Il relitto

Il relitto

Il lido di Mogadishu, ha conosciuto sicuramente tempi migliori rispetto a quando mi trovavo in Somalia, tuttavia diversi club e ristorantini si affacciavano lungo la strada che costeggiava il lungomare. Uno di questi era tenuto da un italiano che si trovava in città da svariati anni e che faceva parte di quei connazionali che ho citato nei miei racconti precedenti che avevano scelto l’estero per i più vari motivi. Senza scendere nei dettagli della sua vita, Gianni , sulla cinquantina, capelli brizzolati, sguardo vivace e furbo, gestiva un ristorante che era meta di noi espatriati quando avevamo la possibilità di passare una serata libera, gli spaghetti con l’aragosta erano una sua eccellenza. In realtà tempo a disposizione ne avevo raramente e spesso la sera dovevo rimanere in ufficio per trasmettere documentazione sul cantiere che progrediva alla sede di Roma che per differenza di fuso orario era in ritardo di un paio d’ore rispetto a noi.

Negli anni precedenti il mio arrivo, il lido era molto frequentato anche dai somali che riempivano le spiagge nei giorni festivi. Purtroppo il mare così turchese ed invitante con la sua sabbia bianca ed il sole che la rendeva accecante, in diverse occasioni si era rivelato pericoloso. Negli anni ’80, causa alcuni lavori di ampliamento per il porto della città, avevano demolito parte della barriera corallina che proteggeva la spiaggia per permettere il dragaggio dell’area dove avrebbero dovuto entrare navi da carico quindi con pescaggio elevato. Questo aveva permesso una maggior facilità di  ingresso agli squali nell’area prospiciente il lido. Inoltre la presenza a nord di Mogadishu di un mattatoio che scaricava direttamente in mare i residui di lavorazione, vedi sangue ed interiora di dromedari, capre, cavalli e quant’altro, incentivava la presenza dei predatori a pochi metri dalla costa. Numerosi attacchi si erano verificati, quasi tutti mortali e quindi il lido ne aveva risentito sotto il profilo puramente balneare.  Ma questo era proprio uno dei motivi che mi avevano spinto a frequentare Gianni  che disponeva di un gozzo  in vetroresina di 5 mt, con un motore entrobordo diesel amante come me della pesca d’altura e subacquea. Anzi avevamo messo su una bella compagnia di incoscienti che si proponeva di andare a vedere con i propri occhi quanto asserito dalle cronache recenti, e cioè se poi era veramente così pericoloso immergersi in quelle acque.

Facevano parte della comitiva, oltre al sottoscritto che aveva coinvolto anche Cristina, Marco , un maggiore dell’areonautica di stanza a Mogadishu settore elicotteri, conosciuto alcune settimane prima e con il quale condividevo la grande passione per la subacquea , Giacomo, un ragazzo che lavorava presso la sede della Comunità Europea,  Alessandro figlio di Gianni , e chiaramente Gianni  stesso. Tra tutti forse quello che aveva più esperienza ero io se non altro per il fatto che mi ero immerso in altri mari popolati da squali in molte occasioni ed ero ancora lì a raccontarlo. A cavallo dell’ora di pranzo ormai da diverse settimane avevo iniziato a portare Cristina con me in acqua per farla familiarizzare con l’attrezzatura e insegnarle quelle tecniche di immersione in apnea che le mancavano. Lei provetta nuotatrice non aveva però mai messo il naso sotto la superficie. Devo dire che la sua  acquaticità mi stupì molto e in capo a poche volte fu perfettamente in grado di seguirmi  nella mie immersioni senza alcun problema. Quindi, quando finalmente quel venerdì ci trovammo tutti alle 7 di mattina  davanti al ristorante di Gianni , non vedevamo l’ora di uscire per mare. Gianni  che non poteva venire perché doveva occuparsi del ristorante ( venerdì giorno festivo nei paesi musulmani), ci presentò un somalo di sua conoscenza che ci avrebbe  accompagnato nell’escursione. L’imbarcazione era un guscio di vetroresina lungo circa 5 metri con il motore centrale. Salimmo a bordo con la nostra attrezzatura e la barca cominciò a dirigersi verso il largo. La superficie del mare leggermente increspato, scorreva veloce sotto la chiglia mentre stavamo raggiungendo il primo ostacolo, e cioè il punto in cui il fondo corallino si alzava bruscamente facendo rompere le onde pericolosamente. Tenendoci saldamente agli scalmi e ai sedili, superammo con un salto la prima onda. Tutto sommato non era entrata una goccia d’acqua. Altra cosa fu dopo circa trecento metri superare la barriera corallina. In quel punto il mare sprofondava di parecchie decine di metri nel blu e l’onda era molto più alta. Gelani, così si chiamava il nostromo, guardava dritto davanti a sé , con sguardo intrepido, senza tentare di tagliare l’onda incombente almeno a trenta gradi ma prendendola proprio di prora. Il risultato fu che la prua andò sotto ed entrò una valanga d’acqua dentro la barca. Ma non affondammo. Cominciammo a sgottare l’acqua con un paio di secchi provvidenziali e tra una risata ed una bestemmia, procedemmo verso la nostra destinazione: un relitto affondato a circa 10 miglia a nord  poco distante dalla costa.

Bisogna dire che il motore dopo l’ondata si era spento ma alcune manovre di Gelani lo avevano prontamente resuscitato. Arrivammo senza intoppi dopo circa due  ore sul posto. Il mare era una tavola e il relitto del quale sporgeva un pezzo di ferraglia appariva disteso sul fondo di  sabbia a circa 15 -20 metri di profondità. Pescammo per tutta la mattina in compagnia di qualche squaletto pinna nera che ogni tanto si interessava alle nostre prede ma senza dare  problemi. Verso le 16 risalimmo in barca e tirammo fuori  da una ghiacciaia qualcosa da mettere sotto i denti. Il cielo si era riempito di nuvole minacciose ed un vento teso da Sud faceva alzare delle piccole onde corte.  Dissi a Gelani di mettere in moto e di cominciare a rientrare tenendoci il più possibile sotto costa per ripararci dal vento. Facile a dirsi…il motore non dava segni di vita. La barca tirava sull’ancora e scarrocciava in tutte le direzioni. Il nostromo Gelani , disse che forse la pompa del gasolio si era svuotata e che doveva procedere a smontarla per poterla riempire con gasolio fresco.  Mhhh!!!!…..Allora a questo punto per rendere meglio l’idea della situazione apro una parentesi. La costa che si sviluppava alla nostra destra  in direzione  Mogadishu, era costituita da rocce coralline alte circa 6/8 metri a picco sul mare, la superficie   simile ad una grattugia da parmigiano con la differenza che  i denti erano alti circa 10/ 20 cm. Il mare aveva eroso la parte dove battono le onde creando una sorta di incavo profondo un paio di metri  rendendo praticamente  impossibile qualsiasi tentativo di scendere a terra.   Chiusa parentesi. Il nostro Gelani, veste uno osguntino a quadri bianchi e blu . Avrà sui 40 anni, ma la sua età è indefinibile, alto forse un metro e ottanta, corporatura muscolosa. Baffetti alla Clark Gable, capelli corti, una sigaretta spenta tra le labbra . Sempre sorridente parla uno scarso italiano frammisto a vocaboli inglesi di incerta origine. Ha due braccia lunghissime ma soprattutto dei piedi notevoli… Mhhhh!!!Il mare sta diventando mosso e il nostro amico aspirando il gasolio con un tubetto di plastica da una tanica  lo sputa dentro la pompa che ha appena smontato e svuotato. Non riusciamo ad essergli di grande aiuto perché la barca è piccola, noi siamo troppi e magari, se ci agitiamo, ci ribaltiamo pure. Dopo svariati tentativi di mettere in moto  con la manovella che dà dei ritorni pericolosissimi, il diesel entrobordo inizia a sbuffare. E Gelani a quel punto che fa? Con la mano destra afferra il timone e dirige verso il cavo teso dell’ancora che io prontamente agguanto  e comincio a recuperare,con la sinistra, cicchetta la pompa per fare in modo che non si svuoti, (a proposito il variatore, cioè l’aggeggio che fa avanti/folle/dietro, non funziona oppure non c’è proprio), e quindi assomigliando più ad un polipo che ad un essere umano, si agita e aggancia con l’alluce del piede sinistro una fettuccia collegata al cavo del gas e la barca con un sussulto balza in avanti beccando in pieno due onde, una dopo l’altra che entrano da prua ed escono da poppa, lasciando all’interno svariati quintali di acqua.

Ci diamo da fare   come possiamo sgottando fuori con il secchio, le pinne e qualsiasi altro aggeggio atto a contenere liquido, ma la lotta è impari perché il vento ha rinforzato e le onde se pur alte solo una cinquantina di cm sono molto corte e rompono la cresta ricaricando la barca che spesso viaggia con la poppa a pelo d’acqua. Dopo circa un’ora riusciamo a metterci a ridosso di una punta e ne  approfittiamo per svuotare la sentina e riprendere fiato. Il vento caldo ci asciuga il sale addosso e sembriamo pronti per una frittura gigantesca. Gelani stoico avvicenda l’alluce sinistro con quello destro e rifiuta categoricamente il nostro supporto  con un sorriso enigmatico stampato sul volto.

Ripartiamo. E’ chiaro che per evidenti motivi non avevamo spento il motore ma giravamo in tondo dietro le rocce aspettando di aver svuotato il carico d’acqua. Quando finalmente riprendiamo la via del ritorno sono  quasi le 18 e sta per fare  buio.  Il pistone del motore sta tirando gli ultimi ma Gelani  facendo delle flebo alla pompa del gasolio attraverso un tubicino collegato ad una bottiglia della candeggina tagliata sul fondo  e riempita di volta in volta, allontana  il momento della sua dipartita. Con foga e con tenacia capitan Gelani ci stava riportando a casa e tutti noi ne eravamo consapevoli. Quando ormai quasi al buio scorgemmo il lido di Mogadishu e quasi come  surfisti  scavalcammo l’onda del reef che ci proiettò a tutta birra verso la spiaggia un hip hip hurra per Gelani sgorgò univoco da tutti noi. Quella sera Gianni ci preparò i suoi famosi spaghetti con l’aragosta e stappammo un Berlucchi che avevo portato da casa e lasciato prudentemente nel frigo del ristorante prima di partire la mattina.