Erano passati alcuni mesi dal nostro arrivo a Nosy Be e purtroppo lo spirito che mi aveva sostenuto i primi tempi, cominciava a dare segni di stanchezza. Il modo di lavorare di mio cugino ed il mio non erano proprio compatibili. Lui, probabilmente perché aveva dovuto adattarsi alla realtà locale cedendo a molti compromessi, non riusciva a capire il mio modo di relazionarmi con i locali dai quali pretendevo il massimo della collaborazione e coinvolgimento nell’attività. Invece, vuoi perché il paese era vittima di un governo improntato al socialismo scientifico e quindi alla negazione dell’imprenditorialità, vuoi perché il carattere dei malgasci non è poi molto incline alla meritocrazia, l’albergo di mio cugino funzionava come un ufficio statale dove i dipendenti timbravano il cartellino arrivando al mattino e si imboscavano in qualche camera durante l’orario di lavoro, per riapparire all’ora di pranzo ed andare a fare un pisolino subito dopo sotto qualche palma. Durante un periodo di assenza di mio cugino e di sua moglie che erano andati ad Antananarivo, mi ero dovuto confrontare personalmente con questo tipo di problemi e la mia reazione era stata feroce.
Avevo cazziato la bella Jacqueline che avevo sorpreso durante l’orario di lavoro in cucina a fare la scema col cuoco invece di stare in sala a servire i clienti. Avevo preteso che Louis,il cuoco per l’appunto, ripulisse da cima a fondo la cucina tutti i santi giorni dopo aver servito le pietanze. Avevo preso a pedate alcuni dei marinai nelle imbarcazioni, sorpresi a dormire dentro la stiva invece di fare il loro lavoro e dulcis in fundo avevo scosso il povero Ratsiraka chiedendogli di accelerare il ritmo invece di prendersi una pausa ogni 10 minuti. Ma soprattutto avevo sconvolto il modo di vivere di Marcel, il contabile che con la scusa di andare in banca o a fare acquisti, spariva per mezza giornata per andare invece a farsi i fatti suoi. Mi ero infatti materializzato nel villaggio alle sue spalle, dopo averlo seguito per circa un’ora per controllare cosa facesse. Dopo avergli fatto un resoconto di tutto il tempo che aveva perso durante la mattinata invece di occuparsi del suo lavoro, avevamo avuto un alterco piuttosto brusco. Lui aveva minacciato di dire tutto a Paolo al suo ritorno da Antananarivo sostenendo che non era quello il modo di lavorare e che piuttosto si sarebbe licenziato. (il che era impossibile in quanto lui era il socio malgascio di mio cugino che per legge doveva avere per aprire un’attività in Madagascar).
Quindi una settimana dopo c’era la fila davanti all’ufficio di Paolo di tutti quelli che volevano lamentarsi di quanto io fossi cattivo e li avessi maltrattati nel corso delle ultime settimane. Insomma questi episodi misero la parola fine al mio/nostro coinvolgimento nella gestione dell’albergo. Mi sarei occupato d’ora in poi solo della commercializzazione dei gamberi e dei granchi. La cosa in fondo non mi dispiaceva anche perché non mi sentivo particolarmente portato nella gestione dei clienti ai quali molto spesso, a causa del loro comportamento assolutamente non in linea con il mio modo di vedere le cose, della serie :“ pago quindi posso fare tutto con tutti e non me ne frega un cazzo di niente e di nessuno”, mi veniva voglia di mettere le mani addosso. Quindi per evitare spiacevoli incidenti, avevo di buon grado confermato il mio interesse ad occuparmi di Sealab. Avrei continuato a fare la manutenzione delle imbarcazioni al “Cratère” ed a recarmi nei villaggi sulla costa e sulle isole dell’arcipelago per cercare nuovi fornitori di granchi e gamberi.
La casetta che avevamo trovato ad alcuni km da Ambatoloaka era il nostro rifugio. Quando la sera tornando dal mare dopo una giornata passata in barca e a marciare nell’interno della regione a cercare villaggi e a fare discussioni infinite per stabilire un prezzo di vendita, riuscivamo ad arrivare in tempo per il tramonto, tutta la fatica e la stanchezza accumulata, sparivano . Un isolotto a circa 300 mt a largo era raggiungibile con la bassa marea camminando sulla barriera corallina. Da queste passeggiate riportavamo conchiglie stupende, e assaporavamo quegli attimi di felicità totale, ben consci che purtroppo non sarebbe durato per sempre. Infatti casualmente avevo conosciuto il proprietario del residence dell’amico di Paolo dal quale lui era andato a lavorare all’inizio della sua avventura malgascia ed ero venuto a conoscenza di alcuni problemi finanziari nei quali si trovava coinvolto mio cugino. Probabilmente a causa del fatto che aveva voluto fare troppe cose contemporaneamente, era molto esposto in banca .. In effetti da quando ero arrivato a Nosy Be, 6 mesi prima, io non avevo ricevuto neanche un centesimo per il mio lavoro, ma avevo attribuito questa mancanza al fatto che magari Paolo volesse prima mettermi alla prova. Avevamo fatto lunghi discorsi nei quali mi aveva manifestato la sua intenzione di costruire una casa tutta per noi e mi aveva prospettato l’apertura di un altro resort a Nosy Komba dove già aveva iniziato a fare alcuni lavori di preparazione. Lui era sicuramente sincero nelle sue intenzioni e non pensava sicuramente di fregarmi in alcun modo ma purtroppo l’ esperienza che avevo maturato nel corso degli anni passati in Africa confrontandomi con realtà e uomini di ogni tipo, mi suggeriva di non proseguire questa esperienza, di fermarmi prima di esserne coinvolto troppo magari in modo irreparabile. Inoltre il deterioramento del rapporto tra sua moglie e Cristina costituiva un impedimento ulteriore alla continuazione dell’esperienza malgascia.
Avremmo dovuto essere un team coeso e spingere tutti nella stessa direzione e quindi io avrei dovuto essere messo al corrente della situazione patrimoniale dell’impresa in modo tale da decidere se e come farne parte. In realtà Paolo avrebbe dovuto parlarmene quando ero volato in Madagascar la prima volta, lasciandomi poi la possibilità di decidere se mi conveniva o no, fare il grande salto. Invece così il salto l’avevo fatto ma al buio.
I raggi del sole al tramonto si riflettevano sui cristalli di sabbia umida e sulle pozze di marea di fronte al giardino della casa. Cristina aveva acceso un piccolo barbeque sul quale arrostivano sei magnifici gamberoni che avremmo mangiato con l’aggiunta di riso. Una bottiglia di blanc de blanc ben ghiacciato sarebbe servito a brindare ad un sogno che purtroppo stava svanendo. Sulla battigia tirata in secco e appoggiata sul bilanciere, giaceva la piroga che avevo regalato a Cristina con la quale eravamo usciti per mare tante volte. Di solito le piroghe dei locali sono scavate nel tronco di un albero e lasciate grezze. Cristina aveva voluto pitturarla di rosso e di bianco e tante volte tornando a casa l’avevo trovata intenta a rifinirla nei dettagli: ne aveva fatto un piccolo capolavoro di piroga invidiata da tutti i bambini, i bambini di Paul Renè ,il nostro padrone di casa, che ci facevano sempre compagnia. Quella sera, dopo aver cenato, eravamo in procinto di andare a dormire quando sentimmo degli strani rumori provenire da dietro la casa. Dei guaiti e dei suoni gutturali come quelli di un animale in difficoltà. Uscimmo all’aperto e arrivati in prossimità del muro posteriore vedemmo un bimbetto di 4 o 5 anni con in braccio un cucciolotto di cane di pochi mesi. Per terra di fronte, un piccolo batuffolo biancastro indefinibile. Mi chinai e sentii che il suono proveniva da quel batuffolo. Lo afferrai con circospezione e mi resi conto che si trattava di un pulcino di qualche specie di uccello tropicale. Era praticamente implume e con un sacco di vegetazione, piume, sporcizia che si era arrotolata impigliandosi sulle protuberanze cheratinose che in futuro avrebbero dato luogo alle piume e poi alle penne: in pratica un mostriciattolo con un testone, un grande becco, una pancia voluminosa, sintomo che aveva mangiato da poco, caduto da qualche nido . Lo portammo subito in casa, lo ripulimmo e poi ci cominciammo a domandare cosa farne, visto che avevamo prenotato il volo per lasciare Nosy Be e il Madagascar. per la settimana successiva. Il pulcinone strillava come un aquila e spalancava il becco ogni volta che uno di noi arrivava nel suo campo visivo quindi ci adoperammo ad ingozzarlo con della carne fresca che chiedemmo al nostro padrone di casa. Il mostriciattolo mangiava con foga e buttava giù tutto con la rapidità del lampo. Dopo il pasto, cagava abbondantemente e chiudeva gli occhi per fare un sonnellino. Col favore del buio si addormentò fino al primo chiarore della mattina successiva quando ricominciammo a rifornirlo. Facemmo un rapido brainstorming e pensammo che a chiunque l’avessimo lasciato, il pennuto (futuro pennuto), non sarebbe sopravvissuto. Decidemmo pertanto che l’uccello ce lo saremmo riportato in Italia a qualsiasi costo. E così fu. Ho omesso di dire che ci aveva seguito nella nostra avventura in Madagascar, il mio cane Pippo, un bastardone di pastore tedesco che aveva condiviso tutte le mie esperienze africane. Lo avevo trovato in Algeria nel 1979 e da allora non mi ero mai più separato da lui. Quindi quella mattina che lasciammo la casa di Paul Renè per andare all’aeroporto di Nosy Be, nel taxi eravamo in quattro uccello compreso. Quando arrivammo ad Antananarivo erano le 10 di mattina e il sole già bruciava . L’umidità sarà stata al 99% e l’albergo in cui scendemmo faceva schifo. Già il nome “ Stella Rossa”, mi faceva vomitare, ma non avevamo i soldi per pagarci un’altra soluzione più consona. D’altronde dovevamo aspettare 3 giorni perché ci serviva il visto per uscire che ci doveva rilasciare l’ufficio emigrazione e poi il volo per Roma partiva due giorni dopo. Quindi armati di pazienza iniziammo a visitare la città. Ad Antananarivo c’era uno dei mercati etnici più estesi d’Africa e approfittammo della sosta forzata per visitarlo. Lasciammo Pippo ed il volatile (ancora mi riusciva difficile chiamarlo uccello anche se giorno dopo giorno gli spunzoni che aveva sul corpo cominciavano ad aprirsi per diventare dei piumini) nella stanza dell’albergo, e andammo al mercato. Credo che per descriverlo non mi basterebbe un libro, quello che posso dire è che fummo sopraffatti dagli odori, dalla quantità di mercanzia di ogni genere, dalla vivacità della gente ,dai colori degli abiti, dagli animali selvatici di ogni tipo , scimmie, pangolini, sciacalli, serpenti, ragni, scorpioni, pappagalli, gatti, cani, felini mai visti prima, mucche, asini, cavalli, ma soprattutto quello che attirò di più la nostra attenzione fu la parte del mercato dedicata al riciclo. Partiamo dal presupposto che noi, stupidi occidentali, abbiamo la mentalità dell’ usa e getta. Mettiamoci poi nei panni di chi per avere anche le cose più semplici come un cappello o un paio di scarpe, non può andarseli a comprare in un negozio, primo perché i negozi di cappelli e scarpe non esistono, e poi perché se esistessero il cappello o il paio di scarpe, costerebbero al povero malgascio un anno di stipendio ammesso che avesse uno stipendio. Adesso apriamo gli occhi e guardiamoci intorno in questo meraviglioso mercato e troviamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Dalle scarpe fatte con i copertoni delle auto dismessi, alle lampade ad olio fatte con le lampadine ad incandescenza, o con le lattine della coca cola, tutto un mondo di oggetti che prima facevano parte del mondo del consumismo e adesso come per incanto diventavano ,attraverso un accurata trasformazione operata da una genialità indotta dalla necessità, articoli messi in vendita da bravissimi artigiani malgasci. Quando tornammo in albergo, entrati dentro la camera, trovammo Pippo che stava accucciato vicino alla porta del bagno e nessuna traccia del pennuto. Abbiamo cominciato a cercare dappertutto, sotto i letti, dietro le tende, sotto i mobili, ma niente, non si trovava. Mi domandai però perché Pippo invece di stare dietro la porta d’ingresso, come sarebbe stato logico, dato che ci aveva visto uscire da lì, stesse accucciato davanti al bagno. Avevamo visto all’interno ma non avevamo guardato nel water! Il povero pulcinone, forse spaventato da Pippo, era sceso dal letto e poi in qualche modo era caduto nel cesso. Si teneva a galla tenendo le ali allargate per non affogare e il becco spalancato in un grido che però non veniva fuori . Se avessimo tardato qualche minuto, probabilmente sarebbe morto di freddo o annegato. Lo tirai fuori e l’asciugammo subito con il phon. Poi lo rinfrancammo con dei bei pezzi di carne appena acquistati. Era sicuramente un rapace e manco a dirlo di una razza protetta: il prossimo ostacolo era l’aeroporto di Antananarivo e la dogana prima dell’imbarco. Il giorno della partenza, gli demmo da mangiare poco prima di uscire per andare a prendere l’aereo, poi lo mettemmo in una tasca esterna di un borsone e così ci presentammo ai doganieri. Dissi a Cristina di prendere lei quella borsa a mano, conscio del fatto che a me sicuramente avrebbero perquisito il bagaglio e che magari lei avrebbe avuto più fortuna. Quando mettemmo le borse sul bancone e i doganieri ci chiesero se avevamo nulla da dichiarare, io denunciai la valuta che avevo nel portafoglio e aprii la mia borsa perché potessero vedere all’interno. A Cristina non chiesero nulla e finalmente passammo al controllo passaporti e poi ci imbarcammo. Se ci avessero beccati, avremmo rischiato non solo di non partire più, ma anche una denuncia per contrabbando di specie protette e quindi la galera, che in Madagascar non è certo una passeggiata. L’aereo faceva scalo a Nairobi dove arrivammo dopo circa 4 ore di volo. La dogana keniota dato che eravamo in transito non ci controllò e prendemmo un taxi per andare a passare la notte in albergo dato che l’aereo per Roma era il giorno dopo. Quando arrivammo all’Holiday Inn alla reception non mi permisero di portare Pippo in camera, ma mi dissero che avrei dovuto portarlo nel garage sotto l’albergo. Credo che quella volta ebbi veramente il terrore di perderlo. Il garage era praticamente uno spazio vuoto enorme costellato dai pilastri delle fondazioni dell’hotel sovrastante e si estendeva per un centinaio di metri nel buio più totale. Mucchi di terra che dovevano risalire alla costruzione della struttura, mai tirati via, facevano da quinta ai posti auto. Mi inoltrai con Pippo dietro uno di questi cumuli di terra in un angolo, gli misi una coperta per terra e lo legai ad un ferro che sporgeva da un pilastro. Gli lasciai una ciotola con l’acqua, lo abbracciai forte e gli sussurrai “ tu sai che io non ti abbandonerei mai”. Me ne andai con il cuore in gola. In piena notte ridiscesi in garage per vedere se tutto andava bene. Il mio cagnone mi scodinzolo e mi fece le feste, restai un pò con lui e poi tornai a dormire più tranquillo. Appena fece giorno scesi a prenderlo e facemmo una passeggiata nei dintorni dell’albergo. Il volo AZ 732 di Alitalia partiva alle 9,45. Mai fui così felice di volare sulla mia compagnia di bandiera. Dopo uno scalo a Luxor, alle 13 sbarcammo a Fiumicino, sani e salvi tutti e quattro. Il sogno era finito.