Il tempo passava inesorabile e l’atmosfera che si respirava a Sedhioù, nonostante noi espatriati fossimo venuti a portare comunque aiuti consistenti alla popolazione, non era delle migliori. Un vago senso di razzismo alla rovescio permeava l’aria. In diverse occasioni le mogli del personale che andavano in giro per il mercato erano state fatte oggetto di minacce verbali ed in alcuni casi di insulti immotivati. Anche Cristina che si muoveva in bicicletta per il villaggio era stata avvicinata da degli uomini che prima l’avevano insultata e poi costretta a tornare a casa per evitare di essere investita dalla loro auto. In seguito a questi episodi ebbi l’occasione di recarmi a parlare con il sindaco di Sedhioù. Abdelbakir Ahmed Ben Ammar era un uomo sulla cinquantina, grosso e grasso e sudava notevolmente.
Nel suo ufficio l’aria condizionata non sembrava abbassare il caldo neanche di un grado. Dietro una larga scrivania in legno intarsiato, sedeva su una poltrona dorata alla Luigi XV. Una fitta moquette copriva il pavimento. Pensai che all’interno della trama dovevano esserci degli acari grossi come cavalli! Dietro di lui una grande bandiera senegalese copriva il muro. Alla sua destra seduta dietro una piccola scrivania , la sua segretaria troneggiava dal suo metro e ottanta di altezza aumentata da un copricapo molto colorato grazie al quale la sua imponenza diventava veramente notevole. Degli infradito consumati le modellavano un piede sul 46. Una macchina da scrivere elettrica faceva bella mostra di sé. Dopo i convenevoli di rito, passai a spiegare al sindaco le problematiche che stavamo incontrando durante la nostra permanenza nel suo bel villaggio. Dopo un attenta esposizione dei fatti accaduti, il sindaco si impegnò a parlare con il capo della polizia per fare in modo che i responsabili degli episodi fossero individuati e castigati per quanto avevano fatto. Si scusò a nome dei suoi concittadini che mi assicurò essere contenti del nostro lavoro e mi disse che purtroppo c’erano delle frange di indipendentisti, per lo più venuti da altri villaggi che si erano mischiati alla popolazione di Sedhioù che stavano creando dei problemi in tutta la Casamance. In realtà avevo sentito parlare di gruppi di guerriglieri che avevano causato incidenti dalle parti di Cap Skirring nella zona a sud di Ziguinchor quella più turistica della regione. Approfittando della poca distanza che intercorreva con la frontiera della Guinea Bissau, facevano razzie nei villaggi e poi riparavano oltre confine. Il governo di Dakar aveva anche mobilitato l’esercito ma con scarsi risultati. In realtà la zona al confine con la Guinea era uno dei luoghi dove ero solito recarmi il fine settimana a pesca e non avevo mai riscontrato dei problemi. Dormivamo in tenda sulla spiaggia in luoghi molto isolati e non avevamo mai incontrato anima viva. Comunque in seguito a quanto ci era stato detto, avevamo iniziato a muoverci almeno in quattro persone con due fuoristrada. Il mio compagno di avventure era Mauri, il capo officina con il quale avevo instaurato una bella amicizia perché non solo condividevamo lo stesso amore per la natura ma la pensavamo nella stessa maniera per quanto riguardava l’ambiente lavorativo della cooperazione: bocche cucite e lavorare a testa bassa evitando di fare apprezzamenti che potevano risultare sgraditi a qualcuno.
Accadde durante un week end di pesca .Quando arrivammo al piccolo supermercato di Ziguinchor ci confrontammo con alcuni ragazzi che ci avevano insultato chiamandoci” blancs razistes” solo perché ci avevano visto su dei mezzi con la bandiera italiana della Cooperazione sulla fiancata arrivare nel parcheggio ed entrare nel supermercato . Avevamo l’abitudine di fare spesa in quel luogo perché si riusciva a trovare della birra particolarmente buona ed evidentemente non piaceva solo a noi. I ragazzi erano alticci già alle 9 di mattina e fu solo per il fulmineo intervento del proprietario del supermercato, un libanese che ci conosceva bene che non si scatenò una rissa . Evidentemente i franchi CFA che spendevamo da lui tutte le settimane erano un ottimo motivo per stare dalla nostra parte. Dicevo che accadde durante quel fine settimana che mi beccai la malaria. Nonostante le precauzioni prese, la sera sulla lingua di sabbia alla foce del fiume, dove sistemavamo le nostre canne per il surfcasting, frotte di zanzaroni si accanirono sulla mia pelle e non ci fu né clorochina né repellente che riuscisse ad evitare che il Plasmodium Falciparum si insinuasse nel mio organismo. Me ne accorsi circa una decina di giorni dopo, quando al ritorno dalla mia corsa mattutina stramazzai al suolo appena arrivato nel giardino davanti casa.
Riuscii a trascinarmi davanti alla porta d’ingresso e a chiamare Cristina poi iniziò una sorta di dormiveglia. Venni trascinato su un letto e sembra che avessi 40 di febbre…dico sembra perché ho difficoltà a ricordare quegli istanti. Cristina uscì di corsa a chiamare il nostro amico Lionello Sbrana che abitava come tutti quelli che erano venuti da single, in una sorta di resthouse con camere individuali posta a circa 500 mt. da casa nostra proprio in mezzo al villaggio vicino alla centrale elettrica, ed era anche l’unico luogo da cui gli espatriati potevano accedere ad un telefono e chiamare l’Italia. Lionello come ho già avuto modo di spiegare era il responsabile amministrativo ma soprattutto era un infermiere con anni di esperienza. Quello che scrivo lo racconto per sentito dire perché nel frattempo avevo perso conoscenza. Sembra che Lionello mi fece un prelievo di sangue e poi con un’attrezzatura che si era portato dall’Italia, diagnosticò che mi ero beccato la malaria e anche molto aggressiva. Alla sera la temperatura sfiorava i 41 gradi ed io ero quasi incosciente. Passai la notte con pezze fredde sulla testa che amorevolmente Cristina continuava a cambiare per cercare di attenuare l’inferno di fuoco che avevo anche perché la malaria cerebrale se non prontamente curata ti porta rapidamente all’altro mondo. Al mattino seguente Lionello mi fece una pera da 10 cc di Quinimax che nel frattempo miracolosamente era riuscito a trovare nella farmacia del villaggio. Intanto io nella mia semi incoscienza viaggiavo nel deserto preda di allucinazioni e miraggi di oasi ed acqua limpida e fresca. Cascate benefiche sgorgavano dalla roccia e si dissipavano in laghetti celesti alla base di montagne innevate. Sulle pendici daini e caprioli brucavano l’erba fresca tenerella dei pascoli. Grossi caproni e vacche rinsecchite improvvisamente si materializzavano al loro posto in una pietraia scoscesa arida e assolata con serpenti a sonagli che facevano suonare la loro coda prima dell’attacco fulmineo ai miei piedi scalzi e sanguinanti. In realtà non era un serpente a sonagli ma un cucchiaino che girando dentro un bicchiere per mischiare un intruglio che dovevo bere produceva lo stesso effetto sonoro, almeno così pensai quando riemergendo dall’incubo ascoltai la voce di cristina che mi diceva “ bevi ti farà bene”! Al secondo giorno e alla terza pera di Quinimax, cominciai a sentirmi “ meglio”, o dovrei dire a non essere più in coma. Non avevo però più gambe, braccia, alcuna forza. Alzarmi era un’impresa anche solo per fare pipì dato che le gambe non mi reggevano. Impiegai una settimana ad uscire da questo incubo e per tutta la settimana seguente camminavo come immerso in un bicchiere pieno di olio, i miei gesti essendo rallentati dalla resistenza del liquido in cui mi sembrava di essere immerso. Ero consapevole del fatto che ci avrei pure potuto lasciare la pelle se non fosse stato per la miracolosa presenza del mio amico Lionello che aveva diagnosticato e curato la mia malaria! Purtroppo non ebbe la stessa fortuna un mio povero collega . Alcune settimane dopo, Ciaccia, un operatore macchine movimento terra, che si stava occupando del rifacimento di alcune piste in terra nella zona ad alcuni km da Sedhioù, al suo rientro al pomeriggio, venne colto da un malore. Lionello capì che si trattava di un inizio di infarto e chiamò la sede di Dakar perché inviassero un aereo dell’Europ Assistance al più presto. Ma non c’era tempo. L’aeroporto più vicino era una pista in terra vicino a Kolda, Zuiguinchor essendo molto più distante. Imbarcammo su un fuoristrada Lionello e Ciaccia con un autista e partirono in modo tale da essere all’appuntamento dopo tre ore quando era previsto l’atterraggio dell’aereo. Purtroppo durante il viaggio Ciaccia ebbe altri due infarti e a nulla servirono le cure che il povero Lionello con i pochi mezzi a disposizione e lungo una pista tutta buche poté praticargli . Quando lo imbarcarono sull’aereo era praticamente già in condizioni critiche. Arrivato a Dakar lo ricoverarono all’ Hopital Principal dove si spense alcune ore dopo. Ricevetti la telefonata di Lionello dalla filiale che mi comunicava il suo decesso. Ciaccia come Sbrana erano due miei colleghi ex Libia che avevo fatto venire io in Senegal. Lionello era riuscito a salvare la mia vita ma non quella di Ciaccia che non riuscì a sopravvivere, e forse sarebbe bastato un defibrillatore, ma era il 1992 e come ho già avuto modo di raccontare, vedi il Mozambico o il Gabon, per esempio, quando prendevi l’aereo, conoscevi la data di partenza, ma mai quella di ritorno.