Check Point

Nell’ultimo mese l’atmosfera a Mogadishu stava cambiando. C’erano stati dei disordini provocati da miliziani di  etnie diverse e contrapposte che avevano richiesto l’intervento pesante delle forze fedeli al presidente Barre.  Questo stato di cose aveva prodotto una pseudo militarizzazione della città e dei suoi dintorni. Un cooperante tedesco che stava rientrando a casa dal lavoro era stato trucidato  davanti al cancello sotto gli occhi della moglie perché aveva rifiutato di consegnare la sua Toyota  ad un gruppo di miliziani che lo stavano aspettando al varco. Noi avevamo rinforzato la protezione al campo base e anche agli uffici. Tutto sommato però l’episodio capitato al cooperante era stato considerato come un delitto  della criminalità comune e non come un inizio di turbolenze tribali e quindi si cercava comunque di vivere la vita in modo quasi normale. Un giorno della fine di settembre, eravamo in pieno ramadan, decidemmo il fine settimana di andare a pesca in una zona a una settantina   di km a nord di Mogadishu , Bandarka, verso Adale, in un posto conosciuto come “ ceelka saddexaad“ ovvero “ il terzo pozzo”. Il nome probabilmente derivava dall’esistenza lungo la pista che conduceva verso nord, di altri due punti dove una volta le greggi di capre o di dromedari si andavano ad abbeverare durante gli spostamenti. Eravamo in due macchine, io con Cristina, e il  mio collega Vincenzo con sua moglie Clementina.  La strada per raggiungere Bandarka passava per l’interno attraverso Jowhar ed era molto più lunga, quindi decidemmo di costeggiare il mare seguendo la pista seguita dai pastori che a tratti rientrava per alcuni km nell’interno e poi ritornava sul mare.  Lasciataci Mogadishu alle spalle ci inoltrammo lungo la pista. L’ultimo avamposto di civilizzazione era l’ospedale del S.O.S. posto ai margini della città sulla strada per Balaad, poi solo sabbia, arbusti, capre e qualche sparuto somalo che camminava venendo da non si sa dove per andare non si sa dove nella solitudine più assoluta . Nel cielo, terso e blu cobalto, rare nuvole stracciate indicavano un forte vento da nord. Il mare a tratti increspato, sotto costa, a largo arricciava le creste delle onde sospinte dalla forte brezza. La temperatura era molto elevata ma la ventilazione rendeva comunque il viaggio abbastanza piacevole. Scendemmo lungo una valle brulla e sassosa dentro il letto asciutto di un oued ( un fiume durante le piogge) e procedemmo per  nord nord est per circa un’ora.

Improvvisamente da lontano cominciai a scorgere delle capanne e poi subito dopo una curva arrivammo ad un posto di blocco. I militari avevano messo un palo di traverso in mezzo alla pista con dei pietroni rendendo impossibile procedere. Ci fermammo e Vincenzo ed io  scendemmo dalle auto. Il sergente in capo alla piccola guarnigione si avvicinò con fare cordiale e ci chiese in italiano stentato dove eravamo diretti. Mentre gli stavamo dando le informazioni richieste, due soldati spuntati da dietro una capanna, si avvicinarono alle auto con gli AK47 a tracolla , ed iniziarono a guardare all’interno. Contemporaneamente sbucarono da non si sa dove delle donne  e dei bambini ed anche loro si avvicinarono alle auto. Il sergente ci chiese delle sigarette, ma nessuno di noi fumava, quindi non ci fu possibile accontentarlo. Ci chiese allora dei soldi adducendo il fatto che la sua paga era molto bassa e poi che non riceveva lo stipendio da 6 mesi. Ma non erano gli scellini somali che voleva bensì fruscianti dollari americani. Nel frattempo gli altri soldati avevano iniziato a fare richieste alle nostre amiche che cercavano di fare del loro meglio per superare il momento che diventava sempre più critico. I bambini cominciavano a tirare pietre contro le auto. Le donne in coro chiedevano a Cristina “pane, pane mangiare, italiani mangiaria “  dicevano. Gli occhi del sergente erano lucidi e puzzava di alcol. Tirò fuori dalla fondina la pistola d’ordinanza, e me la offrì in cambio dei dollari. Sapevo perfettamente che non me l’avrebbe mai data ma che stava cercando di farmi tirare fuori i soldi dalle tasche. Probabilmente me l’avrebbe puntata contro a breve.

La tensione si tagliava col coltello. A parte il fatto che io non giravo con soldi in tasca, proprio per evitare di essere derubato, casualmente avevo nel cruscotto dell’auto 4 pezzi da 5 dollari che mi aveva restituito un collega il giorno prima. Gli chiesi, con fare amichevole quale era il suo nome e mi disse che si chiamava Siad. “ Ok Siad ti posso dare 5 dollari così potrai comprare da mangiare alla tua famiglia, ma dopo ci devi lasciar passare”. Tornai all’auto presi i dollari  e dissi a Cristina di mettere in moto. Andai dal somalo e gli diedi un  biglietto da 5 dollari, ma ne voleva 20. A questo punto, con molta calma lo invitai a rimuovere lo sbarramento e a lasciarci passare. Vincenzo  che era un paio di metri dietro di me,  si accorse   che i due soldati stavano cercando di aprire il portellone posteriore della Toyota.  Gli dissi di salire nella sua   macchina e di  mettere in moto. Pensavo che alle brutte avremmo fatto un tentativo di tornare indietro in retromarcia. A quel punto diedi altri 5 dollari al sergente e gli dissi che gli altri 10 glieli avrei dati al nostro ritorno dalla battuta di pesca nel pomeriggio. La tensione si allentò e  Siad, pensando che al mio ritorno non mi sarei potuto sottrarre al suo check point,  disse ai suoi uomini di lasciarci passare. Questi,  che evidentemente  già stavano pregustando il momento in cui avrebbero messo le mani sulle nostre cose e su Cristina e Clementina, obbedirono a malincuore,   e spostarono il palo e le pietre.  A sancire il nostro accordo, gli diedi una pacca sulle spalle , lo salutai e saltai in macchina  partendo lentamente, ostentando una grande calma,  facendo anche ciao ciao ai maledetti bambini che  ci avevano bersagliato con le pietre. Dopo circa un paio di km ci fermammo  a riprendere fiato e a fare il punto della situazione. Decidemmo quindi di proseguire fino alla meta prevista e non farci rovinare la giornata. Dopo circa un’oretta raggiungemmo una baia ridossata da nord. Nella descrizione che mi era stata fatta quello doveva essere  Bandarka vicino al posto denominato “il terzo pozzo”. In effetti a circa 300 mt nell’interno trovammo dei resti di travi poste a cavallo di un’apertura sul terreno. Il fondo era asciutto ma intorno però cresceva una vegetazione lussureggiante, il che ci fece pensare che  a qualche metro di profondità ci dovesse essere dell’acqua dolce.

A  riprova di quanto pensavamo ad  una certa distanza scorgemmo delle capanne e vedemmo delle persone che stavano alando una barca sulla spiaggia. Non avrebbero potuto sopravvivere in quel luogo se da qualche parte non ci fosse stata dell’acqua. Passammo le tre ore successive a pescare ma nessuno di noi era particolarmente allegro. Il pensiero del ritorno attraverso il posto di blocco costituiva un peso che non riuscivamo a scrollarci da dosso. Quando furono le 15, dopo un breve spuntino,dissi a Vincenzo  che era meglio che  rientrasse a Mogadishu  passando per la strada interna, parecchio più lunga ma forse più sicura. Quindi, dopo aver in qualche modo chiesto ai pastori di indicarci la  pista per Jowhar, ci salutammo e il mio collega partì in direzione ovest. Io ritornai sui miei passi  lungo la stessa pista fatta all’andata. Pensavo che da solo, e con una donna in meno,  avrei potuto cavarmela meglio con i militari Quando ormai eravamo a circa  500 metri dal posto di blocco però ebbi come una premonizione: forse mi stavo infilando in una storia  il cui epilogo rischiavo di non scriverlo  io. Svoltai bruscamente a 90 gradi verso  ovest, dissi a Cristina di tenersi forte,  innestai le marce ridotte e iniziai a dirigermi verso la savana circostante. La mia intenzione era quella di bypassare il posto di blocco inoltrandomi per alcuni km nell’interno per poi rientrare verso il mare e riprendere la pista. Ma la mia manovra non era passata inosservata ai militari che probabilmente mi stavano aspettando al varco e magari dotati fortunosamente di un binocolo mi  avevano visto arrivare da lontano e già pregustavano il momento in cui mi sarei dovuto fermare davanti alla sbarra. Vidi i militari iniziare a correre per cercare di tagliarmi la strada (avevo visto che non avevano automezzi a disposizione quando eravamo passati al mattino)  e quindi accelerai vistosamente. L’auto  sobbalzava pericolosamente saltando sopra le dune e all’interno tutto ci cascava addosso, pesci compresi. Un militare che correva come una lepre  stava frapponendosi tra noi e una piccola altura sulla quale non avrei potuto salire e poi….iniziarono a sparare. A questo punto girai ulteriormente verso ovest e puntai in direzione di un greto di un torrente che scorreva più in basso rispetto alla linea di tiro dei militari. Il terreno era costituito di ciottoli piuttosto grossi e l’auto lanciata a più di 70 km all’ora sbandava e perdeva l’aderenza mettendosi di traverso. Dopo due testa-coda arrivammo in un  punto dove il  greto risaliva e fummo di nuovo a portata di tiro. Fortunatamente per noi non erano dei bravi  cecchini e probabilmente speravano  che noi ci saremmo fermati impauriti dagli spari. Continuai la folle corsa di nuovo in mezzo alle dune di sabbia: all’improvviso l’auto si infilò in un grosso avallamento e per alcuni secondi che a me sembrarono ore, fummo sul punto di cappottare in quanto le ruote posteriori erano rimaste sollevate da terra. L’auto ricadde pesantemente sul ponte posteriore e fece un   balzo in avanti. Ripresi il controllo della situazione e scalando le marce la Toyota uscì dal fosso e ricominciò a macinare metri  preziosi che ci allontanavano dai militari.  Dovevano veramente essere incazzati come zanzare perché vedevano la loro preda sfuggirgli   da sotto gli occhi ma non mollavano. I maledetti, evidentemente abituati a correre, non si stancavano facilmente. Poi all’improvviso Cristina che cercava di aggrapparsi  come poteva, guardando all’indietro attraverso il lunotto posteriore, mi disse che uno dei militari si era fermato e si era buttato per terra. Capii al volo che il bastardo  stava cercando di prendere la mira da fermo e d’altronde   l’auto era un bersaglio grosso e appoggiando l’arma a terra avrebbe potuto colpirci facilmente . Iniziai quindi a procedere a zigzag ed a spostarmi sempre più verso est per ritrovare la pista. Malgrado le mie manovre,  udii una detonazione e vidi un grosso pietrone  a circa 10 metri di distanza sulla mia sinistra esplodere in mille pezzi. Continuai a correre e dopo circa un minuto arrivai sulla pista battuta. Una grande,  frenata  una grossa sbandata sulla destra, e sollevando una  nuvola di polvere  imboccai la pista levando le ridotte e salendo in pochi secondi a 120km all’ora. Eravamo salvi ! Continuai a correre come se fossi inseguito da un branco di lupi fino alle porte di Mogadishu e solo quando rimisi le ruote sull’asfalto rallentai e mi voltai per guardare indietro. Nell’interno dell’auto c’era un disastro!  Il pescato era sparso ovunque mescolato con l’attrezzatura da pesca, la ghiacciaia si era spaccata e tutto il contenuto era caduto sui sedili posteriori. Le bottiglie di birra erano esplose ed il loro contenuto viaggiava mescolandosi con il sangue dei pesci, sul pavimento dell’auto….ma  tutto sommato ci era andata più che bene, avevamo salvato la pelle e evitato di vivere un’esperienza da incubo nel caso fossimo caduti nelle mani dei militari. Vincenzo e Clementina arrivarono la sera molto tardi, sfiniti ma senza particolari problemi. In seguito a questo episodio , all’omicidio del cooperante tedesco ed ad una particolare sensazione di insicurezza che aleggiava, cominciai a pensare che forse era arrivato il momento di lasciare la Somalia per un’altra destinazione. Avevo un cugino che si trovava da venti anni in Madagascar che mi aveva offerto di andare a lavorare con lui . Ma questa è un’altra storia.