Fernan’ Vaz scarrocciava dolcemente colpito dalla brezza di terra che lo colpiva di traverso mentre era ormeggiato al molo del club nautico. Erano le 10 di sera ed avevamo appena finito di caricare tutto il necessario a bordo. Durante la giornata ed i giorni precedenti Claudio ed io avevamo minuziosamente controllato le liste delle cose che non avremmo dovuto dimenticare e che ci sarebbero servite durante la traversata. Avevamo circa sette giorni di vacanza ed avevamo deciso di passarceli in Gabon piuttosto che rientrare in Italia. L’obiettivo era quello di andare a Sao Tomé e Principe, due isolette poste a circa 120 miglia nautiche da Libreville in pieno oceano atlantico. Le isole ora repubblica semi presidenziale dopo aver ottenuto nel 1975 l’indipendenza dal Portogallo, fanno parte di una catena vulcanica caratterizzata da singolari rocce, formazioni coralline, foreste pluviali e spiagge. Una caratteristica di Sao Tomé è che al centro dell’isola c’è una montagna alta più di 2000 mt. sempre avvolta nelle nuvole e quindi visibile anche da molto lontano. Questo rendeva la nostra traversata che per molti versi era difficile, forse un po’ meno pericolosa perché se avessimo perso la rotta probabilmente avremmo potuto scorgere l’isola anche da molta distanza. A Sao Tomé non c’era la certezza di poter acquistare il combustibile quindi avevamo caricato due fusti da 200lt. ciascuno di benzina, e riempito i serbatoi della barca. Secondo i nostri calcoli avremmo dovuto farcela anche senza i fusti ma la prudenza non è mai troppa. Le correnti, il vento, una burrasca, avrebbero potuto costringerci a fare delle rotte alternative con molte più ore e quindi consumo. Tutto era pronto e mollati gli ormeggi, al minimo diressi verso l’uscita del porticciolo. Gocce di pioggia imperlavano il parabrezza e lasciato alle spalle il segnale d’ingresso nel canale, puntai verso l’estremità nord della Pointe Denis che si intravedeva nel buio plumbeo della notte tropicale. Dopo circa 15 minuti di planata su un mare liscio coperto solo da ondine innocue raggiungemmo la Pointe e ci apprestammo a doppiare il capo. Subito dopo, ci trovammo in mare aperto. La bussola sul cruscotto indicava 285 gradi . Misi il timone su 270 gradi e iniziammo la traversata. ( Il parallelo dell’Equatore passa esattamente sull’isola di Sao Tomé). Scrosci di pioggia frammisti a folate di vento caldo proveniente da Sud ovest, cominciavano ad alzare il moto ondoso e presto fui costretto a ridurre la velocità ed a uscire dalla planata. Ogni onda che si rompeva a tribordo entrava inevitabilmente con grandi spruzzi sulla tolda e su di noi. Avevo montato sul pulpito un faro potente per illuminare la porzione di acqua immediatamente sotto la prua . Infatti uno dei pericoli maggiori che potevamo incontrare era andare a sbattere su un tronco di palma semi sommerso portato a largo dopo essere caduto in mare lungo una spiaggia a causa dell’erosione delle maree sulla costa. Durante il giorno avevamo avuto modo di vederne tanti soprattutto nella zona dell’estuario. Non era peraltro impossibile che entrati nel vortice delle correnti i tronchi arrivassero in mare aperto. Dopo circa un’ora di cammino il mare era diventato agitato e il vento aveva rinforzato. La notte sembrava d’inchiostro. Probabilmente potrebbe sorgere spontanea la domanda sul perché avevamo deciso di partire all’inizio della notte e non di mattina presto. Pensavamo che così facendo avremmo avuto molte più ore di luce disponibili nel caso che non avendo trovato l’isola fossimo stati costretti ad invertire la rotta e ritornare a Libreville. In quel caso comunque, sicuramente avremmo trovato terra, magari troppo a nord o troppo a sud, ma terra! Il tempo passava con estrema lentezza e dato che la velocità era ridotta a circa 7/10 nodi all’ora a causa del mare agitato, dopo 3 ore stimai che avevamo percorso non più di 20 miglia, circa 35 km. Con una media così bassa ci sarebbero volute 12 ore buone di navigazione in un mare infernale. Avevamo deciso di fare 45 minuti al timone ciascuno e di riposare seduti dietro il sedile (l’unico posto dove si era un po’ riparati dalla pioggia e dai marosi). Il mio amico Claudio, credo che quella notte mi deve aver maledetto in tutte le lingue. Lui infatti, co proprietario di Fernan Vaz, non aveva molta dimestichezza con l’acqua, anzi direi che non sapeva neanche nuotare. Aveva voluto acquistare la barca con me perché gli faceva piacere poter portare sua moglie e la bambina piccola alla Pointe Denis nel fine settimana. Poi lo avevo convinto ad innamorarsi della pesca alla traina, al Big Game Phishing, con i Marlin, i pesci vela, gli squali Mako’, ragion per cui avevamo una bella serie di canne e mulinelli e esche di tutti i tipi. Eravamo usciti diverse volte e si era entusiasmato. Ma questa traversata era un’altra cosa. Quando toccava a lui stare al timone, non cessavo comunque di stargli sul collo: “Claudio, 270 gradi, ricorda, tieni gli occhi aperti sulla bussola, non ti distrarre, stai vigile, attento, guarda avanti e poi torna a guardare la rotta, guarda che se scarrocciamo con il vento devi riportarti poi su 10 gradi in meno per un po’, non ti addormentare al timone, Claudio stai attento ai tronchi! “ “ Ma, Fabri ce la faremo? Non è che stiamo andando nella direzione sbagliata? Cazzo non si vede una mazza! Chissà dove siamo.. Ho visto delle luci! “
“ Si guarda che è una nave, visto che non siamo soli?” Nella notte più nera che io ricordi, senza luna, con un mare che a tratti diventava come seta perché cadeva il vento improvvisamente. Ed allora le onde non frangevano più ma erano comunque gonfie e pericolose. Poi acqua sotto, acqua sopra, i miei baffi salati dagli spruzzi in faccia che venivano lavati dagli scrosci di pioggia a cortina. Il faro anteriore che non illuminava che la tenda di acqua che gli si parava davanti come una barriera insormontabile che rifletteva la luce e non ci permetteva di guardare nell’oscurità. E intanto occhi sulla bussola: 270 gradi, non bisognava distrarsi e men che meno perdersi d’animo. Le ore passavano. Aveva smesso di piovere anche se a tratti ritornava qualche scroscio. Il mare sembrava quietarsi. Nel silenzio, accompagnato solo dal ronzio continuo dei due 115 cavalli, che a mezzo regime spingevano Fernan Vaz verso l’isola dei nostri sogni, ogni tanto udivamo degli strani rumori, come di tuffi di qualcosa che si immergeva a pochi metri da noi, qualcosa o meglio qualcuno che ci seguiva ormai da un po’. Delfini? Balene?
Qualche pesce volante atterrava sulla tolda e finiva nella sentina, e allora lo afferravamo e ributtavamo in acqua, la stanchezza cominciava a farsi sentire e l’orologio ci diceva che mancavano ancora un paio d’ore all’alba . Chissà se eravamo riusciti a mantenere la rotta! Con il passare dei minuti che sembravano ore, debolmente un chiarore cominciava ad illuminare l’atmosfera. Innegabilmente il mare si stava calmando ed il vento calava progressivamente. Alle nostre spalle in alto nel cielo azzurro, Venere si vedeva in tutto il suo splendore mattutino e dalla sua posizione si poteva dedurre che la nostra direzione era quella giusta. Dissi a Claudio di mettere i motori al minimo e poi di spegnerli. Volevo godere di quel momento magico. La quiete dopo la tempesta…. Tirai fuori dal compartimento stagno sotto il sedile il thermos del caffè, era ancora tiepido! Ce ne versammo due buone tazze e in piedi dondolando leggermente aspettammo, cullati dalle onde che si stavano appiattendo sempre più, e ci voltammo verso est per scorgere il disco rovente del sole emergere dall’oceano. Bonaccia! Il vento caduto completamente, la superficie del mare un olio con riflessi rosa e celesti.
A circa 300 metri un ribollire di schiuma e due balenottere iniziarono a regalarci uno spettacolo che non avevo mai visto. Saltavano fuori dall’acqua ergendosi quasi completamente nell’aria per poi ripiombare con mille schizzi giù e sparire per alcuni secondi per poi riapparire a qualche distanza e continuare quello che sembrava un corteggiamento oppure era solo un modo di togliersi dei parassiti dal dorso. Dopo una notte tempestosa, il giorno ci stava regalando momenti di sogno. Quello che stavo vivendo in quegli attimi era proprio ciò che mi aspettavo di trovare, il vero motivo che mi aveva spinto ad intraprendere la traversata. Pigiai sul pulsante dell’accensione e i 12 cilindri ripresero a ronzare perfettamente. Riportai la rotta su 270 e questa volta fu una libidine spingere le due manette dell’acceleratore a regime dopo che per tutta la notte non avevamo potuto navigare sulla cresta delle onde. Con solo le eliche immerse e la prua che sfiorava l’acqua correvamo verso la nostra meta come un albatros che in caccia si inseriva in ogni avvallamento tra un onda e l’altra, onde lunghe che non intralciavano la nostra corsa. E fu così che verso le 9, dopo 11 ore di navigazione, si materializzò all’orizzonte qualcosa di altissimo e grandissimo ma ancora molto lontano. Sembrava un nuvolone immenso, grigio e pieno di pioggia. La nostra prima reazione fu di sgomento perché un’altra tempesta ci avrebbe demolito nel morale e magari spinto a rinunciare….ma a guardarlo bene man mano che ci avvicinavamo, quel nuvolone non annunciava una tempesta ma nascondeva la cima del Pico di Sao Tomé! La nostra gioia fu irrefrenabile e cominciammo a gridare come pazzi! Avevamo mantenuto una rotta perfetta nonostante le difficoltà ed ora ci stavamo avvicinando a grande velocità alla meta. Col passare dei minuti la costa si materializzava davanti ai nostri occhi.
Quando finalmente gettammo l’ancora nella Baìa Ana Chavez dove c’era il molo dell’albergo, una piccola folla di ragazzini ci salutò con forti grida di benvenuto. Ormeggiammo Fernan Vaz e scendemmo a terra.