di Marcello Veneziani

Ma ve li immaginate quei due insieme a ottant’anni? Dico di Lucio Battisti e Lucio Dalla, che avrebbero compiuto a distanza di poche ore ottant’anni, essendo nati rispettivamente il 4 e il 5 marzo del ’43. Difficile immaginarli sotto il peso degli ottant’anni; furono leggeri, e freschi, incompatibili con l’età grave. Insieme hanno rappresentato la favola sonora del canto italiano nella musica leggera, anzi lievissima. 

Lucio Battisti è stato l’ultimo mito italiano. Ha unito le generazioni come nessuno dopo di lui, ha unito da nord a sud, da destra a sinistra, elite e popolo, anima collettiva e intimità privata, cantando un’epoca e ciascuna biografia, il lato magico e intimo della vita di ciascuno. Qui vorrei ricordarlo come il testimonial estremo dell’anima latina, italiana e mediterranea. Vorrei ricordarlo, pur nella sua ritrosia, come patriota canoro dell’Italia ultima, che si andava già decomponendo. Battisti era amato e seguito in modo speciale da una generazione controcorrente che tramite lui collegava il romanticismo grande, pubblico e civile, al romanticismo piccolo, privato, intimo e amoroso. Ma erano sentimenti che appartenevano a noi, non importa che appartenessero pure a lui. Da un cantante non bisogna aspettarsi lezioni filosofiche o ideologiche, ma canzoni belle ed emozioni vere. Da portarsi nella tasca interna del sentire e non perché le abbia infilate lui; giacevano nei fondali della nostra anima. Lui le ha solo risvegliate, modulate, musicate. La poesia è nei diciott’anni che ascoltarono quelle canzoni, negli amori che fiorirono all’ombra di quella voce. Battisti è stato l’ostetrico di quelle emozioni, le ha tirate fuori da noi, da voi, ma erano nostre, sono vostre. Non attribuitele a lui, non c’è da vergognarsi di avere quelle emozioni, quei sentimenti.  La sua voce, la sua musica, i testi delle sue canzoni, scritte con Mogol, non sono figli del 68 né della colonizzazione musicale americana, ma furono frutto genuino di un cantautore italiano, di un singolo che esprime la sua irripetibile singolarità. Dei miti non interessa la storia, ma la mitologia.

Abbiamo però rimosso una cosa amara: Lucio è un mito italiano ma solo italiano, non ha sfondato nel mondo, anche col suo trasloco a Londra il suo successo non fu tradotto in chiave internazionale. Restò nostrano, celestiale e provinciale, mitico e locale. Battisti ci aiutò a riannodare i rapporti col nostro tempo, pur non amandolo, e con le nostre coetanee. Accompagnò i primi balli appassionati, tu chiamale se vuoi erezioni…Una voce tecnicamente improponibile, e magicamente insostituibile. Nell’epoca dell’invadenza del politico e del collettivo, evocò emozioni e mondi interiori; ci attaccammo a quelle storie d’amore per cantare le nostre e riabilitare l’universo a due in piena orgia da corteo e d’assemblea. Battisti fu il ponte fra il canto libero e la tradizione, fra leggerezza e intensità. Ci riportò nel nostro tempo a cavallo del mito, tra ritmi, parole e vestiti di quegli anni; dimostrò che si può essere romantici nell’epoca cinica della tecnica o nell’era ideologica della lotta armata. Poi quella voce così diversa che ripara la gioventù dall’ingiuria del tempo e che ti fa volare… Permanente giovinezza esprime il mito di Lucio Battisti.

La favola di Lucio Dalla, invece, è, si, italiana, ma non evoca come Battisti l’imperitura giovinezza, ma ha qualcosa d’infantile e di senzatempo: lui ci appare insieme vecchio e bambino, uniti nella giocosità. Se devo figurare Dalla lo immagino come un bozzolo brioso e villoso, con lo zuccotto in testa, venuto da un mondo parallelo di elfi, maghi e fatine. A volte Dalla ti portava tra gli angeli con la leggerezza di una piuma, lui così peloso e buffo, leggendario come un hobbit. Sapeva usare le corde dell’ironia, amava lo sberleffo, e l’opera buffa. A volte invece cantava puntando diritto al cuore, e ci arrivava subito, come pochi. La sua verace umanità era dentro la sua spiccata italianità che era dentro la sua vistosa bolognesità che era affianco della sua elettiva meridionalità marinara, da Tremiti a Caruso, l’inno più struggente della musica leggera. Il gran vantaggio di artisti come Lucio Dalla è che non hanno bisogno di vivere per comunicare alla gente, basta la musica, che vola ma resta e continua il volo anche se chi l’ha lanciato non c’è più: quando le canzoni riescono a toccare così sottilmente lo stato d’animo di chi la ascolta, a essere così universali e pure così intime e personali, escono dalla vita reale ed entrano nel mito, in quella specie di anfratto tra il gioco e il sentimento, irriducibile alla vita che finisce, per dirla col suo Caruso. Dalla ha lasciato il suo tesoro musicale al riparo dal tempo, traslocando nel paradiso armonioso e labile del canto. Sarà tre volte natale e festa tutto l’anno…e senza tanti discorsi qualcuno sparirà. E poi i suoi miracoli tra i vicoli di Roma, in Trastevere, e per la piazza Grande di Bologna, nella casa in riva al mare o davanti alla luna così familiare, il sogno di Futura e l’incanto lieve di Felicità, quel treno della notte che passa veloce e furtivo come una carezza nel sogno, la bellezza eterea e irriverente di “Se fossi un angelo”. Dalla emanava a volte una religiosità cosmica e puerile, che si identificava con Gesù bambino, come nel suo autobiografico 4 marzo 1943. Davvero sciocca, irrilevante, l’apologia della sua omosessualità da parte dell’Idiota Collettivo, insorto in coro dopo le riflessioni “scorrette” di Pupi Avati. Cosa toglie, cosa aggiunge alle sue canzoni discettare sui suoi gusti sessuali, che Dalla non ha mai esibito? Niente.

Se ne andarono prima del previsto, i due, si spensero i Lucii anzitempo, ma restarono più a lungo del previsto nella mente, nel cuore e nelle orecchie della gente. Il loro segreto è che non si limitavano a cantare ma sapevano incantare. Succede ancora. I giardini di marzo si vestono di nuovi colori…

La Verità – 4 marzo 2023

Di the milaner

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