Il governo Meloni è uscito allo scoperto, rivelando ciò che in fondo era l’ennesimo segreto di Pulcinella della politica italiana: per onorare gli impegni economici e coprire la legge di Bilancio appena approvata bisogna fare cassa. Via dunque a un nuovo piano di privatizzazioni delle imprese partecipate dallo Stato che porterà.

Il nuovo piano di privatizzazioni che riguarderà i settori strategici del Paese prende forma, dando seguito a quanto previsto a settembre nella Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF). La settimana scorsa si è tenuto a Montecitorio un question time, in cui sono state avanzate domande a Giorgia Meloni e ai suoi ministri. Tra i temi trattati è comparsa anche la vendita di pezzi di imprese partecipate dallo Stato. Interrogata sui progetti relativi a Poste Italiane Fausta Bergamotto, sottosegretaria al Ministero delle Imprese e del Made in Italy, ha dichiarato: «l’idea al vaglio dei soci pubblici (Cassa deposito e prestiti e Ministero dell’Economia, ndr) sarebbe quella di diluire la quota di entrambi mantenendo comunque la maggioranza assoluta del 51 per cento e dunque il controllo dello Stato non verrebbe messo in discussione». L’intenzione è di riservare quindi una “tutela” minima a quella società che nel 2018 l’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni, all’epoca all’opposizione, definiva «un gioiello che deve rimanere in mano italiana e pubblica». Attualmente il nostro Paese controlla, attraverso Cassa deposito e prestiti e Ministero dell’Economia, il 64,26 per cento delle azioni della società postale. Per continuare a essere socio di maggioranza la cessione dovrebbe pertanto riguardare il 13 per cento delle azioni, il che si tradurrebbe, alle cifre attuali, in circa 1,7 miliardi di euro.

Per quanto riguarda invece il colosso energetico ENI, si stima di cedere il 4 per cento delle azioni statali, facendo assestare la quota pubblica intorno al 30 per cento. L’operazione dovrebbe portare nelle casse dello Stato circa 2 miliardi di euro. Un ulteriore miliardo è atteso nell’anno corrente dalla completa privatizzazione del Monte dei Paschi – mossa più volte invocata dall’Unione Europea. La cessione del rimanente 39 per cento delle azioni statali – così ridottesi dopo le operazioni di vendita del novembre scorso – si tradurrebbe in un’entrata di circa 1,4 miliardi di euro. Con le operazioni delle tre società citate si arriva a un incasso di 5 miliardi, appena un quarto dell’obiettivo dichiarato.

L’onda della privatizzazione dovrebbe interessare anche le Ferrovie dello Stato, ad oggi società a partecipazione pubblica organizzata in forma di holding, dunque una società che controlla altre società. Seguendo le linee guida emerse, il governo potrebbe decidere di vendere il 40 per cento delle Ferrovie e tenersi il restante 60 per cento delle azioni. La quantificazione del ricavo non è semplice, dal momento che andrebbe ben definito il valore della rete infrastrutturale (come strade e binari), creata negli anni a suon di investimenti pubblici e dunque di soldi dei contribuenti. A ciò si aggiunge la questione del come saranno remunerati i futuri investimenti realizzati a quel punto da fondi privati. Un costo che potrebbe ad esempio tradursi in tariffe maggiorate e finire direttamente sui consumatori attraverso un aumento dei prezzi dei biglietti dei treni.

Neoliberismo e privatizzazione

Lo scenario di un nuovo caro biglietti all’orizzonte apre il dibattito sugli effetti della privatizzazione e sulla funzione dello Stato nell’economia. Il neoliberismo – pensiero economico oggi dominante – demonizza il ruolo dell’attore statale e la spesa pubblica, a favore di un libero mercato senza freni e del processo di privatizzazione. Secondo la teoria neoliberista, gli attori privati dovrebbero agire sul mercato in termini concorrenziali, portando a una diminuzione dei costi finali (e dunque dei prezzi delle merci) per i consumatori e a un aumento della qualità della merce prodotta e venduta. Questa concorrenza in teoria libera ma nella pratica subordinata alla volontà di pochi e dunque ingarbugliata nella legge degli oligopoli sarebbe in grado di autoregolare il mercato, inseguendo il principio dell’efficienza e conferendo alle persone la “libertà” di poter decidere come spendere il proprio reddito, trovando una sponda nella riduzione al minimo delle tasse e nell’azzeramento della spesa sociale.

Il pensiero neoliberista ha iniziato a diffondersi in Occidente e nel mondo a partire dalla fine degli anni ‘70, trovando un primo laboratorio nella gestione economica del Cile di Pinochet. La nuova teoria ha spodestato quella in vigore – che faceva capo alle intuizioni di John Keynes – smantellando man mano l’assetto socialdemocratico che aveva assunto larga parte dei Paesi occidentali. Nel periodo compreso tra il secondo dopoguerra e gli anni ‘70 l’attore pubblico era visto come il regolatore dell’economia e il garante di un sistema fiscale progressivo dove i profitti delle aziende e dei cittadini più ricchi dovessero essere altamente tassati per finanziare solidi sistemi pensionistici, scolastici, sanitari e, in generale, di protezione sociale. Il ruolo centrale nell’economia conferiva autorità allo Stato, il quale aveva il compito di garantire il funzionamento dei servizi pubblici e di porre rimedio ai fallimenti di un mercato mosso – è bene ricordarlo – non dalla ricerca del benessere degli individui bensì dalla massimizzazione dei profitti.

Privatizzare l’Italia

Privatizzare, privatizzare, privatizzare. Ripetuta come un mantra, quella che è stata definita una “scelta ideologica di modernità” ha cambiato il volto dell’economia italiana. Nel 1993 la classe politica sorta dalle ceneri della Prima Repubblica ha individuato in una profonda campagna di privatizzazione la panacea e l’unica soluzione possibile al risanamento dei conti pubblici e di un’immagine sfregiata dallo scandalo Tangentopoli. La presenza statale nel mercato, attraverso decine di imprese partecipate, è stata indissolubilmente legata a fenomeni quali corruzione, inefficienza, eccessiva burocratizzazione, scarse capacità manageriali e assenza di seri piani industriali. Un’accusa frontale e generalizzata, che al posto di innescare un processo di autocritica e di risoluzione dei problemi, ha di fatto spazzato via il ruolo pubblico all’interno dell’economia.

Così, abbagliati dalla promessa di una governance privata efficiente, anti-spreco e trasparente, la classe politica italiana ha consegnato le chiavi del potere economico, procedendo in parallelo lungo la strada dello smantellamento della spesa pubblica. Si sono silenziate le questioni storicamente connesse al processo di privatizzazione delle società partecipate, come il conflitto d’interesse tra gli investitori privati e il perseguimento del bene comune. I privati potrebbero ad esempio esercitare pressioni per massimizzare i profitti a breve termine, a discapito dell’innovazione, della sostenibilità, del benessere generale o degli investimenti a lungo termine. La presenza dell’attore pubblico, più che la frequente concorrenza al ribasso tra privati, potrebbe inoltre stimolare e guidare una nuova stagione dei diritti dei lavoratori, non di rado limitati e compressi dai competitor non statali. Infine non può non essere citata la rinuncia – parziale o totale – dei dividendi futuri che comporta la privatizzazione delle società partecipate. Ritornando al caso recente si può prendere in considerazione Poste Italiane, che nel 2022 ha registrato un fatturato di 11,8 miliardi di euro e un utile netto pari a 1,5 miliardi.

Ad oggi, a distanza di trent’anni dall’ascesa del neoliberismo e delle privatizzazioni, possiamo tracciare un bilancio preciso delle promesse fatte dalla classe politica a milioni di italiani. L’ampia campagna di smantellamento della funzione pubblica, iniziata nel 1993 e proseguita negli anni a venire, ha interessato i settori strategici dello Stato: dal credito alle telecomunicazioni, passando per autostrade e automotive. Il debito pubblico non è diminuito, la corruzione non è scomparsa e diverse aziende in salute durante la gestione statale sono crollate sotto l’amministrazione privata. Esempio lampante è Telecom Italia, che sul finire dello scorso millennio contava più di 120 mila dipendenti, bilanci ampiamente positivi, filiali in giro per il mondo e partecipazioni in Francia, Spagna, Serbia, India e America Latina. Oggi la società dà lavoro a meno della metà dei dipendenti e si ritrova a fare i conti con un passivo da oltre due miliardi e mezzo di euro (dati 2022).

La privatizzazione è l’unica via per finanziarsi?

A novembre 2023 il debito pubblico italiano era pari a 2868 miliardi di euro, a fronte di un Prodotto Interno Lordo (PIL) di circa 2 mila miliardi. Ciò significa che il rapporto tra le due grandezze è del 140 per cento. In poche parole siamo sommersi dai debiti, che non riusciamo a ripagare con quanto produciamo. Come visto, la privatizzazione è una misura con effetto a breve termine che consente agli Stati di batter cassa, rinunciando – tra le altre cose – al diritto a futuri e costanti introiti. Mentre il governo Meloni usciva allo scoperto con il suo piano di privatizzazioni, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (OCSE), non proprio un covo di comunisti, ha invitato l’Italia ad avviare un iter di riforme fiscali per incidere positivamente sul debito. Nello specifico, l’organizzazione suggerisce di spostare le imposte dal lavoro al patrimonio e alle successioni; una richiesta a cui ha fatto eco a livello mondiale l’appello lanciato da 250 milionari e miliardari in occasione del vertice di Davos per chiedere l’introduzione di tasse patrimoniali in modo che “i super ricchi possano contribuire a pagare migliori servizi pubblici”. Di recente la Banca d’Italia ha rivelato che “il cinque per cento delle famiglie italiane più ricche possiede circa il 46 per cento della ricchezza netta totale”. Nel 2020 una simulazione realizzata dall’economista l’economista Emmanuel Saez  ha previsto che, applicando in Italia un prelievo del 2 per cento ai patrimoni superiori ai 50 milioni di euro e del 3 per cento a quelli che superano il miliardo, si otterrebbe un’entrata annuale di circa 10 miliardi di euro.

Ritornando al reddito è necessario citare l’ultimo studio congiunto della Scuola Superiore Sant’Anna e dell’Università di Milano-Bicocca, che ha rivelato la situazione paradossale in cui è ingarbugliato il sistema fiscale italiano. Quest’ultimo, infatti, è solo moderatamente progressivo per il 95 per cento dei contribuenti con reddito più basso, mentre diventa regressivo per il 5 per cento più ricco. A pesare sul risultato è soprattutto la composizione del reddito dei super ricchi, dove la fanno da padrone rendite finanziarie e locazioni immobiliari, che godono di un regime tributario agevolato. Tale quadro tracciato dalla Scuola Superiore Sant’Anna e dall’Università di Milano-Bicocca stride in modo evidente con l’articolo 53 della Costituzione, secondo cui “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

[di Salvatore Toscano]

FONTE

Di the milaner

foglio informativo indipendente del giornale

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