Odore di morte

L’aria ferma e irrespirabile del pomeriggio ci si appiccicava addosso come una colla, l’umidità rasentava il 99% e intorno nella savana ombre furtive si nascondevano al nostro passaggio. La Toyota di padre Fortunato sobbalzava lungo la pista che ci conduceva verso Namacurra. La strada nazionale era fuori uso e quindi avevamo preso una pista che era stata sminata recentemente che metteva in comunicazione Quelimane con l’interno della regione. Lo sminamento funzionava così: un grosso bulldozer, normalmente un Cat D9, munito di protezioni anteriori sulla pala di carico e di una cabina blindata per l’operatore, scavava una specie di trincea profonda circa 40 cm e apriva la pista. Spesso le mine spostate dalla massa di terra non esplodevano (a volte sì) e finivano ai bordi della massicciata fuori portata ma non più coperte. A quel punto gli artificieri che seguivano in fila indiana il dozer, intervenivano con le attrezzature che servivano a individuare l’esplosivo e lo neutralizzavano. Questa operazione pericolosissima era quasi sempre effettuata da personale indiano anzi Sikh, che faceva parte delle forze dell’ ONU di stanza in Mozambico. Va da sé che anche spostarsi di pochi metri dal bordo della trincea inoltrandosi nell’area circostante equivaleva a sfidare la sorte. Ecco spiegato chi erano le ombre furtive che vedevamo sfrecciare nella savana, poveri cristi che per qualche motivo avevano necessità di raggiungere capanne , animali lasciati al pascolo o altro e che speravano che la velocità di spostamento li avrebbe protetti da un eventuale esplosione! Dopo circa 45 minuti avevamo percorso circa 30 km ed eravamo a metà strada. Sulla destra apparve una radura con un’abitazione in legno.

Si trattava della base operativa del personale della ONG che stava costruendo un workshop che doveva servire per fare formazione professionale per i giovani della regione di Namacurra. La costruzione posta a circa 50 mt dalla casa era stata colpita da un colpo di Rpg alcuni mesi prima da parte delle milizie della Renamo che contrastavano  qualsiasi attività di cooperazione nella zona che   ritenevano essere sotto la  loro giurisdizione,     operata da  chiunque fosse  arrivato in Mozambico   attraverso accordi fatti col Frelimo. Un grosso buco di un paio di metri di diametro sulla parete del workshop completamente annerita dallo scoppio indicava la violenza dell’impatto. Il personale non era stato colpito ma era rientrato precipitosamente a Maputo. Il mio arrivo sul posto unitamente ai responsabili della ONG serviva a fare il punto della situazione per verificare se c’erano ancora le condizioni per riprendere i lavori. L’impressione che ricavavo da questa esperienza era che questi ragazzi erano mandati allo sbaraglio, senza una precisa metodologia d’intervento, privi spesso di qualsiasi preparazione tecnica specifica, senza un coordinatore esperto  che li affiancasse. Ragazzi e ragazze abbandonati a sé stessi ,  con zero esperienza, forse con tanto entusiasmo e voglia di aiutare, ma si sa che spesso l’entusiasmo è l’anticamera della morte ( vedi i giovani mandati in guerra a 18 anni a  beccarsi una pallottola in testa senza neanche sapere perché) .  Lungo la pista che conduceva a Namacurra, sembrava di vedere un film dell’orrore. 

Nei campi circostanti, biancheggiavano le ossa e i teschi dei morti, che non avevano mai potuto avere una sepoltura, perché chiunque fosse andato a prenderli, sarebbe morto su una mina o ammazzato dai ribelli. Attraversammo un fiume  sopra un ponte  che era stato bombardato. Solo una corsia su due era transitabile. Sull’impalcato grosse voragini mettevano allo scoperto fasci di tondini d’acciaio contorti dall’esplosione delle bombe quasi fossero sculture surreali di un artista  futurista.  Diverse decine di metri, più in basso  scorreva il Licungo  serpeggiando in mezzo alla savana. La provincia una volta era  ricca di elefanti, ippopotami, coccodrilli. Con la guerra, le milizie spesso a corto di cibo, avevano massacrato   la fauna selvatica a suon di Kalashnikov per nutrirsi e per impadronirsi dell’avorio, e non era raro imbattersi in carcasse di animali spolpate coperte di avvoltoi che si contendevano pezzi di carne putrefatta. In lontananza, il volo concentrico degli avvoltoi non indicava sempre la presenza del cadavere di un animale ma molto spesso qualche disgraziato smembrato da una mina antiuomo. Quando arrivammo a Namacurra, l’impressione fu quella di vivere “the day after”, tale era la distruzione  all’intorno. All’ingresso della cittadina, un edificio a più piani, o meglio quello che rimaneva, dava il benvenuto mostrando gli appartamenti sventrati quasi fossero occhi ciechi. Ma quello che faceva più impressione, era il silenzio.

Lampioni stradali piegati lungo la via,  scandivano l’accesso a quella che una volta doveva essere la piazza del mercato. Infatti povere donne, avvolte in qualche straccio, sedevano per terra di fronte a dei banchetti coperti della loro merce in vendita: alcune banane, delle radici di manioca, degli improbabili frutti di qualche albero  tropicale. Ci saranno stati forse una ventina di esseri umani in quella piazza, ma nessuno parlava o si muoveva. Sembrava il fermo immagine di un fotogramma di una pellicola  quasi a ribadire il concetto che a Namacurra la vita  aveva smesso di esistere parecchio tempo fa’. Ma l’orrore  non era finito. Inoltrandoci verso il centro della cittadina, pressoché distrutta  , arrivammo in fondo ad una strada che finiva in una piazzetta.  C’era un edificio ancora in piedi, di tre livelli ancora in condizioni decenti, se non fosse che non aveva più porte o finestre. ( Alla distruzione dovuta ai combattimenti, bisognava aggiungere la successiva cannibalizzazione di tutto ciò che poteva tornare utile per sopravvivere, gli infissi per esempio venivano bruciati come legna per cucinare). Sui lati, delle piante scheletriche allungavano i loro rami secchi bruciati dalle esplosioni e dal fuoco appiccato intenzionalmente per terrorizzare la popolazione.  Puzzo di decomposizione, di sterco umano  e urina avvolgevano questo luogo immerso in una nebbia dovuta al fumo di fuochi accesi nelle vicinanze. Improvvisamente dall’edificio, probabilmente allertati dal rumore del motore della Toyota, uscirono correndo tre persone. Due ragazze  sui 20 anni ed un uomo sulla trentina, chiaramente europei.  Si avvicinarono all’auto e  ci chiesero se avevamo dell’acqua potabile. Si trattava di un avamposto di una ONG francese, Terre des Hommes, che si occupava di vaccinazioni. Erano due infermiere ed un medico. Altri due componenti del gruppo erano  partiti per Quelimane due giorni prima. Avevano scelto di fare  il loro quartier generale in quell’edificio fatiscente che ci spiegarono essere una scuola, montando all’interno delle aule delle tende ove poter dormire protetti dalle zanzare.

La campagna vaccinale si era interrotta perché non avevano più combustibile per far andare il generatore e quindi i frigoriferi non funzionavano più.  Stavano aspettando ormai da due settimane un container con i rifornimenti che era arrivato a Quelimane, ma  che non riuscivano a sdoganare. I loro colleghi erano partiti per cercare di risolvere il problema. Avevano una radio che li teneva in contatto con la centrale operativa di Maputo ma senza corrente non c’era modo di comunicare. Quindi la loro situazione era al limite della sopravvivenza. Promisi loro che al mio rientro avrei fatto il possibile perché la loro ambasciata si attivasse per soccorrerli. Ho voluto raccontare  questo episodio per dare conto di cose che accadono nel mondo della cooperazione e non solo quella italiana, perché oggi a distanza di quasi 30 anni non è cambiato nulla. Ancora si mandano in giro persone senza formazione, giovani senza esperienza che spesso rimangono invischiati in storie pericolose e ci lasciano la pelle.

Nella migliore delle ipotesi vengono rapiti da bande che poi richiedono un riscatto oppure  vengono venduti ad altre organizzazioni criminali. Nella peggiore vengono eliminati dopo  essere stati abusati e aver passato le ore più buie della loro esistenza nelle mani di individui che sono la feccia dell’umanità. Mi ricordo che in Mozambico tra coloro che si potevano considerare dei “veterani” nella conoscenza  del paese c’era un detto: la cosa peggiore che ti può capitare è nascere cane o  peggio donna.

 Infatti nell’era post settembre 2001, la situazione della donna straniera nei paesi a prevalenza mussulmana  è andata deteriorandosi progressivamente. Quasi a non voler ammettere questa verità le organizzazioni “pace e bene”, hanno perseverato nell’invio nei paesi a rischio, e quasi  tutti in Africa lo sono, giovani donne inesperte e giovani uomini altrettanto, che sul posto avevano come riferimento del personale autoctono spesso colluso (magari suo malgrado) con organizzazioni terroristiche o bande legate alla  criminalità dedite allo spaccio di droga, al traffico di armi o alla tratta degli schiavi.

Nella seconda settimana di dicembre, lasciammo il Mozambico avendo portato a termine il contratto. L’Ambasciatore   aveva inoltrato la richiesta per il rinnovo della mia missione al Ministero per i prossimi due anni. Partivamo quindi per passare il Natale in Italia nella nostra nuova casa in Umbria, felici di interrompere  temporaneamente questa  seconda esperienza in Mozambico comunque difficile e complicata e concederci qualche settimana di tranquillità lontani dall’ aria di morte che si respirava ovunque. Purtroppo ( o per fortuna, è difficile a dirsi) quando a metà gennaio mi recai a Roma per firmare il nuovo contratto, la longa manu della tangentopoli sulla cooperazione, aveva fatto altre vittime, e questa volta non solo sulle società che lavoravano nell’indotto, ma anche  nei ranghi della pubblica amministrazione. Quindi mi fu detto che c’erano dei problemi (nonostante la richiesta fatta dall’Ambasciatore) per  il rinnovo e di ritornare la settimana seguente. Questo balletto continuò fino a metà aprile quando mi fu comunicato che l’Unità Tecnica dell’ambasciata di Maputo era stata soppressa e che conseguentemente non potevano rinnovare il mio contratto.  Dovendo allontanarci per meno di 30 giorni, avevamo lasciato a Maputo tutte le nostre cose, ma soprattutto Dak che avevo affidato alle cure di una giovane mozambicana che lavorava per noi e che si sarebbe dovuta occupare di lui in nostra assenza. Riuscii a recuperare in qualche modo le nostre cose grazie a degli ex colleghi della CMC che si presero la briga di andare a casa nostra, mettere tutto in due valige e al loro rientro in Italia ce le portarono. Ma non potei fare nulla per il povero Dak….per mesi il pensiero  di quello che avrebbe potuto succedergli ha occupato i miei pensieri, soprattutto perché gli avevo mostrato che si poteva ancora fidare degli uomini ed invece ero stato proprio io a tradirlo.