Nel buio rischiarato da qualche lampione piegato dal peso di miriadi di fili telefonici e cavi elettrici appesi in qualche modo, con una temperatura che rasentava i 28 gradi, mi dirigevo fuori dal campo per la mia corsa mattutina.
Erano le 5 ed era l’unico momento della giornata in cui era possibile fare un po’ di movimento all’aperto. Avevo preso l’abitudine di fare il giro di Sedhioù , un circuito di circa 4 o 5 km, per cercare di tenere il fisico in esercizio, anche perché il resto del tempo ci si spostava sempre in auto. La strada a tratti in terra battuta con un sacco di buche ed a tratti asfaltata in condizioni pietose, faceva sembrare la mia corsa un giro punitivo; temperatura alta, umidità che rasentava il 99%, insetti che mi rimbalzavano sulla fronte, qualche cagnastro che al mio passaggio si accodava sperando in un mio gesto di amicizia. Il buio era pesante rischiarato qui e là da sporadiche luci; il percorso mi conduceva in discesa verso il fiume passando davanti alla centrale elettrica e poi sempre più verso la parte bassa del villaggio, davanti alla banca, al mercato , per poi correre lungo la strada che portava al “bac”, il traghetto tra le due sponde, sempre in panne, che funzionava un giorno no e l’altro pure. Durante la corsa avevo modo di vedere un mondo nascosto ai più e mi riferisco agli stranieri che vivevano come me a Sedhioù. Una natura che dirompente si svegliava lentamente all’arrivo del primo chiarore in lontananza verso Est, gli odori forti del fiume che spesso lasciava delle grandi pozze di acqua salmastra che risalivano durante l’alta marea lungo rigagnoli che si addentravano tra le capanne diventando inevitabilmente gli scarichi delle acque reflue del villaggio : delle fogne a cielo aperto….un paradiso per la bilarsia !
A me non piaceva restare confinato tra le quattro mura del compound senza rendermi conto di ciò che mi circondava, per cui la corsa del mattino era un modo di conoscere delle realtà di quel luogo nel quale eravamo venuti a portare “sviluppo”. A Primoca lavoravano svariati esperti pagati profumatamente dalla cooperazione italiana. Uno degli obiettivi che il progetto voleva implementare era quello di sviluppare l’allevamento dei bovini in mezzo alla giungla della Casamance, per produrre formaggio, o meglio mozzarella. Avete letto bene, MOZZARELLA. Il progetto consisteva nella raccolta del latte prodotto da parte di vacche di razze autoctone ( ricordate all’inizio che avevo parlato di povere bestie magre e in pessime condizioni) che doveva essere ritirato non appena munto e posto in contenitori refrigerati forniti ai pastori ( ghiacciaie con i classici panetti precongelati ) che poi dovevano essere trasportati dallo stesso pastore, in un luogo che era stato costruito nel bel mezzo del nulla, dove “ esperti caciari” venuti dall’Italia, pagati a suon di bigliettoni, avrebbero provveduto a trasformare il prezioso liquido in ottima e filante mozzarella ed ad insegnare al nostro bravo Mamadou il pastore appunto, come fare per imparare un mestiere che sicuramente lo avrebbe sottratto alle tenaglie del sottosviluppo facendolo diventare un imprenditore di successo. Nel corso del periodo che ho passato laggiù, ho dovuto tapparmi la bocca in tantissime occasioni, sia con i responsabili locali che adeguatamente unti dalla nostra cooperazione attraverso viaggi, regalie, e quant’altro, spingevano per l’implementazione di questa e altre pazzie, sia con i miei diretti superiori che puntualmente venivano “in missione” a Sedhioù per controllare che tutto filasse liscio e non vi fossero intoppi per il prosieguo delle attività. Era palpabile come nelle riunioni ci fosse una reciproca connivenza tra le istituzioni senegalesi e i tecnici inviati dall’Italia, secondo un registro scrupoloso di mesi-uomo da coprire per onorare il budget del progetto.
E così, andando a vedere l’organigramma, ci si accorgeva che per esempio, il 15 di luglio era prevista la messa in produzione del cacioricotta e quindi era necessario l’arrivo dell’esperto di turno per una settimana. E quindi i cooperanti italiani preposti a questo scopo andavano in fibrillazione perché il povero Mamadou non aveva ancora portato latte a sufficienza e si rischiava di non riuscire a inviare all’ambasciata italiana di Dakar il rinomato cacio prodotto nella giungla della Casamance. Panky non sarebbe stato contento! e il feed back sulle loro capacità sarebbe stato negativo. Tutto ciò per dire che si respirava un’atmosfera che definirla tossica sarebbe più che appropriato. D’altro canto però il carrozzone camminava, pesantemente, tra scossoni, ma andava avanti e tutti comunque ne traevano beneficio. Gli stipendi venivano pagati regolarmente, le missioni venivano retribuite, magari ai più simpatici si cercava di farli venire qualche volta in più, insomma tutto scorreva tranquillamente come il fiume Casamance. Nella mia corsa mattutina nel frattempo avevo risalito il lato est del villaggio passando per piantagioni di banane e di manioca e il cielo ormai iniziava vistosamente a schiarirsi. Venere brillava come non mai in un cielo terso e limpido e l’ultimo quarto della luna calante l’accompagnava verso l’orizzonte. Fortunatamente i miei compiti non avevano nulla a che spartire con quanto sopra riportato e quindi il mio unico sforzo consisteva solo nel tenere la bocca cucita e mantenere per quanto possibile un atteggiamento politically correct. Sfortunatamente mi fu chiesto di andare a Dakar a portare il prodotto finito , cioè mozzarella,cacioricotta, etc. alla filiale affinché fosse pronto ad essere degustato il giorno 2 giugno in Ambasciata, festa della Repubblica. Quindi la mattina del primo giugno alle 5, invece di fare la mia corsa quotidiana, mi apprestai a iniziare la traversata di circa 400 km che separavano Sedhiou da Dakar. Il tragitto si snodava lungo strade in cattivo stato attraverso zone tropicali ed altre desertiche. Il mio fuoristrada, un vecchio Nissan Patrol che aveva conosciuto tempi migliori, non aveva l’aria condizionata quindi una volta lasciataci alle spalle la zona più “fresca” della Casamance , entrammo nel tunnel del vento rovente del Gambia. Pur essendo uno stato a sé, il Gambia permetteva il passaggio attraverso il suo territorio senza dover mostrare il passaporto o altri documenti. Bisognava passare sul fiume attraverso un lungo ponte sul quale spesso il senso di marcia era alternato e comunque la velocità era ridotta quasi a zero a causa dell’enorme quantità di automezzi, soprattutto camion carichi di merci e persone, che convergevano dalla Guinea Conakry, dalla Serria Leone,e dalla Liberia, nell’unico punto di passaggio situato appunto sul Senegambia Bridge, lungo la Trans Gambia Highway. Un’ umanità molto colorata faceva da sfondo su entrambe le sezioni del ponte, dai venditori di frutta, che praticamente ti infilavano le banane dentro l’abitacolo della vettura, ad altissime figure femminili con pile di tessuto dai mille colori, appoggiate sul capo che vantando un equilibrio unico si aggiravano in mezzo ai veicoli per vendere la loro merce. Poi c’erano le bancarelle di quelli che vendevano il pesce secco, spesso unica fonte di proteine per gli abitanti del luogo, e di quelli che friggevano deliziosi dolcetti con una pastella dal colore improbabile, in un olio che scommetterei era lo stesso utilizzato quando i mercanti di schiavi nel 1700 percorrevano lo stesso cammino che stavamo facendo noi, per portare la loro merce umana a Gorée ed imbarcarla per le Americhe.
Prima tappa con sosta del viaggio, dopo aver passato l’incubo del Gambia, era Kaolak, un’ amena cittadina posta a circa 200 km da Dakar, dove ci fermammo presso l’hotel de Paris per una birra ghiacciata e acquistare dei panetti di ghiaccio da mettere nei contenitori della mozzarella. Il tono leggermente retrò coloniale della sala dell’albergo con tendaggi sdruciti e tovaglie dal colore sospetto, non ci suggerirono di conoscere il menu dello chef, per cui dopo la birra risalimmo sul Patrol e iniziammo l’ultimo tratto verso Dakar, che a quel punto sembrava un lontano miraggio.
In quel tratto la strada passa per zone semidesertiche e l’asfalto a tratti semisquagliato dall’enorme calore, assume l’aspetto della tolle ondulée facendo sobbalzare l’auto come un canguro. Pensavo mentre guidavo che forse lo scuotimento avrebbe potuto modificare la consistenza dei formaggi e vanificare il grande lavoro di Mamadou e soci. Immaginavo anche la faccia di Panky che si sarebbe trovato a giustificare di fronte all’ambasciatore l’indomani festa della Repubblica Italiana, la scarsa qualità del cacio made in Casamance nonostante l’enormità del suo costo al kg. Verso le 3 del pomeriggio arrivammo a destinazione e scaricammo il prezioso carico in filiale. Guiducci ,che per l’occasione non era andato in caccia di femmine senegalesi, prese in carico le ghiacciaie. Il giorno dopo non mi volli perdere la festa in ambasciata.. Ricevimento con tutti i crismi in onore della mozzarella: per l’occasione ci fu la famosa “danza del ventilatore” eseguita dal corpo di ballo delle soubrettes senegalesi che circolavano nell’ambito dell’ambasciata ( con grande gioia di Guiducci che per l’occasione fungeva da maggiordomo) . I suonatori muniti di tablà e percussioni varie si sistemarono nel cortile e le supercolorate danzatrici entrarono lungo una passerella costruita all’uopo. Ad un cenno di Guiducci iniziò il rullo dei tamburi e le giovani cominciarono ad agitarsi muovendo la parte posteriore del corpo in senso rotatorio a velocità supersonica. Quando cambiava il ritmo la rotazione si disponeva in senso antiorario. Insomma una festa meravigliosa in cui si fondevano l’anima folk del Senegal con quella caciara della Cooperazione Italiana, il tutto condito con il roteare dei glutei delle belle giovani danzatrici. Questo ed altro avveniva laggiù vicino al Tropico della mozzarella.