Durante i lunghi anni di lavoro all’estero ho avuto modo di conoscere i personaggi più disparati. A partire da quelli che partivano solo perché lo stipendio era nettamente maggiore di quanto avrebbero percepito lavorando in Italia, a quelli che partivano all’avventura senza sapere a cosa andavano incontro e magari in capo a pochi mesi chiedevano di rientrare. Poi c’erano quelli che ne facevano un mezzo, cioè sfruttando la loro posizione in seno ad una impresa all’estero, cercavano di inserirsi nel paese di destinazione e abbandonavano la società una volta che pensavano di aver trovato ciò che cercavano. C’erano poi quelli che si accasavano con donne del luogo, come appunto Graziano il capocampo di Bumbuna, e quelli che invece si costruivano una seconda famiglia di nascosto da quella d’origine e magari facevano anche dei figli e smettevano di mandare i soldi a casa in Italia, sparendo completamente dalla circolazione. Insomma una bella fauna. Per non parlare di quelli che stavano già sul posto magari da anni, e, o erano dei vuoti a perdere che ti corteggiavano perché cercavano in tutti i modi di inserirsi nella tua società, oppure erano degli imprenditori che avevano messo su una realtà prospera che dava lavoro e benessere agli indigeni. C’è anche da aggiungere che spesso coloro che vivono in questi paesi in via di sviluppo, sono dovuti scappare dalla madrepatria perché avevano qualcosa a che fare con la giustizia, il fisco, e Dio solo sa cos’altro. In questo racconto parlerò di un italiano che ho conosciuto appunto in Sierra Leone, che rientra in u no dei gruppi che ho citato, ma voglio lasciare al lettore la libertà di scegliere la sua collocazione. Io mi limiterò solo ad esporre i fatti. Spesso quando avevo un po’ di tempo libero, contravvenendo alle regole, prendevo l’auto e mi inoltravo lungo la strada costiera che da Freetown conduceva verso sud. Il paesaggio era molto vario e si passava per piccoli centri abitati da pescatori. La natura lussureggiante faceva arrivare gli alberi sin sull’acqua e spesso fiumiciattoli e torrentelli si andavano a gettare nel mare. In quei luoghi la salsedine si mescolava con l’acqua dolce producendo strane colorazioni dell’acqua marina a causa della differenza di densità e di temperatura, per diverse decine di metri entro il mare. I villaggi che si trovavano lungo i fiumi però inquinavano pericolosamente l’acqua e non era raro che chi si bagnava alla foce del fiume potesse beccarsi qualche brutta malattia ingerendo l’acqua o semplicemente per il contatto con gli occhi, le orecchie, le mucose. (bilarsia per esempio). Lakka, Hamilton, Sussex erano a poche decine di km da Freetown e spesso meta di escursioni da parte mia e degli altri pochi espatriati residenti. Quel giorno decisi di inoltrarmi ancora più a sud e lasciata la pista principale mi diressi lungo un sentiero che verso destra si dirigeva verso la costa. Aveva attirato la mia attenzione una freccia su cartello bianco piccolo ma ben visibile con la scritta: FRANCO.
Percorse alcune centinaia di metri lungo un sentiero sconnesso in mezzo agli alberi, sbucai improvvisamente in una baietta. Il colpo d’occhio era fantastico: la sabbia bianca incorniciata da enormi massi neri che penetravano nel mare cristallino. Sulla destra una casa con il rustico costruito per due livelli ma finita solo al piano terreno. Di fronte quasi nell’acqua, una grande costruzione circolare interamente in legno con il tetto in paglia. Fermai l’auto e scesi guardingo perché non si vedeva nessuno e non c’era alcun rumore fatto salvo per il vento che faceva tintinnare delle conchiglie appese al portico di fronte all’ingresso. Mi avvicinai alla porta e quando stavo per bussare l’uscio si aprì e comparve una giovane donna sulla ventina, dai lineamenti delicati, i capelli molto corti che le incorniciavano il viso d’ebano e un bel sorriso amichevole. Mi scusai per averla disturbata parlando in inglese e mi presentai. Quando la giovane sentì il mio nome capì che ero italiano e iniziò a parlarmi nella mia lingua. Franco era il suo uomo, ma in quel momento era andato a pesca e non avrebbe tardato a rientrare. Mi fece strada verso il bungalow con il tetto di paglia che si rivelò essere una specie di sala da pranzo, bar, salotto e sala da ballo e gentilmente mi offrì una birra ghiacciata. Lei era Florence. Le raccontai cosa ero venuto a fare in Sierra Leone e quando le dissi che lavoravo per Salcost mi fece un gran sorriso e mi disse che anche Franco
aveva lavorato per la stessa società al progetto idroelettrico di Bumbuna ma che quando i lavori si erano fermati, aveva preferito restare piuttosto che rientrare in Italia. Dato che era un ottimo assistente ( in gergo un assistente è un operaio specializzato, muratore, ferraiolo, carpentiere, autista di macchine movimento terra, etc), con i suoi risparmi aveva acquistato quel luogo ed aveva costruito tutto quello che c’era. L’obiettivo era di farne una struttura ricettiva con poche camere e la possibilità di mangiare, piatti italosierraleonesi of course! Dopo circa una mezz’ora che stavamo chiacchierando, Florence mi indicò una piccola imbarcazione a largo che si avvicinava rapidamente alla spiaggia. Quando fu a portata di voce vidi che si trattava di una piroga interamente scavata in un tronco, tipica dei pescatori locali, con a bordo un omone sulla cinquantina con lunghi capelli bianchi trattenuti da una bandana. La piroga misurava 4 metri circa e la parte anteriore era tutta piena di grossi pesci: una bella cernia sui 12 kg, un capitaine o giant threadfin da 15 kg circa, una bella ricciola sui 7/10 kg e poi saraghi, jack e orate, in quantità. Mi avvicinai con Florence e subito Franco esordì: hai l’aria di essere uno che ama i pesci e la natura! Altrimenti non saresti qui! Fu l’incipit per iniziare una bella amicizia che durò per tutto il tempo che trascorsi a Freetown e anche dopo una volta che rientrai in Italia. Quella sera rimasi con loro a pulire il pesce e a mangiare riso col curry e uno snapper alla griglia. I racconti dei lavori e del campo di Bumbuna si mescolavano con i racconti sulle battute di pesca. Franco conosceva i due operai e sapeva del loro stato di disagio e dei problemi che dovevano superare.
Lui, una volta che il cantiere era stato congelato, non ci aveva pensato due volte e si era licenziato per iniziare una nuova vita con Florence che aveva conosciuto nel frattempo. Divorziato, aveva lasciato la famiglia in Italia, un figlio ed una moglie, ma continuava ad inviare loro un assegno mensile. Tornando a Freetown riflettevo su quante persone avevo conosciuto che avevano modificato il loro modo di essere in conseguenza del fatto che lavoravano all’estero. E’ anche vero che ho conosciuto dei turpi individui che approfittando del fatto che le popolazioni indigene erano povere e bisognose di tutto, approfittavano della loro posizione per pretendere favori sessuali da parte delle donne che incontravano e che magari facevano parte del personale assunto in loco dalla ditta. Oppure molto più semplicemente andavano in giro per i villaggi tirando su in macchina delle poverette che per un tozzo di pane si prostituivano. Questi personaggi che purtroppo ho dovuto frequentare durante i miei anni di Africa, erano abbietti e squallidi. Devo dire che ho sempre sperato che potessero prendersi tutte le schifose malattie che una tale promiscuità poteva procurare. Ricordate quando in Mozambico giravo per Maputo per accompagnare la povera Isabel a casa? Ebbene la situazione sanitaria era disastrosa e così era anche in Sierra Leone. Non a caso in tempi molto più recenti è stato proprio in Sierra Leone che è scoppiato Ebola. Comunque il fine settimana successivo, tornai a trovare Franco e Florence e questa volta mi portai tutta l’attrezzatura subacquea. La canoa era stretta e bisognava stare attenti a non fare movimenti bruschi per non capovolgersi. Pagaiavamo con forza e in pochi minuti raggiungemmo alcuni scogli a circa mezzo miglio a largo. L’acqua era torbida nei primi tre o quattro metri ma diventava chiara più sotto. Era come immergersi nel latte senza vedere niente, ma dopo si sbucava in un mondo da favola. Branchi di centinaia di jack fluttuavano a mezz’acqua senza paura e grosse cernie si avvicinavano incuriosite. Il fondale sui 15 metri finiva sulla sabbia e alcuni squaletti pinna nera volteggiavano aspettando una preda. Sembrava di essere in un acquario.
Ma quello che mi colpì maggiormente fu un suono, costante, un sibilo prolungato , quasi una vibrazione che si percepiva nettamente soprattutto nei primi metri quando si scendeva dopo la capriola. Era il canto delle balene che forse erano a centinaia di metri di distanza ma che giungeva trasportato dall’acqua chiaro ed uniforme. Facemmo un bel carniere e giunti a terra, Franco mise da parte i pezzi migliori. Poi regalò il resto a dei ragazzi che erano accorsi sulla spiaggia dalla vicina Sussex. Era benvoluto da tutta la popolazione locale e spesso riceveva doni di vario genere, era considerato il “padre bianco” o white babu. Quando alcuni mesi dopo arrivai a casa di Franco, non trovai nessuno. Il watchman, il guardiano mi disse in un creolo stentato che erano corsi all’ospedale perché Florence doveva partorire. Feci marcia indietro e corsi via in direzione di Freetown. Il Connaught Hospital, credo che sia uno dei luoghi più impressionanti che io abbia mai visitato.
La costruzione su due livelli doveva risalire alla dominazione inglese, e poco o nulla era stato fatto successivamente all’indipendenza della Sierra Leone dalla madre patria inglese. Muri che trasudavano umidità, canalecce rotte che non convogliavano più l’acqua ma la spandevano lungo le finestre spesso prive di vetri e chiuse in qualche modo con pezzi di legno o di cartone. Pavimenti dissestati, con piastrelle consumate all’inverosimile, scale e balconate con balaustre rotte e pericolanti. I letti nelle camerate facevano pensare ad una colonia penale con decine di persone sdraiate in qualche modo su lenzuola sudice e che emanavano un forte odore di urina e non solo. Non ho avuto la sfortuna di entrare in una camera operatoria quindi non la saprei descrivere ma credo che i poveracci che hanno dovuto usufruirne non abbiano potuto raccontarlo.Fortunatamente il watchman si era sbagliato o quanto meno aveva pensato che i miei due amici erano andati all’ospedale. In realtà Franco aveva portato Florence a casa di una ostetrica tedesca che viveva a Freetown da molti anni e che aveva prestato servizio di cooperazione tecnica presso l’ospedale. Quindi Florence aveva partorito, un bel maschietto di 3,8kg senza alcun problema soprattutto senza essere andata al Connaught Hospital. Franco e Florence vollero chiamare il loro piccolo Fabrizio, e questo mi colpì molto.Ancora oggi a distanza di tanti anni il ricordo di quei giorni è molto vivo nella mia mente. Il mare, l’amicizia, il pericolo, le immersioni, la sabbia bianchissima e le rocce nere formano un insieme indelebile nei miei ricordi sierraleonesi.