Erano passati due anni dal mio arrivo in Algeria e già diverse volte avevo preso l’aereo e ero rientrato per alcuni giorni in Italia. Col passare del tempo mi rendevo conto che tutto quello che mi ero lasciato alle spalle quando ero partito quel lontano settembre del ’78 , non faceva più parte della mia vita. La vita, quella che vivevo in Algeria, era lontana mille miglia, non solo fisicamente, ma anche interiormente da tutto ciò che aveva caratterizzato i miei anni precedenti la partenza. Gli stessi amici di un tempo, stentavano a capire da un lato le motivazioni che mi avevano spinto a partire e dall’altro interpretavano quanto io raccontavo loro delle mie esperienze africane , con una mentalità distante anni luce dalla mia. L’esperienza della ricerca del cibo, per esempio, che era una costante nell’arco della giornata da me vissuta ad Algeri, in quanto in commercio non si trovava nulla, diventava quasi una barzelletta per chi mi ascoltava e si riduceva a delle battute sarcastiche e comunque non interessava…era meglio parlare dell’Ultimo Tango a Parigi, o di una motocicletta piuttosto che intraprendere una discussione su un argomento di vita vissuta.E così la distanza da coloro con i quali ero cresciuto nell’arco dell’università e con i quali avevo condiviso delle esperienze effimere di una gioventù forse troppo felice e leggera, diventò incolmabile. D’altronde entrare in una realtà difficile come quella algerina piena di contraddizioni e ricca di stimoli diversi da quelli che avevo perseguito negli anni universitari , aveva profondamente modificato i miei obiettivi di vita. I brevi periodi passati a Roma diventavano solo l’attesa di ritornare in quella realtà che avevo lasciato: quasi mi sentivo in colpa rispetto ai miei compagni di vita , che erano rimasti sul campo a combattere la quotidianità difficile di Algeri. Una sindrome che oggi per assurdo assomiglierebbe a quella di un soldato che riesce a non essere ucciso sul campo di battaglia e rientra a casa ma si sente in colpa perché è ancora vivo.
Durante l’ultimo dei 4 anni passati in Algeri, ( due serviti a completare il servizio civile + altri due che avevo scelto di passare sia continuando ad insegnare all’Università che lavorando con uno studio di architettura italiano presente in Algeria da più di 15 anni), avevo casualmente conosciuto un marinaio che viveva in una barca tirata in secco a La Madrague un piccolo porticciolo non molto distante da Ain Benian, a circa una mezz’ora da casa: Khaled, un omone sulla cinquantina barbuto e con un berretto di lana calzato su una calvizie ormai a metà testa. Aveva combattuto durante la guerra contro i francesi ed aveva riportato uno sfregio di una coltellata sotto l’occhio destro. Era un solitario, amante del mare e del vino, senza famiglia e senza soldi. I pochi dinari che gli dava lo stato per aver combattuto come Mujahidin, patriota, non gli permettevano di pagarsi un affitto e quindi aveva colonizzato un battello in disarmo tirato in secca sul porto e lì viveva con pochissimo. Il venerdì spesso lo andavo a trovare e trascorrevamo la giornata parlando della sua vita a onor del vero, molto avventurosa. Due pescetti freschi catturati al mattino e una bottiglia di “blanc des blanc, ci accompagnavano durante i racconti. Spesso si parlava della vita, delle passioni della morte. Khaled per me era l’immagine di quello che un uomo poteva diventare considerando la buona o la cattiva sorte e soprattutto era un essere umano ai limiti della sopravvivenza che tuttavia non si lasciava morire ma credeva ancora nella vita. Nei nostri discorsi, la passione per la sua nazione eruttava quasi come la lava da un vulcano, e mi commuoveva vedere un tale attaccamento per una terra che tutto sommato gli era stata piuttosto ingrata. Una sera, mi ero recato nella buvette davanti al porticciolo ad acquistare una bottiglia di vino perchè eravamo rimasti senza ( per cronaca devo dire che beveva soprattutto Khaled, io mi accontentavo di fargli compagnia). Mentre stavo scegliendo da una scaffalatura una bottiglia, scoppiò una rissa tra alcuni avventori. Il giovane a me più vicino tirò fuori un coltello e si avventò verso il proprietario della rivendita. L’altro a sua volta prese un bastone da sotto il bancone ed iniziò un tafferuglio pericoloso soprattutto perché venivano verso di me con atteggiamento minaccioso e mi invitavano chiaramente a difendermi. Non capivo una parola di quanto dicessero e cercavo di guadagnare l’uscita. La prima coltellata mi passò a pochi cm. dalla coscia sinistra ma la successiva bottigliata mi raggiunse su una spalla. Caddi a terra scivolando sul pavimento sporco ed unto. Pensai che forse stava finendo la mia permanenza in Algeria prima del tempo e magari sarei rientrato in Italia volando gratis su un Falcon della aeronautica militare però rinchiuso in una bara. Steso a terra ,con la coda dell’occhio vidi una massa enorme avvicinarsi, sollevarmi come fossi un fuscello, e mi ritrovai fuori dal locale nella polvere; in pochi istanti Khaled aveva spaccato il naso ad uno e rotto un braccio all’altro. I due si allontanarono zoppicanti e mi superarono passandomi sopra scappando via nel buio. Questo episodio mi lasciò scosso per diversi giorni ma fui felice di ritornare la settimana dopo a passare un pomeriggio con Khaled che non avrei mai cessato di ringraziare per il suo intervento in mio soccorso.
Il DC9 dell’Air Algerie rullava sulla pista dell’areoporto di Dar El Beida. Fra poche ore sarei sceso a Fiumicino e avrei messo la parola fine a questi 4 anni di esperienza.
Tante immagini scorrevano davanti ai miei occhi mentre guardavo fuori dall’oblò mentre l’aereo curvando dopo il decollo sulla sinistra mi mostrava uno scorcio di Algeri.
“Alger la blanche “ la chiamavano i pieds noirs francesi! Dall’alto tutte le sagome degli edifici in stile coloniale che scendevano lungo Didouche Mourad e più in alto verso El Biar e Hydra risaltavano del loro bianco accecante in quella giornata di sole e aria tersa dei primi di ottobre del 1982. Dall’alto sembrava tutto tranquillo e perfetto ma io sapevo che non lo era. Da Bab el Oued, fino a Place du premier Mai, lungo il Ravin de la Femme Sauvage e più in alto verso les Annasser, a Kouba ,un grido di rabbia e di dolore si levava inascoltato da una città che stava facendo i conti con il suo passato coloniale, la sua guerra di indipendenza, i misfatti dell’OAS , e la recrudescenza della ferocia dei fratelli musulmani che si espandeva ormai a macchia d’olio su tutta la nazione. Avevo imparato molto in questi quattro anni e forse se fossi rimasto ancora avrei potuto conoscere più profondamente le ragioni della violenza e della sopraffazione che come una costante annichiliva sia le donne che gli uomini spesso loro carnefici, ma probabilmente non ne sarei uscito vivo.
Sapevo però che l’Algeria mi sarebbe rimasta nel cuore per tutta la vita.