“Cabo, cabo corri! Tu viene cucina! Sal non c’è! Sal finito! Sta su terra! Correre tu cabo correre ora!”
Erano da poco passate le 19 ed ero appena rientrato a casa dopo una giornata estenuante iniziata alle 6 del mattino con una corsa al campo base dove c’erano stati dei tafferugli tra le milizie di Aden Scheik e alcuni autisti che erano stati beccati a svuotare i serbatoi del gasolio di alcuni mezzi. La nostra battaglia quotidiana contro i ladri di qualsiasi cosa questa volta ci aveva visti vittoriosi perché evidentemente il miliziano non era stato pagato a sufficienza per far finta di niente girandosi dall’altro lato mentre i succhiatori cercavano di uscire col loro bottino da un buco praticato nella recinzione. I tre erano stati fermati, legati come salami e messi nella condizione di non nuocere dentro il container del posto di blocco vicino all’entrata del campo…dovevano essere interrogati dal Captain… La mia presenza era obbligatoria proprio per impedire qualche futura rappresaglia da parte del trio di autisti che comunque sarebbe stato licenziato ma che nel caso fosse stato picchiato, come era prassi, dai miliziani, in futuro ci avrebbe potuto creare dei problemi seri, peggio del furto di gasolio. Quindi dovevo recitare il ruolo del bravo saggio padre di famiglia che li sgridava per il misfatto, li licenziava ma che comunque li salvava dalle legnate che il Captain ed i suoi accoliti avrebbero loro affibbiato volentieri. Io praticamente il loro salvatore..”cornuto e mazziato “come si dice a Napoli, cazzo!
Rientrato a Mogadishu, avevo passato il resto del pomeriggio in ufficio a fare il medico in quanto ben otto dei miei assistenti espatriati si erano beccati la gonorrea andando a scopare a destra e a manca e alcuni di loro lo avevano scoperto dopo essere rientrati dalle ferie ed aver passato dei giorni in famiglia… Le medicine ce le avevamo in filiale ma la società non aveva mandato dall’Italia alcun medico pensando che avremmo potuto utilizzare un ambulatorio che c’era in città gestito da un dottore italiano….tale possibilità si era rivelata improponibile, meglio sorvolare circa l’ospedale di Mogadishu, quindi il sottoscritto, che in tanti anni di Africa era stato costretto a farsi e a fare iniezioni di ogni tipo e in tutti i posti del corpo dove fosse necessario, di fronte a uomini di più di 40 anni, grandi e grossi e terrorizzati e sull’orlo del pianto, mosso a pietà, si era offerto di bucare le loro chiappe, in un afflato di cameratismo e solidarietà maschile, pur condannando vivamente il loro comportamento scorretto.
Tornato finalmente a casa, mi ero buttato sotto la doccia anche perché aspettavamo degli amici a cena ed ero in ritardo assoluto. La voce del guardiano mentre mi stavo radendo, proveniva dal patio dietro casa. Nel retro a piano terra c’erano i servizi e cioè la lavanderia, il tavolo da stiro, la cucina, un magazzino con i congelatori e le riserve di cibo portate dall’Italia. In quel punto il muro di cinta che contornava tutto il compound, passava a circa un metro e mezzo dalla casa. E le grida di Hassan, il guardiano appunto, venivano da lì. Imbestialito, con un asciugamano intorno alle anche mi precipitai giù per le scale, imprecando contro di lui promettendogli che lo avrei preso a calci in culo.. Hassan mi venne incontro e a quel punto guardandolo in faccia capii che era successo qualcosa di grave. Il poveretto , un ometto sulla sessantina, con pochi capelli grigi sulle tempie scarne, barbetta caprina, djellaba bianca, ripeteva con gli occhi spalancati: “Sal finito! Sal via! Sal non c’è! Tu viene qua cucina vedere! “ Lo seguii di corsa e mi condusse nel corridoio tra la cucina e il muro di cinta. Lì, steso per terra, in una posizione innaturale, con la gamba sinistra storta con il piede verso l’esterno e le braccia larghe a croce, a faccia in giù, giaceva Sal, il cuoco. “ ma che cazzo è successo?” Mi avvicinai al poveretto che sicuramente si era ferito al volto cadendo perché perdeva sangue da uno zigomo e cercai di girarlo. Gli appoggiai il dorso della mano sotto il naso e sembrava che effettivamente non respirasse. Aiutato da Hassan lo girammo sulla schiena. Doveva aver avuto un infarto improvviso e senza che nessuno se ne accorgesse era caduto sbattendo la testa sul marciapiede. In quel momento Marco e Giacomo che erano entrati dal cancello principale che nella confusione era rimasto aperto , seguendo le grida del guardiano e le mie imprecazioni erano approdati in cucina dopo aver fatto il giro della casa. “ Ragazzi, scusate ma credo che questa sera non mi sarà possibile cenare con voi” “quello che vedete per terra è Sal il mio cuoco ed è morto”. Mossi dal desiderio di aiutare, Marco e Giacomo si chinarono sul corpo e gli tastarono il polso per sentire se c’era battito, uno afferrò quello sinistro l’altro quello destro..” c’è battito, c’è battito, non è morto!” Mi avvicinai e mi resi conto che i due amici stavano sentendo l’uno il polso dell’altro attraverso il corpo del morto. Ci guardammo in faccia e scoppiammo a ridere. “Siete due coglioni ragazzi”! Dissi, “ Datemi una mano a girarlo e a sfilargli la camicia e sentiamo il cuore direttamente”. Dal cuore nessun segnale di vita ma ciò che attirò la nostra attenzione furono numerose bruciature, come di cicche di sigaretta , tutto intorno al petto. Hassan che era chino sul corpo, avvertì il nostro stupore e disse:” Sal bukaanka wadnaha, (malato di cuore) fare daawo dhaqameed (medicina tradizionale). Evidentemente il poveraccio soffriva di una patologia che non curata adeguatamente, lo aveva portato alla morte. Mandai il guardiano a chiamare la polizia che arrivò dopo circa una mezz’ora. Il tenente, che conoscevo, arrivò a bordo di una vecchia Renault 16 che un tempo forse era appartenuta a qualche sfigato occidentale che lavorava a Mogadishu per una organizzazione non governativa, perché sulla portiera recava ancora il simbolo di Oxfam International. Il tenente Warsame Musse Jama, era molto infastidito, era giovedì sera e voleva andarsene a casa. Quando Hassan era entrato nella stazione di polizia situata a circa un km dal nostro ufficio, lui stava partendo per casa e solo perché noi davamo lavoro ad alcuni suoi parenti, aveva accettato di seguire il guardiano fin nei nostri uffici. Si chinò sul corpo di Sal, lo guardò con occhio critico, leggermente disgustato, ci chiese cosa faceva come lavoro e poi dopo aver preso alcuni dollari per il suo disturbo ci indicò le modalità che dovevamo seguire e se ne andò. In totale 5…10 minuti massimo. Il suo atteggiamento era motivato dal fatto che era di etnia Marehaan, la stessa del presidente Barre, e quindi considerava i suoi confratelli somali neri, ben più neri di lui, provenienti dalle regioni del sud , Chisimaio, Dujuuma, Afmadù , degli esseri inferiori , degni solo di fare gli schiavi. Conoscevo bene quel modo di fare e quindi mi astenni da qualsiasi commento.
Dissi a Cristina che nel frattempo era sopraggiunta spaventata dal trambusto ,che avrei dovuto portare alla morgue dell’ospedale il povero Sal e che comunque sarei tornato per cenare insieme agli amici…che mi aspettassero bevendo qualcosa. L’atmosfera non era delle più gradevoli ma ormai gli amici erano lì e non mi andava di rimandarli a casa. D’altronde pensavo che non avrei tardato troppo a tornare….Pensavo erroneamente. Dopo aver caricato il corpo sul cassone di un pick up, mi diressi insieme ad Hassan verso la casa dove abitava Sal con la sua famiglia, un sobborgo a sud della città. Quando arrivammo circa 40 minuti dopo, Hassan entrò in casa e subito dopo due donne una più vecchia ed una più giovane ne uscirono gridando e si arrampicarono dentro il cassone buttandosi sul corpo di Sal. Il frastuono, le grida, i pianti, ben presto attirarono la curiosità degli altri abitanti del luogo che uscirono e si assieparono intorno all’auto e iniziarono a guardarmi malissimo. Capii al volo che tutti si erano immaginati che io avessi investito Sal con l’auto e che ora lo stessi riportando a casa. La calca aumentava e io afferrai il povero guardiano per la djellaba lo trascinai sul tetto del pickup e gli dissi di spiegare a gran voce quello che era successo al cuoco, prima che fosse troppo tardi. Il sudore mi colava lungo la fronte e mi bruciava gli occhi mentre dopo aver messo in moto mi accingevo a portare la salma con le due donne, rispettivamente la moglie e la madre del morto, al Madina Hospital.
Avevo rischiato di essere linciato!
Il corteo funebre arrivò alla morgue dell’ospedale verso le 22. Sal aveva due bimbi di pochi anni e per la famiglia, la perdita dell’uomo che lavora è una tragedia. Spesso nei nuclei familiari composti di vari fratelli e sorelle con rispettivi mogli e mariti, anziani genitori,figli, nipoti etc. chi lavora e porta la pagnotta a casa la condivide con gli altri. Quindi la morte di Sal aveva messo in crisi molte persone. Lì nell’androne della camera mortuaria, tentai di dire delle parole di conforto alla vedova, una giovane donna sulla ventina, dai capelli pieni di lunghe treccine posticce attaccate secondo la moda ai capelli veri ricci e crespi . Lei piangeva silenziosamente composta nel suo dolore e parlando un italiano sconnesso diceva “ Sal malato, noi sa, lui lavorato troppo, troppo”. Dai suoi occhi traspariva una grande paura , paura per il futuro, per come avrebbe potuto sfamare i suoi figli. Le dissi, di passare l’indomani per l’ufficio che la nostra società avrebbe fatto il possibile per aiutarla. Lentamente aiutai a scaricare il corpo che due inservienti coprirono con un lenzuolo e trasportarono all’interno su una lettiga. Risalii in macchina e ripartii alla volta della filiale. Quando arrivai non mi andava di cenare, ma un sano umorismo macabro propinatomi dagli amici che mi avevano aspettato, cambiò la prospettiva.. Marco disse “ ma sei sicuro che il cuoco non abbia assaggiato ciò che aveva preparato?” E Giacomo aggiunse” hai tentato di avvelenarci tutti brutto bastardo” E poi “ bel modo di accogliere gli amici, scommetto che avresti chiesto a noi di assaggiare per primi”…Io non riuscivo a trovare argomentazioni valide a giustificare l’accaduto, continuavo ad allargare le braccia in segno di costernazione, avevo ancora nelle narici il puzzo spaventoso della camera mortuaria dell’ospedale, un misto di formaldeide, candeggina, creolina , e negli occhi lo sguardo perduto della moglie di Sal. Sapevo che la cena era stata preparata minuziosamente da Cristina che aveva fatto l’aragosta alla Thermidor e creato un piatto a base di seppioline e funghi porcini e che Sal, come sempre, aveva solo collaborato cercando di imparare. Però era giusto anche per Sal stesso che noi facessimo onore a quanto con cura ed amore aveva preparato Cristina per tutti noi…”Andiamo ragazzi venitevi a sedere, mangiamo e brindiamo in ricordo di Sal” “ era un ottimo cuoco ed una brava persona, almeno ricordiamolo così!” La serata con l’unica eccezione di Cristina che non riusciva ad essere allegra, passò tra battute e risate ma io non credo che abbiamo per questo mancato di rispetto al povero Sal, anzi probabilmente è stato il modo per esorcizzare un avvenimento tragico vissuto in un ambiente difficile di una realtà, quella somala, dove la morte era in agguato ogni giorno.