Il fiume scorreva lento e limaccioso. Le piogge degli ultimi giorni lo avevano gonfiato ed in alcuni punti ricopriva i campi coltivati lungo le sponde. Vacche magre con le ossa del bacino sporgenti e alcune con un solo corno, transitavano pigramente cercando qualcosa da brucare. Alcuni avvoltoi si accanivano su qualche carcassa di una di loro che non ce l’aveva fatta a sopravvivere durante la stagione secca. Un grosso Marabù dall’andatura incerta, aveva scovato una serpe e se la stava gustando, facendo uno strano rumore mentre la spezzava con il becco potente e la ingoiava . Grazie alla pioggia, tutti gli alberi avevano un colore verde smeraldo e grossi frutti selvatici attiravano colonie di uccelli dai mille colori . Le rive del fiume Casamance che dava anche il nome alla regione del sud del Senegal al confine con la Guinea Bissau, erano costellate da piccoli villaggi immersi nel verde lussureggiante tropicale. Ziguinchor, dove eravamo atterrati dopo un volo su un Fokker 100 di Air Senegal, ci aveva accolto con una temperatura vicina ai 36 gradi ed un’umidità del 97%. Era venuto a prendere Cristina, me e Pippo e Cindy, i nostri due inseparabili amici animali, un autista mandato dalla direzione del Progetto Primoca.
Eravamo in viaggio per raggiungere Sedhioù a circa 120km di distanza. Questa volta ero stato assunto da una società di Engineering del gruppo Fiat Impresit, la Nuovo Castoro, che si occupava di progetti integrati nell’Africa subsahariana: strade, agricoltura, formazione, infrastrutture, scuole, centri sanitari, insomma tutto quello che il contribuente italiano paga per aiutare i popoli in via di sviluppo nel grande continente africano, con buona pace di tutto il contorno politico e del terzo settore,che lucra sulla povera gente. Il villaggio di Sedhioù era l’epicentro del progetto, posto sulla riva destra del fiume, circa nella sua parte mediana tra il mare e la sorgente a circa 130 km dall’estuario. Dato che la pendenza è minima, il fiume è soggetto alla risalita della marea e quindi ad una salinità, che soprattutto nella stagione secca diventa drammatica. Il progetto di Primoca era pensato proprio per aiutare le popolazioni della regione duramente colpite col passare degli anni, a sviluppare delle culture resistenti al sale, a proteggere gli appezzamenti agricoli dalla risalita della marea, etc. Almeno questa era la teoria.
Nel progetto erano coinvolti un certo numero di “esperti” di varie discipline, fissi a Sedhioù, più altri che piovevano giù di tanto in tanto per delle brevi missioni: il loro contributo, come vedremo,era “fondamentale”per lo sviluppo del progetto….. Il villaggio situato proprio sul fiume, avrà avuto una popolazione di forse 10 o 12 mila anime, una banca ( costruita e finanziata dalla cooperazione italiana), un mercato, un emporio di proprietà di un belga, sposato con Fatù, affascinante principessa della Casamance di 40 anni più giovane,certo Michel, che serviva a torso nudo da dietro il bancone nel negozio, peloso come un caprone, e dall’odore simile appunto, una farmacia e tante strade in terra rossa polverose e piene di buche. Due generatori da 500 kva ciascuno ( anche loro pagati montati e manutenuti dalla cooperazione italiana),le garantivano l’approvvigionamento elettrico. Insomma dici Sedhiou e pensi alla Farnesina! Eravamo alloggiati in un campo posto al centro del paese, costituito da 8 casette monofamiliari, con giardino e stradine asfaltate, tutto circondato da una recinzione alta un paio di metri. Grandi alberi di mango e eucaliptus garantivano un discreto ombreggiamento. Peccato che sembrava di essere allo zoo! Infatti dentro le gabbie c’eravamo noi e all’esterno c’erano i visitatori che venivano a guardare gli animali. Sicuramente nelle intenzioni del progettista di Primoca, c’era l’anelito di creare una simbiosi tra la popolazione indigena e i bianchi invasori pacifici e portatori di civiltà e di benessere ma il risultato era che quando uscivi di casa venivi immancabilmente fatto segno da parte di coloro che si trovavano all’esterno di grida, lazzi e in qualche caso ( raro) anche di tiro di pietre. Insomma la convivenza sembrava alquanto forzata.
Mi era stata assegnata una grande casa in un angolo del compound che faceva confine appunto con una serie di capanne. Aveva un grande giardino intorno ed era l’ultima in fondo alla strada d’accesso. Nel mezzo c’era un albero di mango alto una decina di metri abitato da tantissimi uccelli . Le abitazioni non avevano recinzioni che le separavano le une dalle altre ma questo non sembrava essere un problema per Pippo e Cindy che comunque, non si allontanavano dal perimetro del giardino. Acquistai delle grandi stuoie di raffia ( lì le chiamavano crentin e servivano come tappeti nelle capanne con il pavimento in terra), e le attaccai tutto intorno sulla recinzione per aumentare un pochino la privacy, anche se sapevo che il progettista non sarebbe stato d’accordo. L’ufficio della società che gestiva il progetto, la Cosvint, si trovava ad un paio di km di distanza, vicino alla riva del fiume, proprio all’estremità est del paese ed era costituito da un paio di costruzioni in muratura ad un solo piano immerse nell’ombra di grandi alberi. Come ho già accennato, il progetto era multidisciplinare e quindi ogni settore faceva capo ad un responsabile (?), che si occupava di portare avanti il suo programma utilizzando delle risorse, delle attrezzature e del personale, che però erano in comune a tutti i settori, spesso entrando in contrasto con gli altri . Da qui la necessità di avere un coordinatore che pensasse al bene comune e non solo al suo orticello e quello avrei dovuto essere io, almeno nelle intenzioni: Responsabile Servizi Generali. La società aveva un responsabile anche a Dakar, una specie di direttore di filiale, un ingegnere che chiameremo Panky, che avevo avuto modo di incontrare durante i tre giorni passati dopo il mio arrivo in attesa di sbrigare alcune formalità. Panky che si era trasferito in Senegal dall’inizio del progetto, era soprattutto un burocrate e il suo incarico era meramente di rappresentanza. Viveva in una villetta in centro con la moglie, due figlie piccole che andavano alla scuola francese, un terrier incazzoso e la sua prosopopea la vedevi arrivare due metri prima che arrivasse lui.. Nell’ufficio di Dakar c’era un addetto agli acquisti, un ragazzo triestino sui 35 anni, simpatico e collaborativo. Guidotti era innamorato delle ragazze di colore e passava tutto il suo tempo libero a darsi da fare sessualmente, a tal punto che aveva inventato una tecnica di profilassi a base di profumo che lui diceva lo avrebbe protetto dalle malattie veneree e financo dall’Aids! A Sedhioù, quasi tutti i miei colleghi, si erano fatti seguire dalla famiglia e d’altronde a meno di fare il monaco buddista, o meditazione Zen, al di fuori del lavoro non v’era altro da fare quindi era giocoforza. Le povere signore, precipitate in quell’ambiente, cercavano di fare di tutto per riempire le loro giornate che iniziavano quando il marito usciva al mattino presto e spesso rientrava solo la sera tardi, oppure nella migliore delle ipotesi faceva un salto a casa per mangiare un boccone alle 12. Io portavo Cristina in ufficio e mi facevo dare una mano a smistare le chiamate alla radio vhf con la quale eravamo tutti collegati, cosicché non rimaneva da sola ad aspettarmi. C’era un ingegnere veneto, sulla sessantina, che si occupava delle infrastrutture, quindi della manutenzione delle strade, che girava in perfetta tenuta alla Indiana Jones, anfibi, coltello da caccia alla cintura e cappello di pelle con la tesa rivoltata all’insù come un ranger australiano. Monby, così lo chiameremo, si era accoppiato con una segretaria degli uffici di Primoca ben più giovane di lui e ci teneva a mostrare la sua conquista visto che se la portava sempre appresso come una scimmietta ammaestrata. C’era poi Missix un geometra contabile che si occupava del rifacimento della strada che da Sedhioù portava a Marsassoum, lavori eseguiti da una ditta italosenegalese diretta da un italiano grande paraculo, che aveva trovato nella cooperazione italiana la gallina dalle uova d’oro. Missix era fondamentalmente un brav’uomo, ed era accompagnato in questa sua avventura dalla moglie Ambra, Ambretta per gli amici. La coppia over 55, collaudata da altri lunghi periodi in altri posti di merda in Africa, viveva nella prima casetta dopo l’entrata nel compound proprio a fianco di Monby, con il quale avevano l’abitudine di prendere un aperitivo la sera prima di cena a suon di caipirinha ragion per cui dopo alcuni bicchieri, il tono della voce saliva di volume e i quattro finivano la serata cogli occhi lucidi e mezzi brilli. C’era poi Pesky, il trucido, un ingegnere idraulico che si occupava di forare pozzi in mezzo alla savana. Lui era venuto da solo e non si era accompagnato con principesse locali, era scontroso come un bufalo e antipatico come un mal di denti. Quando ero costretto a relazionarmi con lui mi dovevo armare di santa pazienza e lasciar correre. Il settore agricoltura era gestito da un toscanaccio di nome Banchi; era in Senegal per guadagnarsi di che pagare il mutuo di casa e sostenere un figlio disabile che era restato in Italia con la moglie. Mi aveva fatto conoscere Mauri, il capo officina della Cosvint, che si occupava della manutenzione di tutto il parco macchine agricole e movimento terra, un friulano taciturno lavoratore indefesso molto affidabile. Al mio fianco, avevo fatto venire , come responsabile amministrativo, un caro amico che aveva condiviso con me la Libia. Di formazione infermiere, Sbrana, aveva lavorato tanti anni in ospedale e poi aveva dovuto smettere perché si era beccato un epatite C che lo aveva costretto a prendere un pensionamento anticipato. Quando lo avevo portato in Libia era senza lavoro e mi era stato molto riconoscente. Abbandonò la S.I.I. quando io fui costretto a dare le dimissioni e quindi, immaginando peraltro che la situazione sanitaria a Sedhioù non sarebbe stata delle migliori, proposi la sua assunzione come amministrativo alla Cosvint. La sua presenza a Sedhioù, poi si rivelò fondamentale