LO SCARICATORE

Il colore del cielo era scuro e minaccioso, nuvoloni carichi d’acqua si stagliavano all’orizzonte e un vento teso faceva vibrare il telone della Land Rover che stavo guidando lungo la pista di un paio di  km che separava il campo dal cantiere della diga. Gli uffici si trovavano su una collinetta che sovrastava la valle dell’Umbeluzi, il fiume che l’opera di presa doveva imbragare per creare il bacino artificiale a valle. Era stato deviato il suo corso per permettere di creare lo” scaricatore”, un opera in calcestruzzo con le paratie per regolare il deflusso del fiume nel bacino. Spalle alla sorgente del fiume quindi, il campo si trovava in riva sinistra e gli uffici in riva destra. Dalla finestra del mio ufficio si vedeva  crescere  il rilevato d’argilla che metro su metro veniva riempito da materiale idoneo che costipato da rulli e mezzi speciali sarebbe diventato totalmente impermeabile.

In riva sinistra si trovava il cuore del cantiere e cioè l’enorme officina con tutti i mezzi d’opera che di notte e di giorno, riempivano con il boato dei loro cavalli diesel la valle. Le enormi scavatrici Cat 966 impalavano terra dalle cave e caricavano i dumper Astra  che a un ritmo di 2 ogni 7 minuti portavano il materiale sul rilevato. Di sera, quando cambiava il turno, gli autisti depositavano il mezzo nell’ enorme  piazzale di fronte all’officina e i meccanici si occupavano della manutenzione.

 Visto dall’alto dell’elicottero sul quale sono salito alcune volte per recarmi a Maputo, sembrava un grande formicaio con lo scaricatore che, modulo dopo modulo , veniva su con i suoi contrafforti sui quali dovevano essere montate le paratie stagne. Il lavoro forse più delicato dell’opera, probabilmente ,onsisteva proprio nei getti di calcestruzzo che strato su strato   completavano i vari moduli. Infatti era molto importante per la omogeneità del manufatto che il getto di calcestruzzo andasse a posarsi sopra quello precedente su una superficie perfettamente pulita e pronta per  aderire a quella  inferiore. Per fare ciò si utilizzava una pompa ad altissima pressione che sparava acqua sulla superficie. La lancia era tenuta da tre uomini che ne dirigevano il getto. Detto così potrebbe sembrare un lavoro facile, ma se consideriamo che la lama d’acqua che usciva dagli ugelli avrebbe potuto tagliare in un istante una gamba o un braccio o la testa di chiunque si fosse trovato nella traiettoria per sua sfortuna, ecco che questo lavoro,soprattutto quando eseguito la notte, pur con l’ausilio di potentissimi proiettori che illuminavano la zona a giorno, diventava particolarmente pericoloso. E fu infatti così che mi trovai una notte a partecipare ad un episodio che se da un lato poteva sembrare comico, dall’altro non lo era affatto. Erano passate da poco le 22 e sul modulo che si stava costruendo dovevamo gettare lo strato successivo. I tre operai mozambicani addetti alla pulizia del getto inferiore avevano afferrato la lancia che aveva tre manici, uno per addetto, e avevano iniziato l’operazione da qualche minuto, quando all’improvviso,  senza una ragione apparente, uno degli operai ha perso l’equilibrio e gli altri due non sono riusciti a tenere la lancia.

Come un serpente imbizzarrito, il tubo  da 2 pollici  in polietilene rinforzato con l’estremità fornita di   tubo d’acciaio ha iniziato a librarsi per aria agitandosi  fino ad un’altezza di una decina di metri,scaricando tutta la potenza del compressore  con getti d’acqua taglienti come rasoi. Immediatamente il  fuggi fuggi generale degli operai  che scappavano in tutte le direzioni per sottrarsi al pericolo  incombente.  Visto da dove mi trovavo a circa 20 metri di distanza, questo episodio poteva sembrare comico. Fortunatamente l’assistente italiano responsabile dei getti, in  una  dozzina di secondi aveva raggiunto il compressore e chiuso la manichetta dell’aria, per cui non ci  furono né danni né feriti o peggio.  Devo dire che nel corso della mia permanenza ho avuto modo di apprezzare la capacità operativa degli assistenti e la loro alta professionalità. Ma forse in assoluto l’assistente che faceva il lavoro più difficile e allo stesso tempo fondamentale, era il gruista.

Non so se siete mai saliti nella cabina di comando di   una gru a traliccio alta 50 mt. Visto da lassù quanto avviene in basso è simile a  quello che un essere umano vede quando guarda le formiche ai suoi piedi. I getti del calcestruzzo, man mano che i moduli crescevano in altezza, venivano effettuati con il secchione da 2 mc. L’autobetoniera posta alla base del modulo scaricava il contenuto nel recipiente, il secchione appunto, e il gruista depositava su in alto, dove era necessario il  contenuto. Piccoli uomini muniti di casco giallo e stivali di gomma afferravano il pesante attrezzo e procedevano a scaricare il contenuto: nella cabina della gru, l’operatore, di notte con i proiettori che  illuminavano la zona ma  comunque con tante  zone d’ombra, valutava metro per metro,centimetro per centimetro, dove spostare il pesantissimo secchione, senza danneggiare gli operai sotto di lui, i piccoli uomini, appunto. La tensione di quei momenti è vivissima nei ricordi del mio collega che a tanti anni di distanza, ancora oggi non si dà pace per quanto accadde una notte di febbraio del 1985. Erano da poco passate le  tre e il turno stava per finire. Si procedeva al getto di un modulo che era particolarmente complicato in quanto aveva una forma irregolare e bisognava prestare la massima attenzione nello scaricare il calcestruzzo per evitare complicazioni. Proprio per questo un assistente era salito sul modulo 5,  in alto dove si gettava, insieme agli operai per dirigere le operazioni di scarico e  dare istruzioni. Fu un istante: il secchione arrivò dal lato sinistro ma il’ tecnico, accecato dai fari, non riuscì ad evitare l’impatto con il pesante attrezzo. Fu colpito alla schiena e sbalzato a pochi metri di distanza. Portato a braccia alla base del modulo,  lo caricammo su un auto che in pochi minuti lo portò al campo dove già attendeva  l’elicottero con il motore acceso. Fu trasportato in ospedale a Nelspruit, in Sudafrica con un volo notturno d’emergenza. Il rischio era altissimo perché di notte l’elicottero poteva essere preso di mira dalle milizie ed abbattuto ma non avevamo scelta. Fortunatamente il poveretto riuscì a cavarsela ma ebbe delle conseguenze  che lo costrinsero, una volta guarito,  a non poter più lavorare.