Quella mattina mi ero concesso una mezza giornata di riposo e con Cristina avevamo deciso di allontanarci da Tripoli in direzione ovest lungo la strada costiera verso Sabrata.
Il paesaggio man mano che ci allontanavamo da Tripoli diventava sempre più desolato. Autocarri Magirus Deutz attrezzati per il deserto con filtri dell’aria a camino giganteschi e pneumatici a cerchi maggiorati, piastre antisabbia appese sulle fiancate, con il muso munito di verricello, occupavano tutta la carreggiata. Dai cassoni sporgevano le teste avvolte nella kufiyya dei trasportati sballottati dal lontano Chad , Niger e Burkina Faso dai trafficanti di esseri umani che facevano la spola tra Ouagadougu , N’Djamena e Niamey. La Libia importava mano d’opera a basso costo per le sue raffinerie e non solo.
Il piccolo porticciolo di Sabrata consisteva in un molo lungo una cinquantina di metri che verso la parte finale si immergeva nel mare per permettere il varo di piccole imbarcazioni. Sui lati erano ormeggiati dei pescherecci tutti battenti bandiere egiziane. Le boe di galleggiamento delle coffe, le ceste di vimini con centinaia di ami innescati con calamari infilati in perfetto ordine sui bordi di sughero, i pali di segnalazione con in cima bandierine triangolari nere che sbattevano ritmicamente al vento con schiocchi regolari, sembravano aver sospeso questa scena in un limbo in cui i pescatori ripetevano gli stessi gesti appresi in anni e anni di duro lavoro senza certezza. Queste barche, venivano dal lontano Egitto a pescare sui ricchi banchi a nord delle coste libiche al confine con le acque tunisine: le isole Kerkennah con i loro bassi fondali ricchi di pesce erano la meta di questi pescatori. Quando ci videro passeggiare sul molo, ci chiamarono invitandoci a bordo con gentilezza e ci offrirono il té, parlando in un inglese francese arabizzato ci dissero che venivano da Alessandria e che ormai erano già sei mesi che mancavano da casa. La loro vita era racchiusa su quel gozzo di una quindicina di metri, i loro occhi scuri e i loro volti barbuti nascondevano una tristezza infinita…ci fecero capire guardandosi attorno con circospezione, che la polizia libica li costringeva a cedere una parte del pescato in cambio della possibilità di restare ormeggiati al porto e fare rifornimento. Inoltre venivano taglieggiati anche se cambiavano porto quindi non avevano altre possibilità se non restare a Sabrata e continuare a pagare la tangente ai poliziotti. Non ero sorpreso di sentire queste storie, visto l’ambiente in cui ero costretto a muovermi nel mio lavoro che sicuramente non era migliore, come vedremo, anzi..
Mentre ritornavamo indietro dopo aver ringraziato e salutato i pescatori, arrivati in prossimità dell’inizio del molo vedemmo un gruppetto di ragazzini che stava cercando di annegare un cucciolo di cane o almeno così sembrava. Corsi subito sulla battigia gridando e afferrai per i capelli quello che teneva il cagnetto costringendolo a lasciare la presa. Il cucciolo si divincolò e scappò in direzione di Cristina che lo prese al volo. Il bambino mi guardò con un’espressione commista di stupore e paura, gridò qualcosa in arabo e scappò via. Il povero animale tutto tremante ci rendemmo conto subito che era ricoperto di zecche, sulle orecchie, sulle zampe sul ventre. Probabilmente i bambini credevano che immergendolo nell’acqua gliele avrebbero potute togliere o almeno così preferii pensare. Lo avvolgemmo in un asciugamano e tornammo rapidamente a casa. Passammo tutta la sera a tirargli via le zecche, lo rifocillammo e dopo averlo lavato per tirargli via il sale dalla pelle martoriata, si addormentò su un cuscino che gli avevamo destinato. Pippo lo avevo lasciato in Italia ad un amica perché conoscevo il pessimo rapporto che gli arabi hanno con i cani e non volevo che gli potesse succedere qualcosa. Avevamo portato con noi invece la nostra gattona Cindy che si era appropriata della casa e che adesso si sarebbe occupata del cucciolo insegnandole ( era una cagnetta) le regole da rispettare.
I mesi scorrevano velocemente e mi trovavo sempre meno a mio agio con Salah. Fallito il primo tentativo di corruzione, aveva preteso che io assumessi una segretaria che probabilmente era a lui collegata in qualche modo dal punto di vista della famiglia. Ouidaad, avrà avuto 25 anni o forse più, i capelli neri corvini raccolti dietro il capo, occhi supertruccati, lineamenti delicati, vestiva all’occidentale , la si poteva definire una bella donna. Traduceva dall’italiano all’arabo e viceversa senza problemi, scriveva a macchina velocemente e conosceva la burocrazia libica. Poteva essere un ottimo acquisto, peccato che il suo compito fosse quello di spiare ogni mio movimento e riferire a Salah . All’inizio ero rimasto solo contrariato dal fatto che mi era stata imposta con la scusa che così avrei avuto qualcuno che traducesse durante le riunioni con la controparte. Avrei preferito mille volte scegliermi io chi portare alle riunioni. Quando capii quale era il suo reale compito, iniziò una guerra. Non la potevo licenziare perché la legislazione libica non me lo permetteva, a meno di pagare cifre esorbitanti, non le potevo impedire di venire in ufficio. Quindi alla fine le facevo occupare la sedia senza utilizzarla, come un soprammobile.
Mi resi conto che avevo assoluto bisogno di avere con me qualcuno che parlasse arabo del quale mi potessi fidare. Fu così che dopo un giro di telex e di telefonate riuscii a far venire a Tripoli un impiegato somalo che lavorava con me a Mogadishu che ormai era stata messa a ferro e fuoco dalla guerra. Abdi era un uomo della mia età più o meno, che in Somalia si occupava degli acquisti e che io avevo assunto perché me lo aveva presentato Mahdi, il faccendiere di cui ho raccontato in precedenza. Si era rivelato un ottimo soggetto ma soprattutto aveva stretto con me un rapporto di amicizia sincera ( cosa molto ma molto rara in Somalia). Quindi quando arrivò a Tripoli, felice di raggiungermi, lo mandai in cantiere ad Azzawya con l’incarico di essere le mie orecchie ed i miei occhi. Si sarebbe occupato di acquisti per il cantiere. A Salah non sfuggì questo escamotage ma non poteva farci nulla e Abdi puntualmente cominciò ad aggiornarmi di tutto quanto accadeva. Dato che per il suo incarico doveva muoversi tra l’ufficio di Tripoli e la raffineria di Azzawya , io riuscivo ad essere messo al corrente rapidamente. Salah aveva capito che Abdi era un mio uomo e quindi cercava in tutti i modi di sfuggire al somalo, ma Abdi era più intelligente di lui e riusciva a trovarsi sempre al posto giusto al momento giusto. Cercò logicamente di corromperlo ma non ci riuscì.
Un pomeriggio ero rientrato all’improvviso dal cantiere di Azzawya ed avevo trovato Salah che stava parlando con Ouidaad fitto fitto, badando bene di non farsi sentire dagli altri impiegati dell’ufficio. Quando entrai cessarono immediatamente di parlare e lui, dopo avermi salutato brevemente uscì quasi correndo. In serata Abdi rientrò verso le 18 in ufficio e gli dissi cosa avevo visto alcune ore prima. Con la scusa di verificare alcune fatture di acquisto si avvicinò alla segretaria ed iniziò a flirtare con lei . Più tardi verso le 21 Abdi venne a trovarmi a casa e mi disse che l’indomani Salah avrebbe avuto un appuntamento con il direttore della banca di Azzawya ma non seppe dirmi il motivo. Ouidaad non si era scoperta ma gli aveva lasciato intendere che in seguito a quell’incontro lei sarebbe andata in vacanza per 15 giorni in un hotel a 5 stelle a Djerba.
Quel giorno la stradina di Gargaresh dove avevamo l’ufficio, era, se possibile, ancora più sporca del solito. Capre dal lungo pelo si aggiravano lungo i marciapiede cercando angoli d’ombra. Era singolare che tutte le case che avevano accesso dalla via avessero dei rampicanti che ricadendo dai muri di cinta venissero pareggiati dalle brave bestie cornute che svolgevano un lavoro di giardinaggio eccezionale. Ero casualmente rientrato dal cantiere prima del solito e stavo appunto ammirando la loro tecnica da dietro il muro di cinta per non essere notato, dopo aver parcheggiato l’auto all’interno del cortile, quando attraverso una fessura del muro vidi Salah che era arrivato con la sua auto sul retro dell’ufficio ed era rimasto all’interno con il motore acceso. Pochi istanti dopo giunse una seconda auto con due persone a bordo. Una scese con fare circospetto, aprì il bagagliaio e ne estrasse due grossi involucri. Sembravano due sacchi dell’immondizia. Salah scese senza dire una parola, a sua volta aprì il cofano e depose i sacchi all’interno. Non sembravano particolarmente pesanti ma mentre ne sollevava uno, il gancio del portabagagli tagliò la plastica e una serie di mazzette di denaro cadde sull’asfalto. Immediatamente i tre le raccolsero in fretta le gettarono all’interno e chiusero il bagaglio. Dopodiché tutti saltarono in macchina e si dileguarono. Questo episodio mi fece capire che la situazione era scottante e peggiore di quello che io potessi immaginare. Ne parlai con Abdi e lui a questo punto iniziò a indagare contattando tutte le conoscenze che avevamo in comune e che facevano riferimento a Salah. Ouidaad dalla finestra si era accorta che io avevo visto il traffico di denaro e avvertì Salah. A questo punto bisognava giocare a carte scoperte. Quando lo affrontai chiedendogli cosa fosse tutto quel denaro lui si schernì dicendomi che erano dinari in pessime condizioni e che quindi non potevano più essere utilizzati che la banca centrale libica doveva distruggere e che lui aveva ottenuto pagandoli un decimo del loro valore. Si arrampicò sugli specchi ancora per un po’ e poi mi disse che erano fatti suoi e che comunque quanto avevo visto non aveva a che fare con la società. In poche parole entrammo in contrapposizione. Venni a sapere il giorno dopo da Abdi che Salah era conosciuto per essere un trafficante di valuta e di armi e che probabilmente la S.I.I. gli serviva come copertura per i suoi traffici. Quello che Abdi non sapeva era che i vertici della società erano coinvolti e che quindi io a questo punto ero spacciato. Non avendo potuto comprarmi e quindi passare dalla loro parte, dovevo essere eliminato perché diventavo un testimone scomodo.
Dopo una settimana da questi accadimenti, arrivò a Tripoli un Direttore Esteri che era stato nominato in men che non si dica dall’amministratore delegato con lo scopo di sollevarmi dall’incarico perché” avevo rotto il rapporto di fiducia con la società “ e quindi mi si chiedeva di dare le dimissioni. Lo feci dopo che ebbi rimpatriato Cristina sul primo volo disponibile, ponendo fine ad un’esperienza che se da un lato mi aveva devastato sotto il profilo puramente umano, dall’altro mi aveva mostrato quanto è difficile mantenere la schiena dritta quando tutti cercano di piegarti. Io ne ero uscito vincente ma di fronte a me adesso avevo un mare di incertezze anche perché mi attendeva una lunga battaglia legale per farmi pagare quello che mi spettava e dovevo cercarmi un nuovo lavoro.