Fernan’Vaz

Era una giornata molto calda, tirava un vento secco  da terra che portava sabbia e oscurava il cielo.  Le  10 di mattina  sembravano le 6 di pomeriggio. Onde corte e  alte una cinquantina di cm. coprivano l’estuario tra Libreville e la Pointe Denis. Alcune imbarcazioni da pesca rientravano ad Owendo sballottate da tutte le parti. Ormeggiate alla banchina della darsena del club nautico, le barche ondeggiavano facendo scricchiolare i parabordi. Due ragazzini in fondo al molo gettavano le lenze per tirare su qualche pescetto per pranzo. A lunghi passi mi stavo dirigendo verso il    secondo pennello del molo dove era ormeggiato il mio 25 piedi in vetroresina equipaggiato con due fuoribordo Mercury da 115 hp: l’avevo chiamato Fernan’Vaz dal nome dell’  esploratore portoghese che  nel 1500 fu il primo europeo a raggiungere il Gabon. Acquistato in società con  il  direttore amministrativo Claudio Gaetani mio carissimo amico,  con il suo scafo ad ala di gabbiano era un’imbarcazione estremamente affidabile e ci permetteva di raggiungere rapidamente i luoghi dove pescare. Le maree in Gabon sono molto violente e le correnti soprattutto nell’estuario non ti permettono di pescare in apnea. D’altronde l’acqua è spesso torbida e quindi l’unica opzione è scendere con le bombole, farsi trasportare dalla corrente e cacciare lungo il percorso. Avevo già effettuato svariate immersioni del genere insieme a due amici, uno francese, Claude e  Maura, una ragazza italiana moglie di un imprenditore inglese.  Ci eravamo conosciuti  durante un ricevimento in ambasciata. Loro erano già amici da tempo e visto che avevamo la stessa passione in comune, avevamo iniziato ad uscire per mare insieme.

La tecnica di pesca consisteva nel raggiungere una zona dopo aver cercato con l’ecoscandaglio una secca oppure una fossa, gettare l’ancora, vestirsi con l’equipaggiamento e scendere sul fondo seguendo la catena . Normalmente i primi metri si scendeva nell’acqua torbida poi a partire dai 14 metri la visibilità aumentava e sul fondo si riusciva a vedere fino ai 10 mt. di distanza. Quindi disincagliata l’ancora ci si lasciava trasportare, barca compresa, secondo la corrente cercando di catturare il pesce che arrivava a tiro. Le prede, dopo essere state arpionate,  venivano quindi uccise il più rapidamente possibile per evitare che attirassero squali ed attaccate alla catena dell’ancora. Si tenevano sotto controllo il tempo di immersione e la profondità massima raggiunta ( che però all’interno dell’estuario  difficilmente  superava  i  25-30 mt.)  e quindi si finiva per fare la decompressione a.   3 mt. di profondità.  Quando si riemergeva, ci si trovava a diverse miglia dal punto in cui ci si era immersi, e magari il tempo era anche cambiato , spesso in peggio ed il rientro non era mai agevole.


Quella mattina avevamo deciso di uscire col Fernan’ Vaz, Claude aveva una barca in plastica lunga e stretta,scomoda, equipaggiata con un fuoribordo da 90hp.  Dopo aver caricato l’attrezzatura, ci dirigemmo verso l’isola di Corisco a Nord di Libreville. Soffiava una brezza  da terra sui 10 nodi  e piano piano il sole si stava facendo strada in mezzo alle nuvole cariche di sabbia. La tuga della barca era gialla di polvere portata dal vento. Dopo circa 45 minuti di navigazione arrivammo in zona ed iniziammo la ricerca con l’ecoscandaglio. Una grossa massa scura a 20 mt di profondità ci indicava la presenza di parecchio pesce, quindi  tirammo giù l’ancora e rapidamente dopo aver controllato gli erogatori e le bombole ci infilammo uno dopo l’altro in acqua .

Il problema di questo tipo di pesca è che non bisogna mai perdersi  di vista , primo perché se uno è in difficoltà con una preda si può intervenire subito e secondo perché se ci  si attarda dietro a qualcosa e  si perde di vista il gruppo può essere molto pericoloso.  E quel giorno stava proprio per accadere… Erano passati circa 40 minuti e attaccati alla corda dell’ancora ci saranno stati un centinaio di kg. di pesce di varia taglia  ed io mi stavo apprestando a richiamare l’attenzione di Maura per dirle che era ora di iniziare la risalita e la decompressione quando mi resi conto che Claude era sparito. Maura mi guardò incredula. Sotto di noi il fondo scorreva rapido, la corrente era aumentata e la visibilità stava diminuendo. Mi venne in mente che  Claude forse si era sentito male ed era risalito in barca senza averci potuto avvertire, quindi  risalii in tutta fretta per verificare. Avevo pochi minuti a disposizione per risalire controllare e quindi ritornare giù per effettuare la decompressione prima di beccarmi un’embolia gassosa. Arrivato sotto lo specchio di poppa tra le eliche dei motori mi aggrappai e gettai uno sguardo all’interno ma di Claude nessuna traccia. Ritornai rapidamente in fondo afferrandomi alla catena dell’ancora e  feci segno a Maura che Claude non c’era: nei suoi occhi vidi lo sgomento totale. Non avevamo  altra scelta che riemergere dopo aver fatto la decompressione a tre metri e sperare che Claude avesse potuto fare lo stesso magari nuotando in orizzontale tenendo d’occhio il profondimetro.  Mi ritornavano in mente gli attimi di terrore vissuti in Mozambico anni prima quando rischiai di perdere un amico che era stato trascinato via dalla corrente della marea  questa volta però c’era anche il pericolo dell’embolia! Così dopo circa 25 minuti risalimmo in barca, attaccammo un pallone alla cima dell’ancora (sotto c’era il pesce)per avere un punto di riferimento e iniziammo a risalire la corrente sperando di ritornare approssimativamente nella zona dove avevamo perso di vista Claude. La superficie dell’acqua non ci consentiva di individuare le bolle d’aria del suo respiratore e quindi lasciai i comandi a Maura e mi buttai nuovamente giù con un monobombola che avevamo sempre a bordo in caso di necessità ed un razzo fumogeno di emergenza da sparare per indicare a Maura dove mi trovassi. Raggiunto il fondo a circa 18 mt  iniziai a procedere in circoli sempre più larghi tenendomi rasente alle rocce per offrire meno superficie alla corrente. Dopo circa 15 minuti due squaletti lunghi un paio di metri ,mi passarono sopra e a giudicare dalla loro frenesia mi fecero pensare che non dovevo essere lontano dall’ancora dove era attaccato il pesce catturato. Infatti in lontananza scorsi la sagoma scura delle prede che ondeggiavano a corrente attaccate alla catena.  Quando arrivai vicino all’ancora i due avevano già attaccato uno snapper di una diecina di kg e rapidamente lo stavano facendo a pezzi.  L’acqua era diventata torbida tra pezzi di carne e sangue ma guardando  verso l’alto  in prossimità della superficie ( in quel punto il fondo era a circa 15 mt) mi parve di scorgere una figura che attaccata alla catena rimaneva immobile nonostante quello che stava succedendo poco più sotto.  Era Claude!  Staccai l’ancora dal fondo e immediatamente il pallone cui era attaccata la catena iniziò a tirare nel senso opposto della corrente a causa del vento in superficie.

Claude a quel punto guardò verso il basso e mi vide mentre risalivo a debita distanza dalla catena dove stavano banchettando gli squali. Si diresse verso di me e quando mi arrivò vicino  fece segno che stava finendo l’aria. Aveva ancora 10 minuti di decompressione da fare e quindi la terminammo alternando la respirazione   dal mio erogatore. Quando risalimmo in superficie Maura che aveva seguito il pallone non era a più di 50 metri di distanza e ci scorse subito.

Quando sfinito Claude salì a bordo, ci raccontò che aveva tirato ad un grosso capitaine che si era disarpionato e nascosto sotto ad una roccia. Lui per recuperarlo si era distratto per un paio di minuti e ci aveva perso di vista. Era stato provvidenziale il nostro risalire la corrente perché, temendo  l’embolia, non aveva voluto  tornare  rapidamente in superficie per vedere in che direzione si trovasse la barca. Aveva trovato l’ancora da noi lasciata con il pallone e si era attaccato per iniziare la decompressione.

Rientrando a Libreville il Fernan’ Vaz scivolava sulle onde silenziosamente. I 230 cavalli a mezza forza spingevano il battello a 40 nodi senza fatica. Le onde piccole e poco formate non compromettevano la sua stabilità a quella velocità. Eravamo silenziosi anche noi e ognuno pensava dentro di se che forse stavamo rischiando troppo. Ma già sapevamo che passati i primi momenti di smarrimento ( o di saggezza?) saremmo ritornati ad  immergerci nelle acque dell’estuario.