Alta marea

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Angelo faceva il topografo e si occupava di prendere le quote dei moduli dei getti di calcestruzzo dello scaricatore . Era un ragazzo molto tranquillo e sorridente, e aveva la passione della pesca subacquea  come me! Avevamo passato delle belle serate a raccontarci storie di pesca, di immersioni, avventure vissute nel mediterraneo. Ma qui eravamo nell’oceano indiano, tutta un’altra cosa!  Io avevo molta più esperienza di lui perché già in diverse occasioni mi ero immerso nel golfo di Maputo verso l’isola di Inhaca.  Avevo recuperato un gommone che la ditta aveva portato al campo per eventuali visite di controllo alle paratie dello scaricatore una volta che il bacino fosse stato riempito. Un motore fuoribordo da 25 hp ed un carrello completavano la dotazione. Dato che sarebbe rimasto inutilizzato ancora per un anno, cioè fino a quando non fossero finiti i lavori e fosse stato riempito il bacino, mi offrii di mantenerlo in esercizio portandolo in  mare.

Passammo tutta la settimana nel poco tempo libero ad organizzarci. Dovevamo preparare l’attrezzatura e portare con noi acqua e qualcosa da mangiare..Saremmo dovuti partire dal campo al pomeriggio a fine lavoro per essere a Maputo alla guesthouse prima del buio. Avremmo dormito lì per essere pronti al mattino  molto presto. Come ho già avuto modo di scrivere, le maree nel canale di  Mozambico, sono molto forti e quindi era  importante riuscire a partire con l’inizio della bassa marea , raggiungere la zona di pesca in circa 45 minuti di navigazione, immergersi nel periodo di ferma tra  bassa ed alta, e rientrare con l’alta marea in modo tale da non doversi fare a piedi sulla battigia tutta la distanza fino alla riva.

Le mangrovie che costellavano i bordi della spiaggia facevano da cornice alla sabbia nerastra ricca di migliaia di molluschi e crostacei microscopici. Gusci di ricci vuoti ormai privi di aculei spuntavano qua e là mentre avanzavamo trainando il carrello attaccato dietro alla  Land Cruiser.  Come dei pennelli scuri i moli  in cemento gettati su rocce  calcaree si inoltravano per decine di metri nella baia. Servivano alle piccole imbarcazioni per approdare ad alcune centinaia di metri dalla riva in caso di bassa marea. Quando giungemmo al confine tra mare e sabbia, piccole onde rompevano la calma piatta dell’oceano e morivano tra le ruote dell’auto immersa fino ai mozzi. Tirammo giù il gommone che scivolò silenzioso in acqua e dopo aver scaricato il necessario all’interno, compresa una tanica di carburante,  mi affrettai a riportare l’auto sulla riva al sicuro.

Dovevamo percorrere circa 20 miglia per raggiungere la zona di pesca e con la velocità che ci permetteva il nostro gommone ed il mare piatto, in quasi un’oretta avremmo raggiunto la Praia de Chinhambanine a nord dell’isola di Inhaca.

Durante il tragitto alcuni delfini ci tennero compagnia saltando sotto la prua del gommone: potevamo sentire il loro dorso che sfregava contro la tela gommata della chiglia. Verso metà strada passammo accanto ad una boa segnaletica che indicava un basso fondale. Due squaletti di un paio di metri ci giravano attorno mentre stavamo passando sulla secca, l’acqua era trasparente e potevamo vedere bene i loro corpi affusolati e le loro pinne caudali   che con colpi poderosi li spingevano  verso il fondo in cerca di cibo.

Ancorammo il gommone a ridosso di una duna di sabbia che a semicerchio sembrava  racchiudere una piccola baia tranquilla. Controllata l’attrezzatura e guardata l’ora (nei nostri calcoli avevamo un paio d’ore di tempo prima di dover rientrare a causa dell’alta marea), ci immergemmo. Angelo mi seguiva a breve distanza, forse una decina di metri. Il fondo che degradava dolcemente seguendo la pendenza della duna arrivava sui quattordici metri ed era misto di rocce e sabbia. Più in là verso nord, sprofondava nel blu. Ogni tanto mi giravo per vedere dove fosse Angelo perché non volevo perderlo di vista. Alcuni barracuda mi passarono a qualche metro ma troppo distanti per tirare, quindi decisi di immergermi sul fondo e fare un tentativo di caccia all’ “aspetto” cioè fermo su una roccia in modo da incuriosire il pesce che mi sarebbe dovuto passare a tiro.

Trascorse così una mezzora e ogni tanto vedevo Angelo che mi faceva segno con le dita che tutto andava bene.  Fu ad un certo punto, proprio mentre mi stavo girando per vedere dove fosse il mio compagno che mi accorsi che qualcosa non andava. Ritornando in superficie dopo l’ennesima immersione infatti notai che la sagola del mio pallone collegata al mio fucile tirava maledettamente, segno che c’era o molto vento oppure corrente. Mi girai a 360 gradi per guardare intorno in cerca di Angelo e del suo pallone, ma non potei vedere nulla. La superficie del mare ribolliva di ondine corte e piene di schiuma e sotto non si vedeva più nulla. Provai ad immergermi per rendermi conto di cosa stesse succedendo ma facevo molta fatica a mantenere una discesa perpendicolare e non riuscivo a vedere il fondo. Uno strano senso di nausea, dovuto al movimento della sabbia dentro l’acqua che modificava in continuazione la messa a fuoco dei miei occhi, si stava impadronendo di me. Di Angelo nessuna traccia e il gommone era diventato un puntino quasi invisibile.  Cominciai a pinneggiare furiosamente in direzione di quel puntino senza tirare su la testa se non per mantenere la direzione giusta, ma dopo forse un quarto d’ora di nuoto mi resi conto che il puntino, il gommone, stava sparendo dal mio campo visivo. Ero inesorabilmente entrato nel fiume di corrente di marea che risaliva  ad una velocità di circa 4 nodi, con il vento che andava aumentando. Passai veloce ad alcuni metri da una duna di sabbia che stava scomparendo sotto il pelo dell’acqua senza poterla raggiungere. In quel momento capii che mi stavo giocando la vita e che dovevo lottare.

Mi tirai via i piombi ed insieme al fucile li legai al pallone che lasciai andare preda della corrente.

Iniziai a nuotare con tutte le mie forze ma anziché dirigermi verso il gommone o quantomeno verso quella che stimavo fosse la giusta direzione, adottai una rotta di circa 45 gradi contro il flusso della corrente, il che mi permetteva di risalire lentamente e sfruttare la componente risultante del flusso  della corrente  e del mio sforzo, a mio vantaggio. Se fossi riuscito nel mio intento (non è che avessi altra scelta), mi sarei trovato distante dal gommone ma in una posizione a est  dello stesso e con un po’ di fortuna avrei potuto raggiungerlo senza essere trascinato al largo perso per sempre.

Guardai l’orologio, erano le 11,45. Ricordai che il pieno della marea, secondo gli orari che avevo consultato, era previsto alle 16. Dovevo raggiungere il gommone il più rapidamente possibile, per avere ancora qualche speranza di ritrovare Angelo. Altrimenti la distanza tra noi due sarebbe diventata talmente ampia da pregiudicare qualsiasi tentativo di recupero: un ago in un pagliaio! Non riuscivo a pensare ad altro. Se non ce l’avessi fatta, saremmo morti entrambi, se lui fosse sparito, non so come avrei potuto ritornare al campo e dire che Angelo non c’era più. Ero terrorizzato. Nonostante però nuotavo a più non posso e dopo circa 45 minuti di fatica improba cominciai a scorgere il gommone. Lo vedevo da lontano che scarrocciava a dritta e a manca spinto dalla corrente e dal vento..Pregai che l’ancora tenesse ancora per un po’, perché in caso contrario la presa al vento del gommone lo avrebbe trascinato via in pochi istanti. Diedi fondo al poco di energie che mi erano rimaste e cominciai a vedere la sagoma del gommone  avvicinarsi. Riuscivo a scorgere il motore che era bianco e luccicava nel sole, e piano piano il delinearsi la forma dello scafo con le punte dei galleggianti. Metro dopo metro la vista dello Zodiac diventava più nitida e riuscivo a scorgere  gli schizzi della chiglia che sbatteva per gli strappi del cavo dell’ancora in trazione. Ma i miei occhi puntavano alla maniglia posteriore sul tubolare, il punto in cui avrei dovuto attaccarmi quando fossi arrivato sottobordo.  Con un ultimo strappo la mia mano destra raggiunse l’appiglio. Restai un istante a respirare affannosamente perché avevo il  cuore che mi scoppiava e poi rotolai all’interno sul pagliolato.  La testa mi girava  vertiginosamente e non riuscivo a tirarmi su, ma sapevo che non potevo perdere un secondo, quindi penosamente mi misi in piedi e tirai il cavo di  messa in moto  del fuoribordo. Innestata la marcia recuperai l’ancora al volo e in piedi, per  vedere il più lontano possibile, iniziai a correre nella direzione della corrente. Nel frattempo il mare ribolliva e onde corte ed alte una cinquantina di cm mi facevano saltare come un  canguro. Era l’incontro della corrente di marea contro il vento che produceva questo effetto. Mi sembrava di essere in un girone dell’inferno dantesco. Cominciai a fare dei giri sempre più ampi prendendo come riferimento la costa dell’isola in modo tale da battere una superficie marina il più grande possibile nel minor tempo. Era già passata una ventina di minuti dall’inizio della  ricerca, quando improvvisamente a circa 300 m. di distanza lo vidi. Stava agitando il fucile il più in alto possibile affinché io potessi vederlo. Mi precipitai su di lui e lo tirai a bordo. Mi disse che dopo un pallido tentativo di contrastare la corrente, si era lasciato trascinare via sperando che io potessi salvarlo. Era consapevole che non sarebbe mai riuscito a tornare al gommone. Questa sua asserzione mi fece gelare il sangue nelle vene perché improvvisamente realizzai che quello che ci era accaduto aveva veramente rischiato di mettere la parola fine alle nostre vite. Gli strinsi la mano, gli diedi una pacca sulla schiena e dissi: ancora no, Angelo ancora no!   Gliel’abbiamo fatta!