi Hibiscus di tanti colori e Bouganville e banani circondavano la proprietà dando l’impressione di essere dentro un giardino botanico. Il mio incarico era quello di sostituire il direttore della filiale in Sierra Leone della Salini Costruttori che a breve sarebbe andato in pensione per sopraggiunti (da un bel po’) limiti di età. Si trattava di un omone grande e grosso di origini napoletane, che si trovava da tanto tempo in Sierra Leone e che era praticamente la memoria storica della società in quel paese. Non sarebbe stato facile per me impadronirmi in pochi mesi di tutto il bagaglio di conoscenze che questo signore aveva accumulato nel corso degli anni ma ero fiducioso che con il suo aiuto sarei riuscito a conoscere le mille sfaccettature che un tale incarico comportava. Avevamo due auto e due autisti, un guardiano di notte, uno di giorno, un giardiniere, un cuoco ed una donna delle pulizie al nostro servizio. Ognuno di questi personaggi aveva le sue peculiarità, che avrei avuto modo di conoscere con il passare dei giorni. Il nostro ufficio si trovava dall’altro capo della città in Millicent drive, in una casa su due piani situata in cima ad un sentiero ripido immersa in mezzo agli alberi. Avevo a mia disposizione una Fiat 131 e l’autista che era obbligatorio nel senso che per motivi di sicurezza non era auspicabile che fossimo noi espatriati a guidare perché in caso di incidente con eventualmente anche dei feriti, se fossimo stati alla guida avremmo corso il rischio di essere linciati . Il mio autista si chiamava Ali e aveva circa 40 anni e una famiglia molto numerosa. Mentre la mattina mi conduceva alla sede guardavo le strade di Freetown.
Era sorprendente la quantità di botteghe con la scritta “ cambio valuta” e quindi chiesi ad Ali spiegazioni. Si trattava di botteghe, per lo più di proprietà di libanesi ,che commerciavano in diamanti. La Sierra Leone era un paese estremamente povero ma ricchissimo di risorse naturali e nel secolo scorso era stata meta di emigrazione per i popoli mediorientali che avevano messo su delle fiorenti aziende di import-export sfruttando la mano d’opera locale praticamente a costo zero, ed esportando in Olanda e Sud Africa il prezioso minerale. Il traffico molto intenso ci obbligava a delle lunghe soste e un codazzo di ragazzini si avvicinava al mio finestrino chiedendo qualcosa, qualsiasi cosa. Lungo la strada decine di bambine tutte vestite con un grembiule giallo ocra e il colletto bianco , camminavano in fila indiana dirette alla Sierra Leone Grammar School. Sull’altro lato una lunga fila di ragazzini sui 12 anni o giù di lì, anche loro rigorosamente in grembiule celeste e colletto bianco, transitavano dirigendosi in un altra scuola poco distante. Sicuramente questo abbigliamento era un’eredità coloniale che era stata mantenuta anche dopo l’ indipendenza dalla madre patria Inghilterra nel 1961. Venditrici di manghi, ananas, banane ed altri prodotti venivano ad offrire la loro merce. Il caos andava aumentando man mano che la vettura si avvicinava al centro della città. Pulmini e piccoli transporter tipo Ape Piaggio zeppi di persone, colorati e sgangherati suonavano il clacson per farsi strada. Notai delle scritte su molti di essi e tra tutte ne campeggiava sempre una: GOD SABABU FINE, ovvero Iddio è un padre eccellente ( nella traduzione di Ali).
Quando arrivai in ufficio avevo ancora in testa il clamore della strada e quindi non feci caso ad una scimmia che mi guardava da un albero a qualche metro dalla finestra. Con un balzo afferrò uno dei due manghi che avevo appoggiato sul tavolo e in un batter d’occhio sparì dalla mia vista con un grido simile ad uno stridio di freni: Welcome to Freetown, Sir! In realtà lo shimpanzee non faceva altro che imitare quello che i suoi parenti umani facevano per campare: rubare.
Rubare a tutti i livelli. Dall’autista che inginocchiato dietro l’auto, la mattina mentre facevo colazione, prima di uscire, sifonava benzina dal serbatoio dell’auto, al guardiano di giorno che, incaricato di aprire il cancello al nostro arrivo, puntualmente non c’era perché era addormentato dietro il garage( in realtà lui faceva il guardiano di notte in un altro posto e di giorno veniva a dormire da noi…). Per non parlare del cuoco che probabilmente manteneva con quello che riusciva a portare via da casa tutto il quartiere di Foulah town dove abitava . Ma tutto ciò faceva parte del gioco, e quindi tra una tirata di orecchi e una minaccia di licenziamento, tutto tornava alla normalità. Ma la corruzione era dilagante a tutti i livelli, dico tutti, dal poliziotto in centro che ci fermava perché aveva visto che c’era un bianco in macchina, all’usciere di uno dei ministeri dove dovevo recarmi quotidianamente per sollecitare pratiche e quant’altro, al ministro, viceministro e sottosegretario, fino al presidente…signorsì proprio lui Joseph Saidu Momoh. Certo il livello delle regalie era differente ma il concetto era sempre lo stesso ed una società come la nostra che era da anni in Sierra Leone non poteva certo ritenersi indenne da questo “ do ut des “visto che gli interessi in gioco erano lavori per centinaia di milioni . Quindi dovetti apprendere tecniche che fino a quel momento non erano state nelle mie corde e imparare a muovermi in ambiti a me sconosciuti. Freetown è situata su una penisola e gode di un clima micidiale. Alle spalle della “città” sempre che la si possa definire tale, visto che fatta eccezione di una piccola parte, è una grande slum, bidonville, favela, ranchito, periferia degradata, ok questo è il termine politically correct, si erge una montagna sempre incappucciata da nuvole dove piove moltissimo, si parla anche di 4/5 metri di pioggia l’anno. La vegetazione lussureggiante discende verso la costa dove ci sono piccoli villaggi di pescatori. Il livello di umidità, considerando le alte temperature è notevole. Tutto ciò fa sì che mentre lungo il mare si riesce a respirare, nelle vie del centro l’atmosfera è densa.
Se poi aggiungiamo la inesistenza di fognature e l’elevata demografia e quindi la promiscuità, c’è poco da stupirsi se Freetown e comunque tutta la Sierra Leone sia a elevato rischio di epidemie di colera, ebola, febbre emorragica e quant’altro.