Padre Fortunato

Nel periodo che avevo passato in Mozambico quando lavoravo al Barragem dos Pequenos Libombos, avevo conosciuto e frequentato una coppia di italiani residenti a Maputo da tanti anni.

Vivevano in una bella villa posta su una strada praticamente privata, nel senso che ci passavano solo i residenti, con una gran vista sulla baia della città e sull’isola di Inhaca. Alberto e Marisa  C. erano originari di Forlimpopoli ed erano emigrati in Mozambico negli anni ’70. Probabilmente avevano dovuto emigrare per ragioni che io non ho mai saputo ma intuito visto che lui era un comunista rosso come il fuoco e sicuramente  negli anni di piombo aveva avuto qualcosa a che fare con i facinorosi che in quel periodo sconvolsero l’ordine pubblico in Italia. Quale posto migliore per atterrare in Africa che il paese dove Samora Machel stava facendo le prove del socialismo scientifico? Ed infatti  Alberto  era diventato consigliere del Presidente e amico dell’eminenza grigia  del potere, Marcelino Dos Santos.  Gli avevano dato rifugio, garantendogli la non estradizione, una casa, un lavoro. Sui 65 quando l’avevo conosciuto, basso di statura, aveva un riporto sulla pelata che cercava di nascondere in qualche modo. Il fare gioviale del romagnolo, accompagnato ad un’energia insospettabile per un uomo di quell’età. Si capiva dal suo modo di fare che era abituato a gestire il potere e all’occasione utilizzare anche la violenza. Con me era sempre stato molto cordiale forse perché lavoravo con le Coop di Ravenna e pensava che fossi da quel lato della barricata. La moglie, più giovane di lui forse di 10 anni, era ancora una bella donna e si capiva che 20 anni prima aveva dovuto far girare la testa a molti nel partito e fuori. Mora, capelli lunghi ondulati, grandi occhi scuri,  intelligenti,  tipica romagnola esuberante, una bocca grande e sensuale. Avevano due figli un maschio ed una femmina che vivevano in Italia e che ogni tanto venivano a trovarli. Mentre lavoravo in Gabon ero venuto a Maputo in missione per conto della Salini per verificare che possibilità ci potevano essere di inserimento in Mozambico. Invece di andare in albergo, al Polana, l’unico decente della città, mi avevano ospitato per una settimana , contenti del fatto che  mi ero ricordato di loro e che li ero andati a trovare. Inoltre grazie ad Alberto  avevo potuto incontrare vari membri del governo senza fare anticamera.  Allora lo sbarramento delle Coop ed il loro inserimento in tutto il tessuto sociopolitico del paese, rese impossibile qualsiasi spiraglio per la  società che rappresentavo e quindi la mia missione fallì miseramente. Quando nel 1993 passai a fargli un saluto, trovai una situazione ben diversa. La villa che un tempo era ben tenuta,  era immersa in un giardino   pieno di erbacce con le radici dei grandi alberi che la ombreggiavano, che avevano scalzato la pavimentazione del marciapiede tutto intorno. Vari animali da cortile, oche anatre e polli razzolavano nella parte posteriore della casa dove  una volta c’era un laghetto con una fontana e i pesci rossi. Ora il laghetto era melmoso, la fontana non funzionava e lo sterco dei volatili era ovunque. Marisa,  mi raccontava che a causa della guerra, negli ultimi anni neanche la nomenclatura del partito riusciva più ad avere la possibilità di accedere ai rifornimenti di cibarie, quindi a maggior ragione loro che erano comunque marginali rispetto al potere centrale del  Frelimo. Pertanto  le uova fresche almeno se le producevano da soli cosi come la carne.

Una grande parte dello splendido giardino tropicale della villa era stato trasformato in orto  e così tiravano avanti. Sembrava che forse avrebbero potuto rientrare in Italia grazie al fatto che alcuni reati erano andati in prescrizione ma non ne erano certi ragion per cui stavano aspettando di capirne di più. Inoltre la guerra tra le  due  fazioni sembrava essere finita, grazie all’intervento del nostro governo e della comunità di Sant’Egidio e speravano che questo avrebbe portato fiumi di denaro in Mozambico, e loro erano lì pronti a intercettarli in qualche modo. 

Seppi  in seguito che Alberto  e sua moglie avevano messo su un ristorante  che aveva avuto  un discreto successo negli anni successivi alla mia partenza, poi lui morì di emorragia cerebrale e Marisa rientrò in Italia dai suoi figli. 

Una delle missioni che mi attendeva nelle settimane seguenti prevedeva il controllo di alcune opere che si stavano costruendo nel distretto di Quelimane, una cittadina  a  circa 1600 km a nord posta sul delta dello Zambesi. Si trattava di alcuni edifici scolastici e di un paio di workshop   che delle ONG stavano costruendo. Per poter arrivare a Quelimane presi un volo interno di Air Moçambique. Ormai preparato a tutto dopo tanti anni di sorvolo africano con compagnie aeree di  comprovata pericolosità , non feci molto caso quando il Boeing 737 rullando sulla pista di Maputo per decollare , perse qualcosa da un ala, tipo un pezzo di lamiera di una ventina di cm2. Ormai ero pronto a tutto!! Anche l’atterraggio non fu dei migliori dato che c’era un vento molto forte che faceva dondolare l’aereo come un amaca tra due alberi. Comunque all’ arrivo trovai ad attendermi un signore dai capelli bianchi, vestito in tuta da lavoro che si presentò come Padre Fortunato. Un missionario francescano che risiedeva in Mozambico da tempi immemori, Fortunato avrà avuto circa 70 anni ma aveva il vigore e la tenacia di un trentenne. Asciutto ma con una pancetta che la diceva lunga su quanto gli piacesse il vino , la barba incolta, uno sguardo profondo e dolce allo stesso tempo. Nei giorni successivi che passammo insieme in quanto si offrì di farmi da guida per andare a controllare i cantieri sperduti nell’entroterra, ebbi modo di conoscerlo e di ammirarlo. Aveva messo su una grande falegnameria utilizzando   macchinario che si era fatto regalare da imprenditori del suo paese, in provincia di Padova, dove ogni due anni tornava a battere cassa tra gli abitanti della cittadina che lo stimavano tantissimo e si davano da fare per mettere da parte i quattrini necessari per aiutarlo nella sua  missione. Rientrava sempre con un container pieno di tutto, dall’attrezzatura, agli abiti,  alle medicine , ai libri e alla cancelleria per la scuola. Aveva insegnato l’arte del falegname ai ragazzi della missione che così avevano imparato un mestiere. Sfornavano materiale da costruzione e carpenteria che veniva venduto in tutto il Mozambico, insomma un vero imprenditore. Nel viaggio che mi portò a visitare il primo cantiere passammo con il suo pick-up Toyota blu, per dei luoghi incredibili e selvaggi lungo piste in terra che si snodavano nella giungla tropicale. Lungo il tragitto, Fortunato si fermava a parlare con la popolazione che lo riconosceva da lontano quando vedeva arrivare la sua auto. Dava consigli, medicine e anche zampate nel culo di quelli che si comportavano male, soprattutto quando si trattava di uomini che maltrattavano le mogli o le figlie o le sorelle. In quel caso era implacabile e oltre ad invocare la punizione dell’Altissimo sui malcapitati, procedeva anche a prenderli  a sganassoni. Va da se che un simile uomo di chiesa avesse una vita sessuale di tutto rispetto, per cui ci fermammo in diversi posti dove Fortunato passava a lasciare il conforto alle brave donne e quindi anche a riposarsi dalla stanchezza del viaggio. 

Mentre ci stavamo recando a Macuze un villaggio a circa 120 km da Quelimane dove si trovava un cantiere gestito da una ONG patrocinata dal sindacato della Cisl, passammo per una vecchia missione abbandonata da decenni nel cuore della giungla. La costruzione della chiesa, imponente con la parte centrale contornata da due campanili simmetrici ed un pronao ormai invaso dalla vegetazione con alberi che si attorcigliavano alla struttura e liane che pendevano dalle travature in legno, ormai fatiscenti, aveva un fascino sinistro. All’intorno, delle costruzioni basse che chiudevano l’area prospiciente la chiesa,  erano le abitazioni dei monaci che un tempo mandavano avanti la missione. Fortunato mi spiegò che ben prima dell’inizio della guerra la missione era stata piano piano abbandonata perché lotte tribali avevano reso troppo pericoloso tenerla aperta soprattutto dopo che  due dei 4 monaci che vi risiedevano erano stati trucidati. I due  frati rimasti,  in seguito  all’inizio delle ostilità tra Renamo e Frelimo, erano stati costretti a rientrare a Maputo. Adesso i suoi abitanti erano delle bande di macachi che dall’alto degli alberi si prendevano gioco di noi tirandoci in testa tutto quello che gli capitava, disturbati dal nostro arrivo e preoccupati di dover dividere il loro spazio con dei bipedi per giunta bianchi. Comunque ci lasciammo la missione alle spalle e camminando lungo una pista delimitata da delle pietre bianche ( il che stava a significare che la zona era stata sminata ma guai a inoltrarsi  nella parte adiacente), dopo circa un’ora arrivammo dove si trovava  il cantiere che dovevo controllare. Lungo il tragitto, incontrammo degli uomini che ci fermarono. Avevano delle gabbiette di giunco nelle quali c’erano le “ galinhas do mato “ cioè degli uccelli simili alle nostre faraone ma più grandi e coloratissimi. Fortunato ne prese due che andarono ad aggiungersi a tutto il materiale che già si trovava nel cassone del pick-up unitamente ai passeggeri   che lui tirava su quando li incontrava lungo la pista. Funzionava in pratica come un taxi e tutti quelli che ne approfittavano davano a Fortunato qualcosa, che poteva essere anche solo un seme o un fiore o un frutto per riconoscenza. Lui diceva che era il pensiero che contava….