di Enrica Martolini

Chiamare Valle Benedetta paese forse può apparire azzardato.
La piccola frazione si trovava, e si trova tutt’ora, sulle colline alle spalle di Livorno, dirimpetto al mare.

Valle Benedetta. Per me, negli anni ’50 era un paese incantato.
All’epoca la strada, che si inerpicava sulla collina con curve più o meno strette, era sterrata. 
Una caratteristica del territorio è di avere come terra il manganese, una terra secca e arida di colore rossiccio.
A Valle Benedetta quindi, c’era la terra rossa. Una terra che tingeva di rosso le auto. le scarpe, i vestiti e la pelle di noi bambine che in quella terra giocavamo libere dalla mattina alla sera.
Il paesino, all’epoca, si componeva di poche case sparse lungo la salita che portava alla piccola piazza. Nella piazza una rivendita di pane e prosciutto trasformata nel tempo in trattoria di campagna e una ripida salita che portava alla chiesa, Chiesa di San Gualberto, costruita alla fine del ‘600 quando alla Valle Benedetta c’erano soltanto briganti e lupi. La strada , via Fonda, si inerpicava ancora verso la cima della collina e, divaricandosi, portava a due ville, una costruita nel ‘700 e l’altra nel 1874. 
Una Villa Benini, l’altra Villa Martolini.
Davanti alla Villa Martolini, ora via del Radar c’erano “le baracche”. Le baracche erano povere case costruite alla belle meglio dopo la guerra, abitate da quattro famiglie che avevano perduto le loro case nel conflitto.

Io e la mia famiglia abitavamo a Milano, dove mio padre lavorava alla Montecatini e, nel mese di agosto, trascorrevamo le ferie di mio padre a Valle Benedetta nella Villa Martolini .
Villa Martolini era una antica villa dell’800 di proprietà di mia nonna. Un luogo incantevole, Un palazzo di due piani piuttosto austero, ma circondato da un vasto parco. Il parco era diviso in due parti, una parte boschiva, ma ben curata e una parte adibita a vigneto.
All’interno la casa aveva l’austerità di un’abitazione dell’800. A terreno una bella sala con mobili dell’epoca, uno studio e la cucina con un camino alto e molto grande, oltre a questo una stanzetta chiamata dispensa.
Al primo piano c’erano le camere, una camera matrimoniale, una camera con due letti singoli un bagno e altre due stanze poco utilizzate, una di queste era chiamata la stanza degli armadi. A mezza scala un austero orologio a pesi batteva le ore di coloro che soggiornavano in quella casa.
In quella casa, nel 1947, i miei genitori avevano passato la loro luna di miele.

Di solito il 1° di agosto iniziava il nostro mese di vita a Valle Benedetta. Mio padre e mia mamma arrivavano da Milano, noi bambine eravamo già a Livorno dai nonni e ci eravamo già fatte due mesi di mare ai Bagni Pancaldi. I miei genitori passavano a prenderci a Livorno e partivamo subito per la Valle Benedetta. La macchina che aveva mio padre dal 1955 al 1959 era una Topolino, una 500 C Fiat che noi chiamavamo Nina.
Mio padre l’aveva acquistata in contanti, pagandola circa cinquecento mila lire nel 1955, dopo essersi messo , mese dopo mese, i soldi da parte. 

A quel tempo, io avevo sei anni, abitavamo in via Cervignano, una strada nella zona Sud Est di Milano. Una zona che, da quando la lasciammo, non ho più rivisto.

Mio padre parcheggiava la Topolino, che noi avevamo ribattezzato Nina, proprio davanti al portone dello stabile dove abitavamo. La strada, infatti, era completamente libera di auto. Mi sembra ci fosse solo un’altra auto parcheggiata un po’ più avanti, davanti ad un altro portone, forse una Lancia.

La Nina era color panna. D’estate potevamo arrotolare il tetto, che era in tela cerata, e scoperchiarla. Una tendina a righe bianche e blu sostituiva quella che chiamavamo la capotte e, rimanendo distanziata dalla carrozzeria dell’auto, ci assicurava una gradevole frescura.

Mio padre sedeva alla guida, mia madre accanto. Io e mia sorella Roberta sedevamo sui “sedili” posteriori. I sedili consistevano in una specie di panca dura rivestita di un tessuto simile alla iuta che punzecchiava le nostre gambette nude. Mio padre, per farci stare più comode, aveva comprato due cuscini di gomma piuma rivestiti di una stoffa scozzese in cui prevaleva il colore verde. 

Noi due bambine ci divertivamo a stenderci all’indietro, perché la panchetta su cui sedevamo non avendo schienale, comunicava con il bagagliaio che, essendo vuoto, ci permetteva di infilare le teste e di schioccarci una dormitina. In quello spazio si percepiva un caratteristico odore, un misto tra l’odore del tessuto e la benzina, un odore preciso e inconfondibile. Quando andavamo a Livorno il bagagliaio però, era pieno di valige e noi eravamo costrette a stare sedute, le valige, in compenso, ci facevano da schienale. 

Il viaggio da Milano a Livorno durava un giorno intero. Partivamo al mattino verso le dieci, la mia mamma preparava le valige sempre all’ultimo momento, mettendo in agitazione mio padre. Mio padre studiava con attenzione la grandezza e il volume delle valige per farle entrare nel migliore di modi nel bagagliaio. Di solito ci fermavamo a mangiare in qualche ristorantino per strada. 

La strada era lunga, non esistevano autostrade. Percorrevamo la via Emilia, mi sembra fin dalle parti di Sarzana e poi il Passo della Cisa, Fornovo, Pontremoli e poi l’Aurelia fino a Livorno. Il Passo della Cisa era un’avventura. I camion col rimorchio carichi di merci si arrampicavano sulla salita ad una velocità di dieci, quindici chilometri all’ora. Mio padre, cercava con pazienza un piccolo rettilineo per superarli. E mia madre era terrorizzata dal fatto che il camion potesse perdere il rimorchio e travolgerci. Sulla Cisa, se era autunno,ci fermavamo e raccoglievamo le castagne, ma mai abbiamo acquistato i funghi porcini che, gli abitanti del luogo ci offrivano, sbandierando di tutto sul ciglio della strada, dai cappelli, ai bastoni con dei cenci legati in punta. I miei genitori non si fidavano, avevano paura di incappare in un fungo velenoso. Mentre facevamo la salita della Cisa, mio padre, per farci passare il tempo, ci incitava a spingere la Nina, muovendoci avanti e indietro sul sedile e tutti insieme dicevamo;”Issa” Issa!” aiutando così, nell’immaginazione di noi bambine, la nostra Nina ad affrontare meglio la salita!
E ad agosto, con la Nina zeppa di valige arrivavamo a Valle Benedetta. Come dicevo la strada era sterrata e all’inizio della salita ci inoltravamo in quel tappeto di polvere bianca. Anche se i chilometri da percorrere erano solo quattro o cinque, la strada a noi bambine sembrava lunga anche per il procedere lento della nostra Nina, ma all’improvviso capivamo che la meta era vicina. La polvere della strada da bianca diventava rossastra, la nostra terra della Valle. La nostra terra rossa. “La terra rossa, la terra rossa” urlavamo felici, contente di essere vicino alla casa della nostra spensierata libertà.
Ad aspettarci c’erano “i casieri”. I casieri erano una famiglia di Valle Benedetta, la famiglia Camporeggi , a cui mia nonna aveva dato alcune stanze della Villa come abitazione e in cambio loro coltivavano la vigna e facevano il vino che veniva diviso, dopo la vendemmia a metà tra mia nonna e loro. La famiglia Camporeggi era formata dai due nonni, Cesarone e Itala, dalla figlia Libia e dal marito Gino e dai tre figli Mariella, Ginetta e Fabio. Cesarone era un personaggio. Un uomo alto e robusto che aveva superato abbondantemente la settantina,
Portava il berretto e un gilet sopra una camicia a quadri. Camminava lento, e passo dopo passo lo vedevo recarsi nella vigna di cui era geloso per andare a zappare la terra, legare e curare le viti. Era un uomo di poche parole. Poche volte aveva lasciato la Valle Benedetta. E quando dovette accadere per fare una visita medica a Livorno stette in ansia per tre giorni, preparandosi a quell’avventura come se avesse dovuto andare in guerra. La moglie e la figlia Libia stavano in casa, curavano l’orto, si occupavano delle pulizie. Libia una volta la settimana faceva il pane. Accanto alla casa c’era “la serra” un edificio basso e abbastanza lungo. La prima stanza veniva usata come garage per la nostra auto e anticamente era la stalla per i cavalli della carrozza ottocentesca. Due splendide pompe per l’acqua in metallo oramai inutilizzate erano attaccate alla parete a sinistra. Nella stanza accanto c’erano invece due tini enormi che servivano per fare il vino dopo la vendemmia. Altre due stanze erano adibite a magazzino per gli attrezzi, In questo edificio c’era anche un forno a legna e Libia, come dicevo, tutte le settimane, in questo forno cuoceva il pane. Un numero sufficiente di pani bassi e larghi per durare tutta la settimana per la loro e per la nostra famiglia. Oltre al pane cuoceva anche una saporitissima schiacciata che veniva invece mangiata subito. Io, bambina, mi mettevo accanto a lei che con la pala metteva e levava il pane dal forno e sbirciavo, alzandomi sulle punte dei piedi, in quella bocca per vedere il fuoco di legna scoppiettare all’interno. Questi pani venivano poi riposti in una grande madia all’interno della nostra cucina e duravano, come ho detto tutta la settimana.
La vita alla Valle per noi bambine significava libertà. Ci alzavamo di mattina, facevamo colazione e mia mamma ci faceva indossare un grembiulino a quadretti. Da quel momento eravamo libere. Uscivamo nel gran parco della villa e giocavamo insieme alla figlia dei casieri, Ginetta. Ginetta era poco più grande di me e, come me, portava due trecce.
Giocavamo fino all’ora di pranzo e appena ci chiamavano correvamo in cucina dove ci lavavamo le mani un una piccola catinella di rame. Andavamo poi nella sala , mangiavamo e tornavamo di corsa a giocare. La sera, prima di cena, venivamo spogliate, messe in piedi in una tinozza ovale di metallo con i manici e lavate. L’acqua si tingeva del rosso della terra. Dopodichè cenavamo e dopo aver letto uno dei miei libri preferiti ce ne andavamo a letto.

A Valle Benedetta c’erano tre negozi. La Eda, Sandrina e Michelone, c’era anche Costanzo, detto il Rosso, ma a me sembra che lui fosse arrivato più tardi, forse negli anni ’60.
La Valle Benedetta era famosa a Livorno per andare a mangiare il pane e prosciutto. Le due botteghe che facevano questi panini erano la Eda e Sandrina. Botteghe che, piano piano si trasformarono in trattorie di campagna. Arrivando da Livorno la prima bottega che si incontrava era quella della Eda. Era poco prima del paese sulla destra, una casa bassa e lunga. In verità questa era la tabaccheria del paese ma ci si poteva anche mangiare il famoso pane e prosciutto e bere un buon bicchier di vino. Come ho detto la bottega era gestita dalla Eda, un’anziana donna del paese che indossava il vestito caratteristico di questa zona, un vestito nero o al massimo a fiorellini, sopra indossava un grembiale nero e in testa l’immancabile “pezzòla” una specie di foulard di cotone scuro o sempre a fiorellini annodato dietro la nuca. I capelli della Eda non li ho mai visti. Di questa donna ricordo con tanta simpatia le addizioni che faceva quando doveva consegnarti il conto della spesa. Dopo aver messo in colonna i diversi prezzi faceva la somma e diceva : “Segno il zero e porto ill’uno” e questo mi faceva tanto ridere. Quando arrivarono i registratori fiscali la Eda pensò bene di chiudere la trattoria e ritirarsi.
Il secondo negozio dove si poteva comprare pane, prosciutto e rifocillarsi era Sandrina. Sandrina era un’anziana signora. Il prosciutto, un buonissimo prosciutto toscano salato, lo teneva sul pianerottolo sopra il davanzale della finestra a metà scala. Da lei spesso venivo mandata a prendere due etti di prosciutto. Seguivo Sandrina sulla prima rampa di scale, ci fermavamo sul pianerottolo e lei col coltello, o meglio con “la curtella” come si diceva alla Valle Benedetta, tagliava il prosciutto in fette piccole e un poco spesse e ce lo incartava in quella che allora era la carta oliata.

Una volta dovette affilare il coltello e, in quattro e quattr’otto lo passò sullo scalino di pietra della scala. Io ne rimasi un poco stupita, ma si sa eravamo in campagna.
A proposito della curtella devo dire che qui a Valle Benedetta la parlata, a differenza di ora, non era la stessa che si usava a Livorno. Ad esempio a Livorno si dice “ir cortello” e alla Valle si diceva “la curtella”. La parlata era più campagnola e in quei quattro o cinque chilometri il vernacolo subiva dei cambiamenti.
Il terzo negozio era quello di Michelone, il più vicino a casa nostra. Da Michelone andavo a fare la spesa da sola.

Michelone era un uomo molto grosso, portava le bretelle che tenevano su dei calzoni il cui ultimo bottone non era mai allacciato e formava una piccola vu a causa della stazza della pancia. Aveva gli occhiali, in testa sempre il cappello e camminava a fatica. La moglie era una donna piccola e magra, con una crocchia tenuta in alto da alcune forcine, il viso era piccolo e proporzionato e rivelava un’antica bellezza. Si chiamava Fiorlinda e so che è morta alla veneranda età di 104 anni.

La “bottega” di Michelone era una stanza al piano terra della sua abitazione. Il pavimento era di mattonelle antiche, ma la cosa meravigliosa era il bancone. Era in legno massiccio in fondo alla stanza, tutto intagliato, alto più di un metro da terra. Per andare dietro al bancone c’erano due o tre scalini e a me, bambina di cinque o sei anni, quell’omone lassù dietro al bancone sembrava una montagna. Michelone vendeva la mortadella che noi in Toscana chiamiamo “melone”, il salame (buonissimo, toscano ma di piccole dimensioni) e, forse, la pancetta. Questi erano tutti i suoi salumi. Li teneva nella moscaiola, un armadietto in legno con lo sportello di retina d’acciaio che faceva prendere aria ai salumi ed evitare che entrassero le mosche. Il pane era quello che oggi chiamano di campagna, di due dimensioni: il pane tondo (di circa un chilo) e la piccia di mezzo chilo. Oltre a questo aveva all’inizio del negozio dei sacchi di iuta dove facevano bella mostra di sé farina bianca, fagioli, piselli secchi, ceci ecc.. Per rifornire il negozio di tutta questa mercanzia, il figlio di Michelone, Lido, si recava una volta la settimana a Livorno col barroccio tirato dal cavallo.

Come si entrava nella bottega un odore particolare ci faceva capire che eravamo entrati in un luogo dove c’era buona roba da mangiare.
La spesa quotidiana , quindi, veniva fatta nel negozio di Michelone, specialmente da me che, tutte le mattine mi facevo la mia passeggiatina passando davanti alle baracche.
Ma alla Valle non era possibile comprare la carne, non c’erano macellai. Per questo motivo, una volta la settimana, ci recavamo al Gabbro a fare la spesa settimanale di carne che, visto che non avevamo né frigo né freezer , non so come mia mamma la conservasse. Il Gabbro è tuttora un paese vicino a Valle Benedetta. Qui, sicuramente chiamarlo paese è più appropriato. Al Gabbro c’erano la chiesa due bar, diversi negozi, la farmacia. Una metropoli in confronto alla Valle.
Il macellaio si chiamava Piero, la sua bottega era in fondo a una stradina in discesa. Al suo negozio si accedeva con tre scalini. Anche qui il banco era mastodontico e alto, ma, a differenza di quello di Michelone che era in legno, questo era in marmo. In mezzo alla macelleria poteva capitare di trovare una bestia macellata e tagliata a metà, ma non ancora sezionata, operazione che Piero avrebbe fatto quando il negozio era chiuso. La carne di Piero era speciale e rinomata in tutta Livorno.
Oltre a questo ogni mattina, a casa nostra , si presentava la lattaiola. La lattaiola era una dei tanti fratelli Martelli. Arrivava ogni mattina accompagnata dal marito in moto davanti a casa nostra e noi uscivamo con il bricco del latte di alluminio per farcelo riempire. La lattaiola prendeva un pentolino da mezzo litro, apriva il contenitore da diversi litri sempre in allumino che portava attaccato al sellino di dietro della moto e ci forniva il litro di latte necessario alla colazione mattutina. Era un latte crudo e grasso che andava rigorosamente bollito per evitare eventuali malattie e quella bollitura faceva si che in superficie si formasse una specie di panna spessa che noi chiamavamo ricotta e mettere un po’ di quella ricotta sulla superficie del nostro caffellatte per noi era una leccornia.
Mentre soggiornavamo a Valle Benedetta, ad aiutare la mia mamma a fare le faccende domestiche, veniva una donna del paese, Graziosa. Graziosa era, a dispetto del suo nome, una donna alta e robusta. Portava naturalmente la pezzola in testa e il famoso grembiule. Graziosa faceva, una volta la settimana, il bucato a mano (le lavatrici non esistevano) Si metteva alla fonte che era in giardino con davanti una gran conca di coccio e un asse in legno e, con pazienza, bagnava i panni, li insaponava con un pezzo di sapone di Marsiglia, li sbatteva, li risciacquava e poi li metteva ad asciugare stesi ad un filo che era nell’orto.

Alcune volte però la mia nonna aveva mandato alla Valle una sua signora che la aiutava nei lavori domestici a Livorno Questa donna si chiamava Vermiglia e io la ricordo con tanta simpatia e nostalgia. Vermiglia era il suo secondo nome, lei si chiamava Maria, ma tutti la chiamavano Vermiglia.

Era nata in un piccolo e povero paesino della Garfagnana alla fine dell’800. Appena dodicenne fu mandata come si diceva allora ” a servizio” in una famiglia benestante di Livorno. La famiglia era quella del mio bisnonno Luigi, ricco commerciante livornese. La mia nonna, Edwige, aveva la stessa età di Vermiglia. Per quanto ci fosse differenza sociale, eravamo agli inizi del ‘900, tra le due bambine, sole in una grande casa, nacque un’amicizia. Le ragazzine crebbero, la mia nonna si fece una graziosa signorina di buona famiglia, Vermiglia continuò il suo lavoro di domestica nella casa, diventando, tra l’altro, una cuoca sopraffina. La mia nonna, nel 1919 si sposò e nel 1930 il mio bisnonno morì. Vermiglia continuò il suo lavoro nella casa di mia nonna. Io la ricordo, negli anni ’50, quando ero una bambina, nel suo regno, che era la cucina. Faceva dei pranzetti deliziosi, ma quando iniziava a cucinare faceva uscire tutti dalla cucina e non voleva che nessuno le stesse d’intorno, un po’ per lavorare tranquilla, un po’ per non svelare i suoi segreti. Fra i suoi patti una straordinaria carne al limone, era un arrosto tenerissimo con una salsa al limone deliziosa, la cui ricetta è rimasta un segreto. Vermiglia abitava quindi da mia nonna, lavorava tutto il giorno, ma la sera, alle cinque, finito il suo orario di lavoro, usciva. Aveva i capelli pettinati ordinatamente con la scriminatura da una parte e tagliati pari sotto le orecchie. In casa portava delle strane mollette lunghe di alluminio che quando toglieva le lasciavano sui capelli delle onde regolari. Nelle sue uscite pomeridiane andava spesso al cinema, ricordo anche che disse di non essere andata a vedere “La Dolce Vita” perché era un film “vietato ai minori di 14 anni”. nonostante lei fosse intorno ai 60. Accadde che un giorno, nelle sue uscite, un signore ultrasettantenne, già vedovo per ben tre volte, cominciasse a farle qualche complimento e, dopo qualche tempo le chiese di sposarlo. Erano oramai due persone anziane, ma Vermiglia fu lusingata da questa richiesta e decise di accettare. Comunicò la sua decisione a mia nonna che rimase un po’ perplessa, ma che comunque dette a Vermiglia tutto quello che le spettava, dato che ormai anche lei aveva già l’età della pensione. Va detto che Vermiglia aveva a quel tempo una buona situazione economica, aveva la sua pensione e aveva messo da parte qualche soldo, visto che non aveva mai avuto spese di sostentamento vivendo in casa dei miei nonni e il suo stipendio lo aveva messo in gran parte in banca. E il signor in questione questa cosa l’aveva valutata. Fatto sta che Vermiglia si sposò e andò a vivere col marito. Ma le cose non andarono bene, lei era una persona molto pulita e lamentava che il marito non lo fosse altrettanto, lui litigava spesso, la trattava male e le chiedeva dei soldi. Il matrimonio durò solo sei mesi e un bel giorno Vermiglia “appiattò la valigia sotto il letto”, come disse lei e appena fu sola scappò e tornò dalla mia nonna. Il marito la denunciò per abbandono del tetto coniugale, ma visto che lui di lì a poco morì, la cosa non ebbe seguito. Di tutta questa storia Vermiglia conservava un lato positivo perché diceva che “almeno non era morta zitella”. Vermiglia rimase ancora un po’ con la mia nonna e poi decise di ritirarsi in un pensionato per persone anziane. Ricordo che mia nonna la andava a trovare tutte le settimane. E ricordo anche i pianti sommessi di mia nonna, che non avevo mai visto piangere, quando Vermiglia morì.
Come dicevo, quindi, Vermiglia , per alcuni periodi lavorò alla Valle da noi, in estate. I casieri avevano alcune galline. Una di queste si era troncata una zampa rimanendo incastrata in una porta ed era rimasta zoppa. Per questo la soprannominammo “la zoppina”: La zoppina, a causa della sua infermità, non riusciva a scappare come le altre galline e per questo chiunque la volesse prendere in braccio ci riusciva. Per noi bambine questo era un gran divertimento. La prendevamo, la accarezzavamo, le davamo qualche chicco di granturco. La zoppina dopo i primi spaventi, capì che non c’era niente di pericoloso e iniziò a farsi prendere tranquilla senza manifestare spavento, anzi, forse per manifestarci la sua amicizia, ogni mattina, dopo aver fatto l’uovo, entrava in cucina e ci annunziava l’evento con i suoi coccodè. In cucina c’era naturalmente Vermiglia che subito si affezionò alla zoppina, diventando la sua protettrice. Vermiglia e la zoppina erano una coppia fantastica

La cucina era una stanza dalle sembianze antiche. Era rimasta più o meno come nell’800. Vi si accedeva dall’interno da una porta che dava su una minuscola entratura dove un “passavivande”, un piccolo sportellino in legno, permetteva di passare i piatti pronti alla sala da pranzo. Era una stanza ampia e quadrata. Oltre alla porta che portava alle altre stanze c’era una finestra e un portoncino in legno di antica fattura, provvisto di una chiave in ferro lunga circa venti centimetri e due possenti paletti in ferro, che si affacciava sul giardino. In mezzo alla stanza un tavolo in legno con il piano di marmo bianco. A sinistra della porta un’acquaio sempre in marmo bianco grande e molto basso, all’interno del quale erano posizionate due conche bianche e verdi che servivano per lavare i piatti, in una veniva messa l’acqua e sapone per lavare e nell’altra acqua fresca per risciacquare. L’acqua che arrivava dal rubinetto non era acqua potabile, ma arrivava dalla cisterna sotterranea posta in giardino che raccoglieva acqua piovana.
Quest’acqua, prima di arrivare al rubinetto doveva essere pompata in un serbatoio che era nel sotto tetto e questo veniva fatto con una pompa a mano. La pompa era in cucina a destra del portoncino. e, una volta ogni tre o quattro giorni, Cesarone veniva a pompare l’acqua. La pompa era alta circa due metri, in metallo e attaccata al muro con fregi e riccioli. Cesarone si metteva seduto su uno sgabello e con movimenti regolari e lenti mandava la pompa avanti e indietro, dandoci la possibilità di avere acqua corrente, anche se non potabile, sia in bagno che in cucina, acqua che noi non usavamo per scopi alimentari. Accanto alla finestra un’antica e possente madia, dove negli anni 50 veniva riposto il pane per la settimana e in seguito diventata un armadio per le stoviglie. Alzando il coperchio si sentiva un odore caratteristico. Ma il pezzo grosso della cucina era il camino. Il camino era sulla parete a sinistra del portoncino e ne occupava tutta la lunghezza. Era un camino adatto più che per riscaldare, visto che la casa era nata come casa per le vacanze estive, per cucinare. La cappa era molto grande e sotto c’era, a circa un metro di altezza il ripiano sia per fare il fuoco sia per contenere i tre fornelli che andavano a carbone. Sotto ogni fornello uno sportellino di metallo dove inserire la carbonella da aprire, chiudere o socchiudere per regolare la potenza del fuoco. Fuoco che andava incrementato sventolando una ventaglia in paglia davanti allo sportellino aperto. Spesso, compito questo, di noi bambine. Come dicevo l’acqua che usciva dal rubinetto di cucina non era potabile, quindi per usi alimentari che acqua usavamo? Usavamo l’acqua della Buca della Tagliata  

La Buca della Tagliata era una sorgente d’acqua a poche centinaia di metri dalla casa. Vi si giungeva dopo circa un quarto d’ora di cammino percorrendo due sentieri nella boscaglia della Valle Benedetta. Questa sorgente aveva lo scopo, fino agli anni ’50, di fornire acqua potabile, o per meglio dire, acqua fresca e pulita alla mia famiglia.

E allora, ogni tre o quattro giorni, ci attrezzavamo con recipienti vari: fiaschi, bottiglie e due meravigliose brocche di rame e ci incamminavamo nel bosco per rifornirci di acqua da bere. Il cammino non era lungo e neanche faticoso, almeno all’andata, al ritorno, invece, il peso dei recipienti pieni d’acqua lo rendeva un po’ più difficoltoso. Mi raccontavano che, durante la guerra, mentre mio padre e i miei nonni erano sfollati in questa casa, la Buca della Tagliata salvò loro la vita. Dopo pranzo, ancora prima di sparecchiare, erano partiti di buona lena per procurarsi la preziosa acqua. Proprio in quei momento ci fu un raid aereo e la casa venne colpita. Quando rientrarono la tavola, ancora apparecchiata, era piena di macerie e una scheggia aveva trapassato anche il lampadario in bronzo, che mantiene tutt’ora il ricordo di quel giorno. Quando si arrivava , un po’ sudati per il cammino, l’acqua che usciva da quella sorgente ci dissetava, riempivamo i nostri recipienti, un breve riposo e ripartivamo. Il mio nonno negli anni trenta aveva costruito una piccola vasca, un rubinetto e un piccolo contenitore affinché l’acqua potesse dissetare gli uccelli. Su una lapide sopra la fonte aveva scritto:

“Acqua pura e fresca che sgorghi perenne dalle profondità del monte invita col lene mormorio che misterioso alita nel silenzio del bosco uomini e uccelli al tuo dolce ristoro.

Anno 1931 E.M.”

Dopo tanti, tanti anni le felci hanno nascosto sia la fonte che la vasca, ma la lapide fa capolino ancora fra la vegetazione e l’acqua scorre ancora. Perenne.

Enrica Martolini

Di the milaner

foglio informativo indipendente del giornale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.