Somalia addio

La situazione generale della Somalia stava precipitando nelle ultime settimane. Ci arrivavano informazioni di attentati e di omicidi in varie parti del paese. A sud vicino a Chisimaio c’erano state delle carneficine in scontri tra varie tribù e anche a nord vicino a Bosaso.  A Mogadishu  forse a causa della presenza di Barre e delle milizie a lui fedeli, si percepiva di meno il problema ma ormai era nell’aria la guerra civile. Noi avevamo rafforzato le misure di sicurezza intorno al campo base e il personale doveva rientrare tassativamente con il favore della luce.  Una sera verso le 17 stavo rientrando dal cantiere insieme a Vincenzo dopo aver effettuato una serie di controlli e per non ripercorrere la strada attraverso Afgoyee che era piena di deviazioni appunto a causa dei lavori, avevo deciso di passare per la cava e di rientrare lungo la pista sul mare o meglio lungo la battigia come avevo fatto in svariate occasioni. Percorremmo rapidamente la quindicina di km che  separavano il campo dalla cava anche perché potevamo andare veloci sulla pista ben battuta dal passaggio dei dumper Perlini che facevano la spola  tra l’impianto di frantumazione e il cantiere. Quando arrivammo al mare però ci accorgemmo che l’alta marea era già un pezzo avanti e che quindi ci lasciava poco spazio per passare. Era già tardi e quindi senza indugiare mi infilai nella sottile striscia di sabbia dura che era rimasta scoperta dalle onde. Tirava un vento sottile da est che entrava nell’abitacolo trasportando goccioline d’acqua salata. A largo, forse a un paio di miglia di distanza ,un grosso cargo pieno di container si stava avvicinando al porto di Mogadishu.  Ci arrivava trasportato dalla brezza, il rumore cupo e continuo dei suoi  4 motori da 12 cilindri e 40000hp totali che sicuramente ormai andavano a mezza forza nell’avvicinamento al porto. Anche il  motore della mia Hj60  cantava alla grande mentre  con le ridotte innestate facevo lo slalom tra le onde che cominciavano a arrivare ben in alto lasciandomi poco campo di manovra. Dissi a Vincenzo di chiudere il finestrino appena in tempo per evitare di essere riempiti d’acqua dagli schizzi provocati da un onda che si era infranta contro i mozzi delle ruote che ormai erano per due terzi del tempo quasi sempre nell’acqua.  Per ben due volte in cinque minuti avevamo rischiato di non ripartire perché la sabbia  ormai cedeva troppo  sotto il peso dell’auto, pertanto decisi di lasciare la battigia e di entrare nell’interno in mezzo alle dune mantenendomi in vista del mare per non perdere l’orientamento. La velocità a questo punto calò di botto e iniziò una ricerca spasmodica del miglior tracciato possibile per evitare buche, dune troppo alte, arbusti modellati dal vento e pietroni che emergevano all’improvviso dalla sabbia. Il tempo passava e il sole era arrivato all’orizzonte. Arrivammo in un punto in cui si riusciva a seguire una traccia lasciata probabilmente dai pastori con i loro dromedari a giudicare dagli escrementi che costellavano la pista e cercai di seguire le orme. Dopo circa un paio di km però a causa del fatto che non potevo mantenere una velocità sufficiente,  mi trovai con l’auto appoggiata  e completamente immersa nella sabbia fino ai mozzi. La situazione si faceva complicata e scendemmo per cercare di liberare l’auto dalla morsa:  non si andava né avanti né indietro. La mia macchina non aveva il blocco al differenziale pertanto le ruote giravano senza fare presa. Iniziammo uno scavo con le mani nude ( non avevo con me neanche una pala) infilandoci sotto il telaio da un lato e dall’altro.  L’oscurità  era quasi completa  quando risalito per l’ennesima volta al volante riuscii ad uscire da quella situazione. Avevamo la sabbia ovunque fin nelle mutande e gli occhi ci bruciavano. Decisi di tirare al massimo infischiandomene  delle botte che prendevamo saltando su una pista che in realtà non c’era e continuai così fino a che non arrivammo ad incrociare la strada di Afgoyee. Erano le 21, 30 quando arrivammo nei pressi dell’ufficio. I nostri colleghi preoccupati avevano mandato due autisti verso il campo base a cercarci. Questo episodio mi spinse ancora una volta a pensare ad un’alternativa. La mia vita    aveva importanza e cominciavo a pensare che forse il gioco non valeva la candela. Inoltre non volevo che a causa mia Cristina potesse rischiare la vita. Tra le varie cose  poi che non mi andavano giù,  c’era il rapporto con la società.

Nonostante il mazzo che mi facevo per mandare avanti la filiale ed il cantiere, e tutti gli episodi che ho avuto modo di narrare, che avevano messo in pericolo la mia stessa vita, non c’era mai stato un riconoscimento di quello che avevo fatto da parte della direzione. Io trattavo gli affari della società esattamente con la stessa passione come se fossero stati i miei mettendo davanti a tutto gli interessi dei Salini.  La famosa frase “ se la vedrà lei “ aveva lavorato come un tarlo nella mia mente e il non riconoscimento ( non sotto il profilo economico ma umano) di  quello che avevo fatto per loro, ormai mi aveva portato a considerare prossima la mia partenza dalla Somalia e dalla società. Approfittando di 15 giorni di ferie , alcuni mesi prima, ero volato in Madagascar a vedere con i miei  occhi quanto mio cugino   mi aveva proposto via lettera e mi ero innamorato di quella possibilità. Per uno come me che amava il mare e la natura sopra ogni cosa, andare a lavorare in un isola come Nosy Be in un resort tenuto da un parente sembrava essere   un sogno.  Dopo pochi giorni rassegnai le dimissioni, e mi misi a disposizione aspettando qualcuno che venisse a sostituirmi. Rientrammo in Italia e ci preparammo a partire per una nuova avventura.

Quando sbarcammo all’aeroporto di Antananarivo, pensai che infine si stava realizzando l’ obiettivo che avevo coltivato da anni .  L’autista che mi era venuto a prendere si chiamava Felix ed era un ometto sulla cinquantina dai capelli crespi ed una dentatura che avrebbe fatto paura ad uno squalo. Mio cugino si trovava sull’isola ed aveva mandato lui a prenderci perché la coincidenza del volo  era per l’indomani.  Dormimmo a  Antananarivo e la mattina dopo salimmo su un Fokker F100  direzione  Nosy Be.

Il resort di mio cugino  Paolo si trovava sulla spiaggia di un piccolo villaggio a nord dell’isola, Ambatoloaka. Era composto da una quindicina di alloggi, un ristorante e servizi vari. L’aveva costruito, pietra su pietra, da solo nel corso degli anni ingegnandosi a trovare i materiali e le risorse in un paese dove il socialismo scientifico, tipico di quella parte dell’Africa Australe (Mozambico, Zambia, Zimbabwe, Angola) aveva ridotto alla fame i suoi abitanti.   Le capanne col tetto di paglia avevano i letti posti su strutture in cemento ed anche i comodini erano costruiti come prolungamenti dei letti stessi. Anche nel ristorante i sedili erano pensati insieme ai tavoli come delle unità a quattro/sei  posti . Aveva così risolto il problema  dato che non si trovava nulla di quanto necessario per una qualsiasi attività. Inoltre sull’isola,  oltre alla poca merce di qualche emporio saldamente tenuto nelle mani di indiani o cinesi che imponevano prezzi astronomici per le cose più semplici, era difficilissimo trovare articoli di importazione, vedi sanitari, lampadine,  scaldabagni, cucine etc. Quindi l’alberghetto era molto spartano ma in una posizione invidiabile e comunque tenuto al meglio date le circostanze. Si mangiava cibo malgascio, il cuoco era cinese e però, dato che mio cugino era di Napoli, come me d’altronde, anche la pizza e la pasta   erano parte del menu.

Eravamo ospitati nella casa che mio cugino si era costruito a poca distanza dall’albergo, a poche decine di metri dal mare. Le palme tutto intorno ombreggiavano la zona e grossi granchi risalivano lungo la battigia entrando spesso dentro casa. Il villaggio di Ambatoloaka era situato nell’interno, ma le sue propaggini arrivavano accanto alla casa.  Quindi diciamo che la vita era molto promiscua. A differenza della casa di Paolo, dove c’era un bagno con acqua corrente calda e fredda, le case dei locali erano sprovviste di servizi igienici. Infatti i malgasci usavano la spiaggia come toilette; la sera spesso li vedevi avvicinarsi al mare con fare sospetto e poi chinarsi per espletare i loro bisogni. Al mattino l’alta marea aveva ripulito tutto, ma guai a fare una passeggiata al chiaro di luna! L’albergo aveva svariati dipendenti, tre o quattro donne che si occupavano delle pulizie, un cuoco un aiuto cuoco, un meccanico, due giardinieri, etc. insomma una quindicina di persone  ed un amministratore, un malgascio di nome Marcel, detto anche “j’ai pas osé “ ovvero non lo farei mai. Piccolo di statura, gracile e malaticcio, aveva una vista debolissima, infatti portava degli occhiali molto spessi e per leggere avvicinava tantissimo lo scritto agli occhi, capelli a caschetto ondulati e sporchi, sui 45 portati da schifo, fumava come una ciminiera e praticamente non aveva più denti. In compenso però guidava, e al mattino trasportava al residence i dipendenti che abitavano in centro a Nosy Be con un pulmino sgangheratissimo che era anche quello che andava a prendere i clienti all’aeroporto. Il parco macchine comprendeva anche un Pick up Isuzu in buone condizioni che usava il meccanico che abitava nel villaggio a poche centinaia di metri dall’albergo. Chi non conosce il gorilla di montagna? Bene, Samuel Zana    aveva la stessa corporatura del grande primate, lo stesso sguardo feroce, e anche lo stesso colore. Le sue braccia erano come le mie cosce e il suo collo  taurino faceva da base ad una testa imponente. Portava una barba a pizzetto che gli dava un’aria mefistofelica. Alto forse un metro e ottanta pesava sopra il quintale e imponeva molta soggezione. In realtà era un pezzo di pane, gentilissimo e sempre pronto ad aiutare.

Poi c’era Jacqueline, la barista, che probabilmente se la intendeva col cuoco e quindi ogni tanto  spariva nel retrocucina ed era irreperibile. Alta,  capelli corvini fluenti tenuti allacciati da un laccio con successiva coda di cavallo, seno rigoglioso e glutei da olimpiade, la puledra scorazzava in lungo e in largo nell’area del bar portando beveraggi ai turisti distesi al sole a rosolare. Non era dato sapere quanti anni avesse ma spesso arrivava all’albergo con un nugolo di marmocchi che si arrampicavano dappertutto con somma gioia di mio cugino che però non poteva fare a meno di lei e quindi chiudeva un occhio anzi tutti e due. Il tuttofare dell’albergo era un vecchietto di nome  Ratsiraka, lui si occupava di tutto quello che si rompeva e quindi aveva veramente molto ma molto da fare, dalle sedie alle lampade, al frigorifero, alle pompe dell’acqua, al water intasato o la fossa settica piena, insomma era un vero aggiustatutto e guai se si fosse ammalato, sarebbe stata una calamità. Il compito di Cristina sarebbe stato quello di supervisionare il lavoro del personale ed   individuare eventuali problemi che poi avrebbe dovuto risolvere il buon Ratsiraka. Peccato che il vecchietto si muoveva come un bradipo.   Poi c’era il capitolo attrezzatura marina , ed è lì che  finalmente appaio io con le mie passioni per le barche, i motori, la pesca. Bisogna dire che il parco nautico  lasciava molto a desiderare. C’erano quattro imbarcazioni in legno, tipo gozzi  delle nostre isole del sud Italia, due cabinati in vetroresina. A parte una che era funzionante, le altre tre avevano bisogno di molta manutenzione e soprattutto i rispettivi motori avevano una spasmodica necessità di pezzi di ricambio che malheureusement non c’erano, o erano introvabili sul mercato e quindi bisognava farli arrivare dall’estero con tempi biblici. Quindi  il buon Samuel Zana cercava di fare del suo meglio per far funzionare i motori, ma molto spesso le barche erano ferme. C’era anche un gommone da 5 mt che era forse il mezzo meno ridotto male anche se i tubolari avevano parecchie toppe. Il mio primo lavoro fu quello di cercare di restaurarlo al meglio. Non vedevo l’ora di andare a visitare gli isolotti che facevano parte dell’arcipelago di Nosy Be. Ad alcuni km di distanza dall’albergo Paolo  aveva creato una falegnameria ed un cantiere con bacino di carenaggio  dove riparava le imbarcazioni.   Quel luogo veniva  chiamato “ le Cratère” perché era situato nel cono di un vulcano ormai spento da secoli e lì mi recavo tutte le mattine ad occuparmi delle barche e della manutenzione di tutta l’attrezzatura subacquea che  mio cugino nel corso degli anni aveva accumulato : bombole, erogatori, compressori, fucili, mute maschere pinne, insomma un’enorme quantità di roba che sfortunatamente come purtroppo dovetti constatare, per la maggior parte era inutilizzabile. A questo punto penso sia importante introdurre mio cugino.  Paolo, sulla sessantina portata bene, fisico asciutto , ancora un bell’uomo, era andato in Madagascar da Napoli, dove  agli inizi degli anni ’70  era un rinomato costruttore. Per tutta una serie di problemi aveva avuto dei rovesci economici e pertanto  si era indebitato fino al collo con persone poco raccomandabili. Pertanto avendo ricevuto un’offerta di lavoro da un suo amico che già stava a Nosy Be  da parecchio tempo, e che aveva messo in piedi un ‘attività turistica, aveva deciso  di piantare baracca e burattini ed era partito precipitosamente con la moglie ed un figlio piccolo. Arrivato sul posto, dopo qualche tempo, la collaborazione con il suo amico non aveva funzionato e lui si era messo in proprio costruendo appunto il Residence Ambatoloaka e di fatto facendo concorrenza al suo amico. Comunque il lavoro c’era per tutti e i due avevano mantenuto buoni rapporti. Sua moglie, l’aveva seguito a malincuore lasciando una famiglia ricca che però non li aveva aiutati nel momento del bisogno.  Faceva parte  della cosiddetta  “Napoli bene”, snob e arrivista e probabilmente aveva avuto seri problemi ad adattarsi alla situazione  nei primi tempi. Aveva messo su una boutique dove con l’aiuto di due ragazzi  malgasci, preparava articoli come costumi, parei dipinti a mano e quant’altro da vendere ai turisti. Non  aveva un bel carattere e sin dai primi tempi era entrata in contrasto con la povera Cristina che cercava di fare del suo meglio nel lavoro che le era stato assegnato. In realtà il problema era che era gelosa della bellezza di Cristina e nonostante noi fossimo venuti lì per aiutarli, si sentiva  messa da parte dall’arrivo di una donna più giovane e molto più attraente di lei .

Non perdeva occasione per  trattarla male. Proprio per evitare ulteriori  attriti, decidemmo che la convivenza sotto uno stesso tetto non fosse  più possibile e ci cercammo una casetta in un villaggio a pochi km a nord di Ambatoloaka. Trovammo una sistemazione da  una famiglia malgascia che aveva una dependence inutilizzata vicino alla loro casa , una camera un bagnetto e una cucina, un bellissimo giardino pieno di animali da cortile. A noi bastava per essere felici. 

La mattina ci recavamo al lavoro utilizzando il motorino del figlio di Paolo che non c’era perché viveva ad Antananarivo dove andava a scuola e la sera tornavamo nel nostro ricovero di fortuna a guardare il tramonto e a prepararci gamberoni alla griglia.