Samuel Makunda abitava in una pagliota ( capanna di fango con tetto di paglia) a circa 300 metri dalla recinzione del campo. Aveva un solo braccio perché l’altro gli era stato tagliato con un colpo di machete durante un assalto delle milizie della Renamo nel suo paese di origine, Quelimane , circa 1600 km a nord di Maputo. Era stato coinvolto, senza peraltro appartenere a nessuna fazione , nel combattimento tra le due milizie avversarie e colpito al braccio che in seguito gli era stato amputato per salvargli la vita . Come lui, in tanti erano migrati a Maputo in cerca di una vita migliore, o forse dovrei dire solo in cerca di una vita e basta. Nei dintorni del campo era sorto un piccolo villaggio spontaneo e molte persone che avevano trovato un lavoro all’interno come giardinieri, donne delle pulizie, guardiani , si erano costruiti con pochi mezzi a disposizione delle abitazioni precarie. Un pomeriggio mentre tornavo al campo, pioveva a dirotto, avevo incontrato lungo la pista Samuel e gli avevo dato un passaggio. Dopo aver parlato con lui per una mezz’oretta durante la quale mi aveva raccontato le sue vicissitudini, avevo deciso di assumerlo come tuttofare nella mia casa . Tenere in ordine intorno al perimetro, coltivare un piccolo orto, dar da mangiare al mio cane che avevo portato con me dall’Italia, insomma qualsiasi cosa che giustificasse un sussidio economico ma che non fosse un’elemosina. Samuel, un uomo sulla quarantina, aveva lasciato la sua famiglia, moglie e 4 figli, a Quelimane, dove sperava di tornare un giorno, magari portando con se un piccolo gruzzolo per ricostruirsi la casa che era stata bruciata durante gli scontri tra milizie due anni prima. Era, malgrado tutto, sempre sorridente, forse anche perché, almeno il cibo non doveva andarselo a cercare perché lo mantenevo io. Samuel mi aveva fatto conoscere Isabel, una donna che aveva perso il marito ed era rimasta sola con tre figli da sfamare. Viveva in un sobborgo di Maputo e tutte le mattine riusciva in qualche modo a raggiungere il campo per cercare lavoro. Mi resi conto che avevo sicuramente bisogno di qualcuno che si occupasse anche dell’interno della mia baracca e che mi lavasse la biancheria, tenesse in ordine la cucina etc. …..e così Samuel ebbe compagnia mentre si occupava di tenere in ordine il giardino.
Durante tutto il periodo che ho passato in Mozambico, ho conosciuto tanti “ Samuel Makunda” e tante Isabel, e tutte le loro storie. Vicende di paura, dolore tristezza e speranza. Spesso mi tornava in mente il pannello che separava l’economica dalla businness sull’aereo che mi aveva portato a Maputo dove era riprodotto un quadro di Valente Malangatana , un artista molto conosciuto e rivedevo, nella realtà quotidiana, nei volti e nei corpi di quelle persone tutta l’angoscia che traspirava da quell’opera .Un giorno Samuel non venne più a lavorare. Seppi in seguito da Isabel che lo avevano trovato massacrato nella sua pagliota in un lago di sangue. Si trattava della loro realtà ma era molto difficile per me restarne al di fuori e non esserne coinvolto.
Una sera, saranno state le 22,30, ero appena rientrato dal lavoro e mi stavo facendo una doccia, quando una forte esplosione risuonò a breve distanza dal mio prefabbricato . Mi rivestii in fretta e precipitandomi fuori sulla strada feci in tempo a vedere due traccianti passare sulle nostre teste e subito dopo avvertii una seconda esplosione, questa volta più distante. Subito dopo, il crepitio delle mitragliatrici e colpi di fucili automatici nel buio fuori dal campo. Mi diressi verso il luogo della prima esplosione. Eravamo stati attaccati con due colpi di mortaio, il primo era caduto nei dintorni della piscina, ed il secondo vicino alle baracche degli operai mozambicani fortunatamente senza fare vittime (ma era stato solo un caso fortuito). Eravamo tutti fuori in mezzo alla strada e ci domandavamo cos’altro dovevamo aspettarci quando un fuoristrada della pattuglia posta a difesa del campo, mi sfrecciò vicina a tutta birra con sopra sei militari in assetto di guerra. Sembrava che la recinzione fosse stata tagliata e che dei miliziani fossero entrati all’interno del campo. Nella grande confusione che seguì, continuai a sentire molti colpi di fucile , grida, comandi, e poi, finalmente il silenzio. Non saprei dire se il silenzio fosse per noi l’opzione migliore in quel momento, dato che non sapevamo cosa stesse succedendo e poteva essere l’anticamera di un secondo attacco magari fatale e definitivo. La paura era tanta e un sapore amaro in bocca, stava per darmi la nausea. Ci fu detto via radio(noi espatriati eravamo dotati di radio vhf), di raggiungere la mensa e di aspettare istruzioni. Poteva esserci un’evacuazione se la situazione non fosse rientrata nella normalità ( posto che di normalità si trattasse la nostra vita di tutti i giorni).
L’indomani furono spostate su Maputo tutte le famiglie degli espatriati e furono diminuiti i turni in diga durante le ore notturne. Dopo due giorni arrivarono un paio di autoblindo che cominciarono a pattugliare i dintorni del campo. Il drappello di militari situato nella vicina caserma di Boane fu messo in stato di allarme e furono approntate delle opere di difesa nelle immediate vicinanze dello scaricatore e dei rilevati della diga. Furono anche messi corpi di guardia a protezione del parco macchine e delle officine.
In seguito a questo episodio fui incaricato di progettare un rifugio da costruire all’interno del campo, dove il personale potesse eventualmente nascondersi in caso di un secondo attacco. Doveva trattarsi di un manufatto in cemento armato adatto a proteggere circa 200 persone che resistesse a granate o colpi di mortaio sparati dal perimetro esterno al campo. L’urgenza era massima e mi misi subito al lavoro.
Quello che realizzammo nel giro di meno di 4 settimane fu soprannominato “ il bunker”. Per metà interrato e con il tetto coperto da 1 metro di terra vegetale su cui far crescere erba ed arbusti, il manufatto con pareti di spessore di 60 cm super armate e aperture protette da pannelli girevoli in cemento, aveva due ingressi opposti entrambi protetti da vele circolari di 30 cm di spessore.
Fortunatamente non fu mai usato per i motivi per cui era stato costruito e successivamente diventò, una volta completata la diga e ceduto il campo all’autorità di gestione del bacino dell’Umbeluzi, una sala riunioni.