Le cantaridi

L’aria più fresca della notte invitava a tenere i finestrini del Toyota Landcruiser aperti. I due operai italiani che viaggiavano in direzione di Sedhioù pensavano alla  bella birra ghiacciata che li attendeva quando fossero arrivati alla “Palmeraie” uno pseudo  hotel restaurant bar sito nella parte bassa del villaggio vicino al fiume. Avevano finito di stendere l’ultimo tratto di calce nella massicciata della strada che la cooperazione italiana stava costruendo verso Marsassoum e l’indomani avrebbero proceduto a mischiarla con il rilevato. Facevano parte dell’impresa italo senegalese  che aveva vinto l’appalto dei lavori. Mario e Davide erano entrambi di Forlì ma ormai vivevano in Senegal da 4 anni. Sulla quarantina, capelli lunghi, aspetto cotto dal sole, barba incolta, erano esausti dopo una giornata passata  sulla strada a dirigere gli operai senegalesi della loro squadra. Mario guidava ormai da 45 minuti il tempo necessario a raggiungere Sedhioù dove avevano posizionato il campo base con i containers climatizzati dove dormivano.  La sera precedente mentre tornavano erano incappati in un classico acquazzone tropicale e  sui lati della strada erano presenti numerosi acquitrini. Improvvisamente sul parabrezza cominciarono a schiantarsi dei grossi coleotteri e alcuni urtarono anche sugli avambracci dei due appoggiati sullo sportello. I due uomini tirarono su i finestrini a malincuore visto che l’aria condizionata della vettura non funzionava granché. Indossavano delle canottiere e quindi avevano una considerevole parte di pelle esposta, braccia, ascelle, petto. Alcuni  insetti però, malgrado che i due avessero tempestivamente sollevato i finestrini, erano atterrati sullo schienale dei sedili. Mario che era al volante, sapeva perfettamente  cosa  erano quegli insetti ma non si era accorto che alcuni si erano posati proprio sotto il poggiatesta ed erano scesi verso il basso. Anche Davide, perfettamente conscio del pericolo, si era  rapidamente infilato una camicia che però era appesa al gancio della cintura di sicurezza   e quindi aveva fornito un eccellente campo di atterraggio ai coleotteri. Appoggiandosi ai sedili i due disgraziati avevano compresso le elitre degli insetti che immediatamente avevano rilasciato la cantaridina un acido potentissimo che in pochi istanti li aveva ustionati producendo delle pustole piene di liquido. Gli insetti infatti erano delle cantaridi, Lytta vesicatoria o mosca spagnola, che in seguito all’inizio della stagione delle piogge avevano iniziato la fase di riproduzione. Appoggiate sugli arbusti lungo la massicciata della strada, disturbate dai fari dell’auto, si erano levate in volo colpendo come proiettili la carrozzeria ed entrando dai finestrini.  Tirando giù tutti i santi del paradiso i due uomini arrivarono al  centro del  villaggio e si diressero dove c’era la sede della nostra società dove abitava anche Lionello Sbrana, l’unico che  avrebbe potuto aiutarli. Una lunga frenata sulla breccia   e il  clakson che suonava a tutto spiano tirarono giù dal letto gli espatriati che stavano già dormendo. Mario e Davide si spogliarono in mezzo alla strada tirandosi via le canottiere piene di cantaridi spiaccicate. Il problema era che  grattandosi per ,cercare di tirar via gli insetti   avevano rotto le pustole dalle quali era fuoriuscito un liquido che aveva continuato ad ustionare il loro corpo.  La schiena, il collo, le braccia ed anche il petto erano completamente infiammati ed ulcerati . I due poveracci erano in preda al panico. Quando Lionello li vide in quello stato, procedette a fargli subito una dose di cortisone e li fece sdraiare su due brande all’interno della casa dove rimasero passando il resto della notte sotto il  suo controllo.  L’indomani furono trasportati a Ziguinchor per essere evacuati su Dakar.

Questo episodio drammatico, purtroppo si riprodusse svariate volte con altri sfigati che incapparono loro malgrado nelle cantaridi. In effetti anche io avevo rischiato una sera di fare una brutta fine. All’interno del compound dove risiedevamo, c’erano delle siepi che contornavano i giardini per separare le singole casette. Si trattava di cespugli che i giardinieri avevano modellato perché fossero rettangolari. Come ho detto la mia casa si trovava all’estremità del campo ed era l’ultima che confinava con il villaggio circostante. Un lampione molto potente era situato all’imbocco del sentiero che portava dal parcheggio alla porta dell’abitazione. A limitare il mio giardino quindi, c’erano delle siepi alte circa un metro . Una sera tornando sul tardi dopo essere andati a cena da uno dei colleghi, Cristina ed io parcheggiammo l’auto sotto il lampione e ci accingemmo ad uscire. Sopra di noi a circa 6 metri di altezza, intorno alla lampada alogena bianchissima, nugoli di insetti volteggiavano con ronzii e sbattimenti di ali. Un vago odore di carne alla brace proveniva da quelli che si erano avvicinati troppo.  Chiusi il finestrino e aprii lo sportello che spalancandosi andò ad urtare contro la siepe. Immediatamente uno sciame di cantaridi si levò in volo. Non avevamo notato che le siepi erano completamente ricoperte dagli insetti. Afferrai la maniglia  e richiusi immediatamente la porta schiacciando alcuni  insettoni contro il telaio. Altri erano penetrati e si erano posati sul cruscotto ed alcuni sulla gonna di Cristina. “Non ti muovere! Non fare nulla! “ gridai!  Bisogna dire che Cristina non era proprio un amante degli insetti, anzi ne aveva il terrore quindi la supplicai di chiudere gli occhi e di  stare immobile. Lentamente accesi la luce di cortesia per cercare di individuare quanti insetti fossero entrati e dove fossero posizionati. Fortunatamente sembrava che ce ne fossero solo 8, due sulle gambe di Cristina, tre sulla mia manica sinistra, e tre sul cruscotto. Le cantaridi evidentemente sono insetti diurni e quindi la notte non si muovono volentieri a meno che non siano disturbati.

Da sotto il sedile tirai fuori i guanti da lavoro che usavo nel caso avessi avuto bisogno di smontare una ruota, li indossai con estrema lentezza e poi iniziai ad afferrare le cantaridi ed a schiacciarle   cominciando con quelle atterrate su Cristina paralizzata.  Una dopo l’altra le eliminai tutte e sfilandomi i guanti pieni di pericolosissima cantaridina, li gettai sul pavimento dell’auto. A quel punto bisognava uscire. Spostai l’auto in mezzo alla strada, lontano dalle  siepi e aprimmo gli sportelli con grande cautela. Il tetto e il cofano erano pieni di insetti ma sembravano fermi senza alcuna intenzione di decollare. Accostammo le portiere senza sbatterle e in fila indiana ci dirigemmo verso la porta di casa. Passando lungo il sentiero potemmo scorgere le siepi completamente ricoperte. Con il riflesso del lampione le elitre  luccicavano e davano l’impressione di un onda luminosa che si muoveva dolcemente sugli arbusti mossi dal vento. Entrati in casa tirammo un sospiro di sollievo; eravamo rimasti col fiato sospeso per tutto il tempo che era stato necessario per rientrare al sicuro.

Al mattino non v’era più traccia delle cantaridi ma ormai avevamo imparato la lezione e non ci saremmo più trovati in quelle circostanze.

Quando in dicembre lasciammo il Senegal per rientrare in Italia decidemmo di sperimentare un modo differente di raggiungere Dakar: prendere il traghetto a Ziguinchor e risalire così il Casamance fino alla foce per poi procedere  lungo costa verso nord . Il viaggio durava circa 15 ore, avevamo a disposizione una cabina e la navigazione fu estremamente piacevole. Lingue di sabbia emergevano lungo il corso del fiume, indice che era iniziata la bassa marea. Frotte di cormorani appollaiati con le ali aperte al vento per asciugarsi dopo le immersioni, sembravano salutarci.  Il traghetto partito verso le 17 sarebbe arrivato a Dakar alle 8 del mattino seguente e quindi ci predisponemmo a passare la notte. Dopo aver messo qualcosa sotto i denti, rigorosamente preparata prima di partire, ci  sedemmo su una panchina posta sul ponte lato destro per guardare la costa. Dapprima il traghetto, dopo aver lasciato l’estuario del Casamance,   viaggiò   a poche centinaia di metri dalla terraferma. Si scorgevano i villaggi illuminati di Boune e di Kafountine dove eravamo andati a pesca tante volte. Poi più tardi in lontananza  passammo davanti a Banjoul, la città più importante del Gambia . In quell’occasione due motovedette  si affiancarono al traghetto  per scortarlo per alcune miglia, evidentemente perché c’erano stati degli episodi di pirateria nei mesi precedenti. Purtroppo quando arrivammo di fronte alle acque del Parco Nazionale del delta del Saloum, era ormai buio pesto. L’arrivo a Dakar fu puntuale. Prendemmo una camera all’Hotel Independence dove eravamo soliti andare quando salivamo a Dakar. Il nostro volo era l’indomani mattina. Quella sera ci godemmo una serata di relax dopo  un periodo difficile passato a Sedhioù durante il quale mi ero trovato ai ferri corti con la direzione ragion per cui avevo preferito dare le dimissioni anticipatamente rispetto alla scadenza del contratto .  Lasciati i nostri due amici a quattro zampe, tranquilli, nella stanza dell’hotel, ci recammo in un ristorante dove si mangiava un piatto fenomenale: le merou au sel cioè la cernia in crosta di sale, una squisitezza. Volevo lasciare il Senegal con un bel ricordo e così fu.