Dovevano essere passate da poco le otto di sera, ero rientrato da pochi minuti a casa. Stavamo ragionando se andare ad avvelenarci da qualche parte in un ristorante a Maputo oppure fare un piatto di pasta aglio olio e peperoncino. Cristina mi aveva appena finito di raccontare che un nostro vicino di casa, un colonnello dell’aeronautica che lavorava come addetto militare presso l’Ambasciata d’Italia, nel pomeriggio aveva portato a casa un cagnolino di pochi mesi (un chihuahua) come regalo per sua figlia e che l’aveva sentito guaire a lungo perché l’avevano lasciato solo sul terrazzo della casa. Improvvisamente udimmo un gran frastuono, delle voci concitate e dei guaiti molto più forti ed acuti provenire dalla direzione opposta a quella della casa del colonnello.
Ci precipitammo fuori e ci accorgemmo che alcuni uomini della sicurezza del campo si stavano accanendo con dei bastoni su un povero cagnastro che si era rifugiato sotto un banano posto vicino al muro di recinzione. Alcune scimmie guardavano la scena da un albero poco distante. Cominciai a gridare in un portoghese stentato che la smettessero immediatamente, per la miseria, se non volevano che li pigliassi tutti a calci nel culo. Gli uomini si bloccarono istantaneamente ed il capo venne verso di me e con fare contrito mi dissero che avevano temuto che il cane potesse fare del male al chihuahua del colonnello. Dissi loro che mi assumevo io la responsabilità con il militare e di tornare ai loro posti perché avremmo pensato noi all’intruso. Con una torcia, mi avvicinai al banano e vidi la povera bestia terrorizzata rintanata in un anfratto tra il muro e il tronco . Cristina mi porse dell’acqua in una ciotola e del cibo che lasciammo a sua disposizione. Al mattino seguente aveva bevuto e mangiato, era buon segno. Rinnovammo le cibarie, provammo a chiamarlo ma non voleva uscire dal suo buco. Quando nel pomeriggio tornai però lo trovai sotto il portico davanti casa nostra. Da quel momento non ci abbandonò più. Era un tipico cane africano sicuramente incrociato con licaoni e iene dai quali aveva ereditato le zampe lunghe e muscolose e delle unghie molto potenti cosi come delle grandi orecchie. Avrà avuto non più di 12 mesi, zanne ben sviluppate pelo corto molto folto sul rossiccio, circa 20 kg di muscoli e un’intelligenza prodigiosa dettata dall’istinto di sopravvivenza. Lo chiamammo Dak.
Fu proprio durante la prima uscita che facemmo con lui portandolo sul cassone del pick-up, sul quale saltò con grande disinvoltura, che accadde un fatto che ci sconvolse. Ci stavamo dirigendo lungo l’Avenida Marginal cioè il lungomare di Maputo verso Nord per raggiungere la Costa do Sol dove con la bassa marea è possibile camminare per centinaia di metri sulla battigia. Alte palme da cocco punteggiavano il marciapiede alla nostra destra. Poche persone in giro quella mattina di sabato e un vento caldo che ci accompagnava trasportando un acre odore di alghe marce. Viaggiavo sui 70 kmh quando all’improvviso dopo una curva sulla sinistra in un punto in cui la strada era a senso unico, dovetti frenare bruscamente e buttarmi sulla destra per non investire qualcosa che a prima vista sembrava un cumulo di stracci. L’auto sbandò e finimmo con le ruote laterali contro un marciapiede fermandoci con il cuore in gola. Nel retrovisore vidi che il cumulo di stracci non si era mosso. Scesi dall’auto e feci una decina di metri per verificare di cosa si trattasse.
Coperta in qualche modo da uno straccio sporco, giaceva in mezzo alla carreggiata una bambina con il volto appoggiato lateralmente sull’asfalto, la bocca semiaperta, gli occhi chiusi. Il primo istinto fu quello di soccorrerla, ma rapidamente mi guardai attorno temendo di essere caduto in un’imboscata. Non era raro infatti che le bande di ragazzini di strada usassero questo stratagemma per fermare le auto e derubare i malcapitati minacciandoli con coltelli mazze e machete. Fortunatamente per noi non si trattava di questo ma purtroppo di una bambina che era caduta mentre camminava a causa del fatto che chissà da quanto tempo non mangiava nulla. Le sollevai la testa, per vedere se era ancora viva. Aprì gli occhi. Respirava! Eravamo preoccupati perché non sapevamo cosa fare. Portarla in ospedale non sarebbe servito a nulla, era una delle tante vittime della guerra decennale del Mozambico. Con un filo di voce disse: “patrao sto com fome!” cioè “ho fame” ! La sollevammo e la facemmo sedere nell’auto. Cristina con un fazzoletto cercò di ripulirle il viso tutto pieno di polvere. I capelli crespi erano intrisi di fango essiccato. La nostra decisione fu quella di portarla in un luogo dove poterla rifocillare e ripulire. Mentre mi dirigevo verso un ristorante alla Costa do Sol che conoscevo, le chiedemmo come si chiamava e quanti anni avesse. Mafuane era il suo nome o almeno così la chiamavano ma non conosceva la sua età. Probabilmente doveva avere sui 12 13 anni anche se gli stenti cui era sottoposta la facevano sembrare , se possibile, più piccola. Prima di varcare la soglia del ristorante le pulimmo il viso con dell’acqua che avevamo e le tirammo via il fango secco dalla testa. Cristina le infilò una felpa sopra gli stracci che aveva indosso. Il problema infatti era che se un poliziotto l’avesse notata l’avrebbe sicuramente arrestata per vagabondaggio e portata via con delle conseguenze che lascio all’immaginazione e noi non ci saremmo potuti opporre in alcun modo. Fortunatamente all’interno del locale non c’era quasi nessuno. Ci sedemmo e le facemmo portare del cibo, tutto quello che lei avesse voluto. Rimanemmo insieme per un paio d’ore poi la ragazzina volle andar via e usciti dal ristorante ci ringraziò con un “muito obrigada”, non volle salire con noi in auto e se ne andò senza voltarsi. Rimanemmo molto perplessi e ci domandammo cosa avremmo potuto fare di diverso e se avevamo sbagliato qualcosa ma data la situazione generale che si stava vivendo a Maputo in quel periodo, i tanti casi riportati da altri espatriati che si erano fatti derubare o massacrare durante degli incontri ravvicinati con le bande che circolavano per la città, decidemmo che avremmo forse potuto salvare un cane ma non saremmo stati in grado di risolvere i problemi dell’infanzia negata a tutti quei bambini che erano nati con la guerra, avevano conosciuto solo quella realtà e ne avevano fatto una ragione di mera sopravvivenza quotidiana. Alcuni giorni dopo assistemmo impotenti alla mutilazione delle zampe ad un cucciolo di cane che era caduto nelle grinfie di una banda di ragazzi che stazionava vicino al porto: gridavano “ olhai, agora o cao torna que nos meninos, sem braços e sem pernas! ( guardate adesso il cane è come noi ragazzi senza braccia e senza gambe).