procura Bergamo familiari vittime covid

AGI – C’è una grande aula intera nella procura di Bergamo che accoglie prima il dolore di uomini e donne e poi il foglio di carta con le recriminazioni alla giustizia. Uno a uno, in cinquanta entrano nella ex aula della corte d’assise dove otto funzionari incaricati di questo compito ricevono le denunce di chi si è visto strappare un affetto dal coronavirus.  E’ quello che i rappresentanti del Comitato ‘Noi Denunceremo’, l’avvocato Consuelo Locati e il presidente Luca Fusco, definiscono il ‘Denuncia – day’, il giorno in cui i moti di rabbia e disperazione confluiti sulla pagina Facebook del movimento spontaneo nato nei giorni di picco della pandemia si traducono in richieste alla magistratura.

E, a significare, questa svolta, indossano una mascherina con la scritta ‘Noi denunciamo’. Molti hanno appesi al collo i cartelli con le immagini delle persone care defunte, qualcuno mostra anche la foto dell’urna con le ceneri, “ecco cos’è diventata mia madre”. 

“Ho già consegnato in Procura un file contenente tutte le 50 denunce – spiega Locati, che a sua volta ha perso il padre – ma è importante che loro entrino a portare questo foglio di carta. E’ giusto che lo facciano in prima persona per evitare la spersonalizzazione della denuncia depositata da un avvocato. Serve anche a sottolineare come la magistratura abbia un’investitura non solo giuridica ma anche morale nel prendersi carico di queste denunce”.

“Vogliamo la verità”

“Il senso dell’iniziativa è quello di cercare la verità – chiarisce il presidente del Comitato, Luca Fusco, commercialista a cui è morto il padre – su quello che è accaduto in Lombardia e non solo per poter identificare i responsabili e avere giustizia”.

Serviva subito il lockdown della Valseriana

In questa prospettiva, secondo Fusco “ci sono precise responsabilità  politiche.  La prima è quella di non aver chiuso la Valseriana quando doveva essere chiusa, cioè il 23 febbraio, lasciano trascorrere quindici ‘criminali’ giorni fino all’8 marzo quando la Regione Lombardia è diventata zona arancione. Per  quindici giorni noi bergamaschi abbiamo viaggiato, lavorato, bevuto il caffè, fatto gli aperitivi e, a quel punto, il virus ha circolato senza problemi. Sono anche convinto che se ci fosse stata la chiusura tempestiva della zona rossa nella provincia di Bergamo forse non avremmo dovuto chiudere tutta la Lombardia. E probabilmente avremmo evitato il lockdown italiano”.

Di sicuro, questo è il comune sentire di chi aspetta il proprio turno scambiandosi saluti e sorrisi proprio come se fossero diventati una famiglia, le colpe non vengono attribuite ai medici.  “Si possono ipotizzare mancanze politiche e gestionali – ragiona Fusco – non esiste che un medico normale in un giorno solo debba prendere in carico tre pazienti in terapia intensiva. Normalmente per ogni letto ce ne vorrebbero cinque se vuoi lavorare bene e in tranquillità. Se ne arrivano trenta la colpa è del medico o di chi gli fa arrivare trenta pazienti?”.

“Chiediamo un incontro con Mattarella”

Vogliono incontrare il capo dello Stato, Sergio Mattarella, quando verrà in visita a Bergamo il 18 giugno. Lo hanno chiesto più volte attraverso i media, in questi giorni, lo ritengono “un atto dovuto nei nostri confronti perché è una figura istituzionale super partes, non fa parte degli schieramenti politici”.

Ripetono le loro storie ai giornalisti, le hanno ripetute mille volte ma qualcuno piange ancora. Diego e Pietro sono due fratelli che in quattro giorni hanno perso padre e madre, di 71 e 73 anni.  “Mi rivolgo alla magistratura – dice Diego  – perché noi siamo stati abbandonati e il dubbio che non sia stato fatto tutto quello che doveva essere fatto. In particolare, che non siano state assicurate tutte le cure che dovevano essere fatte. Vogliamo avere un po’ di verità,  ci siamo sentiti impotenti e, a volte, anche un po’ responsabili”.

Il ricordo dei cari che sono morti

“I miei genitori erano sani non avevano patologie pregresse. Il 18 marzo la mamma aveva insufficienza respiratoria e febbre a 39, è stata soccorsa dal 112 e ricoverata all’ospedale di Treviglio. Il papà aveva una leggera febbre ed è stato portato all’ospedale di Romano di Lombardia, dove è rimasto per due giorni al pronto soccorso perché non c’erano letti.  Al venerdì ci chiama l’ospedale di Romano e ci dice che il papà è leggermente peggiorato e veniva portato in reparto, al sabato ci hanno chiamato per dirci che era morto.   Poi è toccato alla mamma. All’ospedale di Treviglio, l’anestesista ci ha detto di avere ritenuto che non fosse il caso di curarla in terapia intensiva e subintensiva, ma di doverla sedare. E’ morta mercoledì 25 marzo, noi siamo stati avvisati il giovedì mattina”.

La signora Laura ricorda i giorni in cui le figlie bambini sono diventate troppo grandi per la loro età.  “Dopo la morte di mio padre, per 40 giorni le mie figlie di 9 e 12 anni hanno dovuto vivere ciascuna nella rispettiva stanza, badando a loro stesse. Ats non ha voluto farci i tamponi, chiesti più volte, con la spiegazione che non avevamo sintomi abbastanza gravi. Per evitare di infettarci, ognuno di noi ha vissuto da solo nella stessa casa. Le bambine dovevano lavare, vestirsi e giocare da sole, nemmeno tra loro. Quando qualcuno andava in bagno, disinfettavo tutto e chi cucinava disinfettava prima di portare il cibo a pranzo o a cena nelle stanze degli altri. Solo a maggio c’è stato fatto il tampone, siamo tutti negativi ma non sappiamo se prima siamo stati  positivi”.

Quando finisce il corteo dei denuncianti, scatta un applauso spontaneo e ci si confida la speranza di vedersi presto davanti al Presidente della Repubblica.

Di THEMILANER

foglio informativo indipendente dell'associazione MilanoMetropoli.org

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