La serata era tranquilla e nel cielo si rincorrevano veloci nuvole con forme bizzarre. La piazza principale di Ravenna faceva da scenografia ad un gruppetto di turisti giapponesi che si attardavano facendo fotografie. A poca distanza l’antico ristorante Cappello dove avevo pranzato, un po’ più in là il mercato coperto e la piazza del Popolo con i suoi caffè all’aperto. Alle 3 del pomeriggio avevo appuntamento su in CMC, la Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna dove dovevo ritirare il biglietto aereo per Maputo, Mozambico. Una destinazione molto lontana e piena di aspettative. Mentre mi dirigevo all’appuntamento non potevo fare a meno di riempirmi gli occhi con la bellezza di quei luoghi. Mi stavo godendo le ultime ore di Italia, con la consapevolezza che nei prossimi mesi la mia vita si sarebbe trasformata. La destinazione era il sito dove si stava costruendo una diga in terra con uno scaricatore in cemento e il relativo bacino di accumulo principalmente per fornire risorse idriche alla capitale e successivamente a scopo di irrigazione. Il mio incarico era di assistente alla direzione di cantiere ma mi era già stato detto che avrei dovuto funzionare come un jolly.
Mi stavo recando in un paese sconvolto dalla guerra civile, che aveva fatto migliaia di morti , dove carestie e malattie avevano falcidiato la popolazione che ormai era allo stremo dopo tanti anni di privazioni e di guerriglia. Ciononostante partivo felice di aver trovato un lavoro in una società importante che costruiva in Africa da tanto tempo e che mi avrebbe permesso di fare delle esperienze notevoli sia sotto il profilo professionale che umano. Dal punto di vista di chi restava in Italia, la mia poteva sembrare una scelta folle ma dentro di me ardeva un desiderio intenso di conoscere realtà diverse e anche scomode e pericolose ma sicuramente cariche di fascino. Come avevo già avuto modo di accorgermi negli anni passati il gap, il buco che si era creato tra me ed il mondo che mi ero lasciato alle spalle con la mia scelta di fare quella vita, era sempre più profondo e quindi era con rassegnazione che vedevo la cerchia delle mie conoscenze legate alla gioventù diventare sempre più esigua.
Durante il viaggio per Maputo, aveva attirato la mia attenzione una scena dipinta sul pannello che separa la classe economica dalla business. L’aereo, un Airbus nuovissimo di proprietà della compagnia di bandiera Mozambicana, sarebbe atterrato all’aeroporto di Maputo, senza scalo da Roma dopo ben 13 ore di volo ,quindi avevo avuto modo di studiare nel dettaglio l’immagine. Avrei scoperto in seguito che era la riproduzione di un quadro di un famoso pittore mozambicano . Delle teste deformi di uomini donne bambini, con gli occhi sbarrati e le bocche aperte, col sangue che colava sui loro corpi straziati da colpi di machete . Una composizione di orrore e paura, un dramma che evidentemente stava vivendo il Mozambico. Negli anni passati laggiù,molto spesso mi sono ritornate alla mente quelle immagini e ho dovuto fare i conti con quella realtà tragica. I volti di quelle persone hanno per tanto tempo popolato i miei sogni e ancora oggi, a distanza di tanti anni, quando mi vengono in mente provo una profonda tristezza.
La sede della CMC era in una bella villa del centro di Maputo sull’Avenida Kim il Sung. La strada larga e tranquilla si trovava nell’area delle ambasciate poco distante da quella italiana. Sarei rimasto un paio di giorni a Maputo prima di partire per il cantiere situato a circa 50 km di distanza per espletare le varie pratiche burocratiche e quindi ne approfittai per dare uno sguardo alla città.
L’impronta coloniale portoghese era molto evidente sia nell’architettura che nell’impianto urbanistico. Posta all’interno di una baia profonda e protetta dall’oceano dall ‘isola di Inhaca , Maputo a prima vista può sembrare una bella città, bene organizzata,con strade larghe e quartieri centrali con edifici alti e moderni…il primo impatto per chi arriva da fuori. Poi quasi come mettendo a fuoco una lente di un teleobiettivo, ci si avvicina alla realtà quella vera. La quasi totale mancanza di manutenzione rende tutto molto fatiscente e guardando bene ci si accorge che la città è un disastro. Tutto ciò che c’è, è stato lasciato dai portoghesi che se ne sono andati nel 1974 dopo la famosa rivoluzione dei garofani che decretò la fine delle colonie. Nulla o quasi è stato fatto successivamente. Il governo che sulla scia degli avvenimenti in Portogallo, aveva sposato la linea del socialismo scientifico di matrice marxista leninista, col passare degli anni ha portato il paese nel baratro della povertà e dell’incapacità totale di gestire le proprie risorse producendo migliaia di sfollati in una operazione di ricollocamento della popolazione spostata a forza. Infatti le autorità vararono l’«Operazione produzione», con la quale migliaia di persone furono spostate a nordovest, nella provincia di Niassa, la meno popolata del paese. L’operazione mirava a rallentare la crescita della popolazione urbana che stava alimentando i tassi di criminalità, il lavoro nero (calzolai, sarti, venditori ambulanti, ecc.), la prostituzione e la disoccupazione. Il governo definì «non produttivo» chi non lavorava nel settore formale.
Questa follia da un lato produsse carestia e povertà e dall’altro distrusse i nuclei familiari dividendo e strappando dalle proprie terre cittadini di etnie differenti mescolandole su tutto il territorio nazionale.
Nelle strade del centro praticamente non esistevano negozi, ed era facile imbattersi in lunghe code di persone che si snodavano per decine di metri aspettando di ricevere attraverso un piccolo sportello situato su una saracinesca la loro razione secondo quanto previsto dalla “carta do abastecimento” ovvero un libretto contenente le quantità pro capite di miglio, olio, sapone, farina e altri generi di prima necessità secondo quanto previsto nel regolamento emanato dal governo marxista. Per tutto il resto c’era la “candonga” ovvero il mercato nero. Con una valuta, il metical, praticamente di valore zero, e un’inflazione spaventosa, per sopravvivere il popolo poteva solo basarsi su quanto il governo riusciva a fornire nei magazzini statali, che molto spesso erano vuoti.