Dal giorno dell’incontro di Salini con Siad Barre erano trascorse alcune settimane. Al porto di Mogadishu avevano iniziato ad arrivare i primi mezzi per poterci muovere in autonomia. Era giunto dall’Italia un collega che si occupava dei procedimenti doganali ed io avevo cominciato a cercare mano d’opera somala . Avevamo individuato un grande compound non lontano dall’Hotel Guuleed di proprietà di un conoscente di Mahdi dove mettere gli uffici ed una serie di 2 abitazioni su due livelli poste proprio di fronte, dall’altro lato della strada, che sarebbero diventate le residenze degli espatriati me compreso.
Un grande cortile interno circondato da alti muri di cinta contornava la palazzina a due piani dei futuri uffici e anche le abitazioni erano circondate da muri lungo tutto il perimetro. Le case, sicuramente costruite recentemente, tutte intonacate a calce, avevano pavimentazioni con mattonelle di molti colori e rifiniture kitsch ma le camere erano ampie e ben ventilate con finestre e porticati su tutti i lati. Comunque non saremmo potuti entrare prima di un paio di mesi perché il proprietario doveva ancora finire alcuni lavori. Nel frattempo il Guuleed era diventato la mia base operativa.
Con l’aiuto di Mahdi avevo iniziato a cercare del personale somalo per ricoprire i vari incarichi, dai guardiani, agli autisti, al personale per le cucine, la pulizia etc. Al pomeriggio c’era la fila di persone che arrivava fin sulla strada. Diciamo che non venivano proprio con il curriculum vitae sotto il braccio e quindi dopo un primo screening , il numero si riduceva drasticamente. Comunque in capo ad un paio di giorni avevo individuato, tre autisti, un paio di guardiani, due cuochi e un impiegato alle dogane che doveva aiutare Corrado, il mio collega appena arrivato dall’Italia. La settimana seguente giunsero anche due topografi. La strada che dovevamo costruire collegava due centri agricoli posti nell’interno ad ovest e sud ovest di Mogadishu e cioè da Afgooyee a Golweyn, circa 84 km. Adesso il mio compito era essenzialmente quello di scegliere un’area adatta ove costruire il campo base con le residenze containerizzate per il personale espatriato, l’officina, il parco automezzi e tutti gli altri servizi al contorno e poi trovare un luogo da cui estrarre il materiale necessario alla costruzione della massicciata : la cava. Avevamo ricevuto nel frattempo dall’Italia il primo mezzo, un Fiat Ducato tipo pulmino con due file di sedili e porta laterale scorrevole e finalmente potevamo muoverci in autonomia.
La mattina verso le 6, 30 ci lasciammo il Guuleed alle spalle e partimmo in tre, cioè io ed i due topografi per Afgooyee. Il paesaggio lasciando Mogadishu diventava più verde, la strada era in pessime condizioni a tratti sterrata con pezzi asfaltati pieni di buche pericolose. Acacie spinosissime lungo il cammino facevano da parete su entrambi i lati filtrando ai nostri occhi la vista della valle dello Scebeli, con un’alternanza di terre rosse e macchie più scure, trovanti rocciosi, e casupole di paglia e fango. Greggi di dromedari condotti da uomini neri, altissimi, longilinei, appena coperti da uno straccio intorno ai fianchi, con sul capo una bandana lunga e attorcigliata come un turbante , passata davanti al volto, con solo una fessura per gli occhi, a proteggere dal sole e dalla polvere sollevata dagli animali. Capre di ogni dimensione, a pelo lungo, raso, pezzate, che attraversavano la strada e, quasi fossero una prelibatezza, afferravano con i loro musetti morbidi, le spine delle acacie non ancora diventate un’arma impropria. I pastori infatti utilizzano i rami delle acacie per costruire ripari impenetrabili dove custodire le greggi durante le soste lungo il percorso. Arrivati ad Afgooyee girammo a sinistra ed iniziammo a percorrere il tracciato della futura strada.
Sembrava di partecipare al Camel Trophy tanto le buche erano profonde e soprattutto con il bordo dove l’asfalto esisteva ancora, tagliente e pericoloso per gli pneumatici. Dopo circa 30 km e due ore di tempo, arrivammo dove c’era sulla sinistra una pista in sabbia che andava in direzione del mare . Dei cartelli arrugginiti recavano delle iscrizioni in somalo illegibili. Eravamo arrivati là dove dalle mappe avevamo pensato che poteva essere possibile costruire il campo. Tra le altre cose quella pista portava verso un’antica cava di materiale corallino ideale per l’utilizzo per il rilevato. I topografi fecero i rilievi per determinare la zona che avremmo dovuto utilizzare per il campo e piantarono dei paletti per delimitare l’area. Avevamo ultimato il nostro lavoro quando dal fondo della pista vedemmo arrivare un fuoristrada sgangherato di colore verde militare. In pochi istanti fummo accerchiati da 4 soldati in mimetica, armati di AK47 che minacciosamente ci chiedevano in un inglese stentato cosa stessimo facendo in quel luogo. Le mie spiegazioni non dovettero convincerli molto. Lasciarono uno di loro vicino al nostro Ducato e ci intimarono di salire sul fuoristrada. Mi sembrò più che evidente che non era il caso di protestare anche perché non capivano quello che dicevo. Dopo circa una quindicina di km il fuoristrada si fermò davanti a delle baracche all’interno di un recinto col filo spinato. I soldati ci fecero scendere ed uno di loro entrò in una delle baracche. Il sole era alto e picchiava sulle nostre teste con ferocia. Vidi che in un angolo della recinzione c’era una giara con un mestolo per bere ma mi guardai bene da avvicinarmi pur morendo di sete. I miei due compagni invece non resistettero e andarono a bere… Dopo pochi istanti si aprì la porta e ci fecero entrare. Di fronte c’era una vecchia scrivania stile scuola anni ’50, alla mia sinistra un tavolo con quattro sedie, alla mia destra un frigorifero. Sulla parete di fondo campeggiava una bandiera somala contornata da varie spade e scimitarre. Dietro la scrivania, seduto su una specie di trono dorato, un uomo sulla trentina con il basco, una mimetica con le maniche alzate fin sopra i gomiti, uno sguardo sprezzante, un sigaro tra le labbra. Dalle mostrine sulle spalle doveva essere un capitano. Sulla scrivania campeggiava una scritta rivolta verso di me: Captain Mohamed Aden Sheikh. Si alzò, togliendosi il basco, venne verso di me facendo scricchiolare il pavimento in legno della baracca con i suoi anfibi e dopo avermi squadrato dall’alto in basso ( era un uomo alto, magro e dalle caratteristiche fattezze somale, lineamenti delicati, naso piccolo, bocca dalle labbra fini sormontate da due baffetti poco accennati, capelli rasati quasi a zero), mi tese la mano e con lo sguardo serissimo in perfetto italiano senza alcun accento mi disse: “siete in territorio militare senza alcun permesso, avete eseguito delle operazioni di spionaggio che sono passibili di arresto e punizioni corporali, avete trasgredito gli ordini che sono scritti sui cartelli posti intorno a tutta la zona: no trespassing cioè vietato oltrepassare! Sono costretto a trattenervi in custodia. Domani verrà il giudice e sarete processati.”
Faccio un piccolo passo indietro ed esattamente a quando durante la visita al Presidente con i Salini, io misero impiegato direttore della filiale di Mogadishu, avevo chiesto ai Salini di accennare a Barre della cava in quanto sapevo che era un argomento molto delicato per il quale sarebbe stato necessario relazionarsi con le tribù proprietarie dell’area….mi ero sentito rispondere: “ma lei è matto, con il Presidente si trattano argomenti di alta strategia politica, questi “dettagli” se li vedrà lei sul posto”! Questa frase mi ritornava alla memoria mentre il captain Mohamed Aden Scheikh mi rivolgeva le accuse di essere praticamente una spia. In effetti, perdio me la stavo proprio vedendo sul posto!
Raccolsi tutta la mia calma e gli chiesi se non potevamo trovare un accordo che soddisfacesse sia la sua guarnigione che i nostri interessi. D’altronde eravamo in Somalia per costruire una strada con i fondi della cooperazione italiana, strada che avrebbe favorito tutta la regione negli scambi commerciali e avrebbe sicuramente migliorato la vita delle popolazioni dell’area. Inoltre avremmo dato lavoro a decine di persone e tutti avrebbero beneficiato della nostra presenza. Tra l’altro gli feci notare che la camionetta con la quale i suoi soldati erano venuti a prelevarci era in pessime condizioni e se lui avesse voluto chiudere un occhio per le nostre trasgressioni, una volta che il campo fosse stato completato, avrebbe potuto portarci il mezzo e glielo avremmo restituito come nuovo. Mentre parlavo notai che il capitano si stava ammorbidendo e dallo sguardo interessato capii che avevo centrato il problema. Disse che lui aveva fatto la scuola militare in Italia alla Nunziatella e che amava molto Napoli e gli spaghetti alle vongole veraci. A quel punto gli dissi che io ero nato a Napoli e nel giro di cinque minuti ci trovammo a parlare dei ristoranti di Mergellina. I due topografi nel frattempo visibilmente sollevati dalla piega che stava prendendo la conversazione ad un mio cenno, uscirono fuori dalla stanza e ci lasciarono soli. Infatti non volevo che assistendo ai nostri discorsi ed alle promesse che stavo facendo al capitano lui si potesse sentire in imbarazzo. Seppi in seguito che grazie alla bevuta che avevano fatto dell’acqua nella giara , una volta arrivati al Guuleed avevano avuto un intimo e lungo colloquio con il wc ed erano rimasti a tenersi la pancia per diversi giorni… A sancire la nostra amicizia gli dissi che quando i topografi nei prossimi giorni fossero tornati, gli avrebbero portato un regalo da parte mia. Inoltre ci tenevo in particolar modo a coinvolgerlo in quello che poi si rivelò essere un’ ottima idea e cioè il pattugliamento all’intorno del campo per contrastare gli episodi di banditismo ed i furti. Avremmo sicuramente assunto alcuni dei suoi soldati per la sicurezza delle nostre istallazioni. Mentre ritornavamo a Mogadishu ripensavo ancora a quella frase: “questi dettagli se li vedrà lei sul posto!”