Dmitry A. Medvedev
L’aspirazione alla giustizia e il desiderio di chiamare i potenti della terra a rispondere dei crimini commessi contro il bene comune e l’umanità sono concetti che hanno sempre unito gli individui in ogni epoca storica. Tuttavia, non certo tutte le forme in cui tali concetti si sono concretizzati meritano di esistere. La Corte Penale Internazionale (ICC) ne è un esempio. I difetti giuridici che caratterizzano il suo atto costitutivo, ovvero lo Statuto di Roma, e che sono da individuarsi nelle contraddizioni interne al documento, così come nelle contraddizioni esistenti tra alcune disposizioni in esso contenute e la Carta dell’ONU, ma anche la faziosità politica dell’ICC, il carattere selettivo della sua “giustizia”, l’illegittimità delle pratiche riguardanti l’emissione di mandati di arresto nei confronti di Capi di Stato attualmente in carica in Paesi sovrani che non hanno aderito allo Statuto di Roma, ordini che peraltro vengono spesso ignorati dai Paesi, così come il fatto che l’ICC, in sostanza, dall’essere un organo di giustizia internazionale si è tramutato in un’arma da guerra giuridica, testimoniano in maniera inequivocabile della totale inconsistenza di questo organo. Considerato tutto ciò, l’ICC dovrebbe sprofondare nell’oblio, mentre i suoi giudici, procuratori e gli altri funzionari che hanno preso decisioni illegittime possono e devono essere perseguiti per i crimini previsti dal diritto penale russo. Secondo l’autore, è necessario che i giuristi russi esprimano in maniera dettagliata e con dovizia di argomentazioni una critica professionale nei confronti delle sentenze dell’ICC in tutte le possibili sedi internazionali, e che illustrino la posizione della Russia, dal punto di vista del diritto internazionale, in merito all’Operazione Militare Speciale, al conflitto ucraino e alle altre problematiche scottanti che riguardano la comunità giuridica globale, i media e i cittadini dei diversi Paesi. Inoltre, in considerazione dei difetti presenti nell’operato dell’ICC, gli Stati interessati potrebbero trovare l’opportunità di istituire un’altra corte penale internazionale, che sia priva di tali difetti. L’accordo costitutivo di tale Tribunale dovrà fondarsi sulla totalità delle norme del diritto internazionale contemporaneo generalmente riconosciute, mentre la sua giurisdizione potrà essere estesa ai crimini di genocidio, ai crimini di guerra, ai crimini contro l’umanità, finanche agli atti di terrorismo.
Il mondo sta cambiando, e non sempre procede nella direzione migliore. Davanti ai nostri occhi si è verificata una rapida degenerazione di molte strutture giuridiche sovranazionali, cadute vittima della propria dipendenza dalla volontà, dai mezzi finanziari e dal sistema di valori del cosiddetto Occidente collettivo. Un quadro di questo genere noi, ad esempio, lo osserviamo nella Corte Penale Internazionale (ICC, ovvero la Corte Penale dell’Aja, a cui in seguito si farà riferimento anche come “La Corte”). Le buone intenzioni che guidarono i suoi fondatori due decenni e mezzo fa, hanno chiaramente lastricato una strada che conduce all’inferno. E più si va avanti, più tale immagine acquisisce profili reali.
Ciò è increscioso, ma, purtroppo, è anche più che logico. Sarà sufficiente ricordare la storia di questa istituzione giuridica, che in un periodo di tempo relativamente breve è passata dal sembrare necessaria all’essere totalmente inutile, di un’inutilità che sfiora l’assurdo, ma anche caratterizzata da una faziosità e da un cinismo totali. È importante comprendere a che cosa sono dovute le sue condotte attuali, in che modo possiamo rispondervi e che cosa, in conclusione, dovrebbe giungere a sostituire questo organo internazionale, che è riuscito a compromettersi così rapidamente.
1.
Tutto ebbe inizio, tanto tempo fa, in maniera per così dire solenne. L’aspirazione alla giustizia è un obiettivo che in ogni epoca ha saputo unire milioni di persone su questa Terra. La storia è testimone di come interi imperi siano caduti perché i loro governanti a un certo momento si sono lasciati conquistare dall’euforia dovuta alla propria sregolatezza e impunità, per poi essere spazzati via in un batter d’occhio dall’ira dei loro popoli. E tuttavia, riuscire ad assicurare i potenti della terra alla giustizia per i crimini commessi contro il bene comune e l’umanità servendosi degli organi di giustizia nazionali, di norma, è molto complicato. Per questo, a prefiggersi tale compito sono gli organi di giustizia sovranazionali, che non sottostanno alle autorità al potere nell’uno o nell’altro Stato.
L’istituzione di tribunali penali internazionali a seguito della Seconda Guerra Mondiale rappresentò il primo tentativo nella storia di affermare il primato della Legge su scala globale, di arrivare a garantire la giustizia e un’uguaglianza autentica oltre e al di sopra dei confini di Stato, oltre e al di sopra delle barriere economiche e ideologiche. I Tribunali di Norimberga e di Tokyo, a suo tempo, riuscirono a svolgere quella funzione di cui, notoriamente, non furono in grado di farsi carico i Tribunali della Germania, del Giappone e dei loro ex alleati.
A conclusione del lavoro svolto da queste corti internazionali, gli esperti giuristi di diversi Paesi proposero di istituire un organo giudiziario internazionale permanente, che fosse in grado di assicurare alla giustizia penale coloro che erano colpevoli di aver commesso i più efferati crimini contro l’umanità. Ad ostacolare la realizzazione di questi progetti fu il protrarsi della Guerra Fredda. E soltanto a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 del XX secolo furono ripresi[1] i lavori per l’istituzione di una corte penale internazionale permanente finché, nel 1998, tali lavori si conclusero con la ratifica, a Roma, dello Statuto dell’ICC, ovvero del suo documento costitutivo.
La Corte dell’Aja fu istituita come organismo internazionale indipendente. Il principale organo di governo della Corte è rappresentato dall’Assemblea degli Stati Parte, nella quale rientrano tutti gli Stati membri (che a oggi sono 125). L’Assemblea dispone di un Ufficio centrale che “fornisce assistenza all’Assemblea nell’espletamento dei suoi doveri” (Art. 112(3) dello Statuto di Roma). La funzione primaria, ovvero assicurare alla giustizia penale quelle persone fisiche che hanno commesso “i crimini più gravi, i quali suscitano grande inquietudine in tutta la comunità internazionale” viene espletata dalla Corte Penale Internazionale stessa. Essa si compone di 18 giudici eletti dall’Assemblea degli Stati Parte, dell’Ufficio del Procuratore, eletto anch’egli dalla suddetta Assemblea, e del Segretariato. I giudici operano come membri della Camera Preliminare, che fornisce l’autorizzazione ad avviare il procedimento penale ed emette il mandato di arresto nei confronti del sospettato; come membri della Camera di Prima Istanza, che esamina il caso nel merito; come membri della Camera d’Appello, che esamina i ricorsi depositati contro le azioni disposte e le sentenze emesse dalle Camere inferiori; e anche come membri della Presidenza, che è responsabile, tra le altre cose, della “corretta amministrazione degli affari della Corte, fatta eccezione per l’Ufficio del Procuratore (Art. 38(3) dello Statuto di Roma). A capo della Presidenza c’è il Presidente della Corte.
Inoltre, secondo l’Articolo 119 dello Statuto, qualunque controversia relativa alle funzioni giudiziarie della Corte è soggetta a risoluzione per mezzo di una sentenza emessa dalla Corte stessa. In tal modo, la Corte va a costituire l’unica e suprema istanza nei casi in cui siano esaminate dispute che la riguardano, ovvero svolge il ruolo di giudice nelle sue stesse controversie (fatto che, di per sé, a rigor di termini contraddice il principio secondo cui nemo judex in propria causa[2]). Tutti i giudici e gli altri funzionari dell’ICC godono, sul territorio degli Stati Parte, e anche sul territorio dello Stato in cui si trova la Corte, ovvero i Paesi Bassi, di immunità e di privilegi a livello internazionale.
La giurisdizione dell’ICC si estende ai crimini più gravi: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra. Tuttavia, l’ICC non ha giurisdizione universale. La sua giurisdizione si estende esclusivamente a quei crimini che sono stati commessi sul territorio degli Stati Parte o da cittadini degli Stati Parte[3]. Ma al di là di questi punti di una certa controversia, nel documento costitutivo della Corte erano contenute sin dall’inizio anche altre disposizioni che in molti casi avrebbero potuto rendere impossibile l’esecuzione delle sue sentenze (come in effetti è accaduto, cosa di cui parleremo un po’ più avanti).
A ogni modo, nel 2002 lo Statuto dell’ICC fu ratificato dal numero necessario di Stati, e il 1 luglio di quello stesso anno entrò in vigore. All’epoca, la situazione a livello globale era del tutto diversa rispetto a quella attuale. Com’era chiaro, nel concordare il testo dello Statuto di Roma (come avviene per qualunque trattato internazionale), i rappresentanti di più di 100 Stati hanno dovuto cercare di individuare formule di compromesso che fossero accettabili per tutte le parti, nel tentativo di rafforzare la cooperazione in ambito giudiziario. E tali Stati, che si esprimevano sistematicamente a favore di un’osservanza rigorosa della Carta dell’ONU, partivano dal presupposto che le contraddizioni si sarebbe riusciti gradualmente a risolverle facendo affidamento sui principi chiave del diritto internazionale, sanciti nei documenti ONU. In considerazione di ciò, anche il Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa, nel 2000, acconsentì a siglare lo Statuto di Roma per conto della Federazione Russa.
Tuttavia, in seguito l’operato della Corte Penale dell’Aja ha dato ben presto prova della sua faziosità politica. Gravi violazioni dei principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti sono state commesse anche dalla stessa ICC. In tale contesto politico-giuridico, nel 2016 la Russia ha preso la decisione di ritirarsi dallo Statuto di Roma.[4] In anni diversi anche gli USA e alcuni altri Paesi hanno fatto questa scelta. In considerazione del fatto che la Cina non ha mai sottoscritto lo Statuto, sono tre i Paesi, sui cinque che ricoprono il ruolo di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, a non aderire allo Statuto di Roma.
2.
Nella Corte Penale Internazionale dell’Aja, inizialmente, l’intera comunità mondiale riponeva grandi speranze. E tuttavia, già al momento della sua istituzione, era impossibile non notare che il suo impianto giuridico appariva alquanto strano. Nei suoi documenti costitutivi sin dal principio vi era tutta una serie di incongruenze, la principale delle quali era rappresentata dalla presenza di disposizioni in evidente contrasto con le più importanti norme applicabili del diritto internazionale. E, in prima istanza, con la loro fonte primaria, ovvero la Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Proprio in essa sono infatti contenuti i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico che regola il mondo postbellico. Ed è avvalendosi della Carta dell’ONU che vengono universalmente elaborati non soltanto gli accordi tra Stati, ma anche numerosi accordi bilaterali e interregionali.
L’Articolo 103 della Carta dell’ONU stabilisce in maniera inequivocabile la prevalenza delle sue disposizioni rispetto alle clausole di qualunque altro accordo internazionale. Ai sensi dell’Articolo 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU, le fonti principali del diritto internazionale sono rappresentate dai trattati internazionali (sia quelli generici che quelli specifici), dalla consuetudine internazionale e dai principi generali del diritto.
Ma nello Statuto di Roma si è voluta stabilire una gerarchia a parte delle fonti di diritto internazionale. Secondo l’Articolo 21 dello Statuto di Roma, la Corte dell’Aja applica, in prima istanza, “il presente Statuto, gli Elementi costitutivi dei Crimini e il suo Regolamento di procedura e di prova”. Ed è soltanto in seconda istanza (e neppure in tutti i casi) che essa contempla “i trattati internazionali applicabili, i principi e le norme del diritto internazionale, a inclusione dei principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti per quanto riguarda i conflitti armati”.
Insomma, in conclusione risulta che i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti e sanciti nella Carta dell’ONU, la Corte Penale dell’Aja può applicarli, ai sensi dello Statuto di Roma del 1998, soltanto in seconda istanza, ovvero soltanto dopo lo Statuto e dopo i documenti approvati dall’Assemblea degli Stati Parte, ossia dai Paesi che aderiscono allo Statuto di Roma, e dalla Corte dell’Aja stessa. In questo modo, il meccanismo quasi-giudiziario che è stato istituito va a beneficiare di una sorta di “indulgenza”, la quale consta del diritto di poter ignorare la Carta dell’ONU e le norme giuridiche in essa sancite. Di fatto, una simile distorsione, all’interno dello Statuto di Roma, del peso effettivo del diritto internazionale applicabile è inaccettabile per qualunque Stato sovrano, a inclusione della Russia in quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Inoltre, il termine utilizzato nello Statuto di Roma, “principi generali di diritto penale”, è sostanzialmente scorretto, dal momento che non opera alcuna distinzione tra il diritto penale nazionale (ad esempio degli USA) e il diritto internazionale applicabile nella lotta con il crimine transfrontaliero.
Questo gran “garbuglio concettuale” evidentemente non rispondeva agli interessi nazionali della Federazione Russa (come, del resto, vale anche per ogni altro Stato sovrano). A dispetto di quell’identificazione che talvolta viene avanzata nella scienza giuridica, è necessario operare una distinzione tra lo Statuto di Roma, documento costitutivo dell’ICC, e quegli accordi internazionali che furono raggiunti tra l’URSS e i suoi alleati (altre grandi potenze mondiali) nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, a partire dalla Dichiarazione delle quattro potenze (ancge nota come Dichiarazione di Mosca), siglata a Mosca il 30 ottobre del 1943. Tanto più che un richiamo a tale Dichiarazione delle quattro potenze è contenuto nell’Articolo 106 della Carta dell’ONU. A distinguersi in maniera radicale dal documento costitutivo della Corte Penale dell’Aja è anche l’Accordo intergovernativo tra URSS, USA, Gran Bretagna e Francia in merito ai procedimenti giudiziari e alle condanne nei confronti dei principali criminali di guerra dei Paesi europei dell’Asse, ratificato durante la Conferenza di Londra dell’8 agosto del 1945. I documenti citati qui sopra, per il significato di cui sono dotati sul piano del diritto internazionale in virtù della Carta dell’ONU, hanno la priorità su qualunque altro atto emanato dalla Corte Penale dell’Aja.
E tuttavia ciò non ha scoraggiato in alcun modo le figure che hanno favorito il processo di istituzione dell’ICC. In questo voler trascurare tale distinzione cardine sotto il profilo politico e giuridico (riconducendo sia i primi che i secondi accordi sotto la comune categoria di “giustizia penale internazionale”), hanno avuto luogo, ad esempio, i procedimenti giudiziari voluti dai sostenitori della NATO a carico dei leader serbi nell’ambito del cosiddetto “Tribunale internazionale di accusa verso i responsabili di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale, commesse sul territorio della ex Jugoslavia dal 1991”. In Russia, negli studi riguardanti il campo del diritto internazionale, tale amalgama delle due categorie non era consentita in passato, e non lo è neppure adesso[5]. Ecco, di esempi di simili incongruenze se ne possono fare non pochi.
3.
Di conseguenza, la pratica giudiziaria dell’ICC ha cominciato a suscitare legittime perplessità, e non soltanto tra gli esperti di diritto. Quanto più si è andati avanti, tanto più l’ICC ha dato prova della propria dipendenza da fattori di carattere politico e ideologico, che per ragioni di principio dovrebbero invece essere estromessi dalla sua pratica. È venuta quindi a determinarsi la tendenza da parte di questo organo internazionale, evidente a tutti, a condannare o a graziare esclusivamente negli interessi del cosiddetto Occidente collettivo, sulla base dei suoi tanto amati doppi standard; e per di più, cosa curiosa, con un atteggiamento di servilismo nei confronti di tutta una serie di Paesi (e in primo luogo, degli USA), i quali si sono espressi sull’ICC e sul suo operato in maniera del tutto sprezzante. E questo si capisce, considerato che nel mondo occidentale esiste una rigida gerarchia di rapporti, la quale peraltro si è manifestata chiaramente proprio di recente nell’“affare Netanyahu, Gallant e altri”, nel momento in cui i Paesi europei, in quanto Stati che aderiscono allo Statuto dell’ICC, hanno inizialmente espresso la loro volontà di attivarsi per perseguire penalmente i vertici israeliani, per poi invece, dopo la dura paternale ricevuta da Washington, comninciare, uno dopo l’altro, a rilasciare dichiarazioni in merito al “carattere straordinario della questione”, rinunciando a promuovere un’azione penale a carico dei funzionari israeliani. A rigor di logica, a seguito di ciò l’ICC avrebbe dovuto prendere la decisione relativa a un autoscioglimento, perché sarebbe stato impossibile immaginare un oltraggio alla Corte più grave di questo da parte dei Paesi firmatari dello Statuto.
Nel complesso, secondo i dati disponibili sul sito dell’ICC, in un periodo di più di 20 anni la Corte ha esaminato 33 casi, parte dei quali sono tuttora in fase di esame. Tra questi, vi sono indagini nei confronti di diversi attori politici e militari operanti in Stati africani (Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Sudan, Rwanda, Kenya, Libia, Costa d’Avorio, Mali, Repubblica Centrafricana). Si ritiene che a loro carico vi siano crimini quali torture, violenze, saccheggi, uccisioni di massa, rapimenti, distruzione di interi insediamenti civili, maltrattamenti nei confronti di prigionieri di guerra e di civili, tra i quali anche donne e bambini.
Alcune delle figure coinvolte in tali processi sono state effettivamente condannate e incarcerate: si trattava, generalmente, di esecutori diretti facenti capo a un numero limitato di Paesi, di funzionari contro i quali erano state state raccolte prove testimoniali. E tuttavia, tutta una serie di criminali di guerra che occupavano posizioni di alto rango sono rimasti impuniti. Nei loro confronti, la Corte Penale dell’Aja ha mostrato cecità e sordità selettive.
Salta all’occhio anche il fatto che la Corte Penale dell’Aja, nel corso di molti anni, ha esaminato con estrema attenzione casi riguardanti i crimini commessi da leader di bande etniche, da assassini seriali e criminali sessuali, i quali erano indubbiamente efferati, ma anche del tutto comuni. Pur con le braccia immerse nel sangue dei loro connazionali fino ai gomiti, non si trattava certo di figure politiche molto potenti che potessero rappresentare un pericolo per l’intera umanità. Sorge quindi spontanea una domanda: tali “signori della guerra”, Capi di tribù africane in conflitto tra loro e altri criminali sono realmente dei “criminali internazionali”, che non sarebbe possibile gestire servendosi del sistema giudiziario nazionale dei loro Stati?[6] E per tenerli a freno e consegnarli alla giustizia, era davvero necessario istituire un organo così ingombrante e dispendioso quale l’ICC?
Non è un caso che l’ex Presidente della Commissione dell’Unione Africana Jean Ping, a suo tempo, abbia dichiarato di fronte ai giornalisti che la Corte è un giocattolino del neocolonialismo[7]. Sono stati espressi pareri secondo i quali la Corte Penale dell’Aja, apparentemente, era interessata soltanto a perseguire penalmente quegli africani che si opponevano all’influenza occidentale, e che essa si serviva dell’Africa come di “un laboratorio in cui testare” la giustizia penale internazionale.[8] È indicativo che già nel 2017 l’Unione Africana abbia adottato una risoluzione che esortava tutti i Paesi africani a interrompere la loro cooperazione con l’ICC per quanto concerneva l’esecuzione dei mandati di arresto nei confronti di sospettati africani, e che li invitava a ritirarsi congiuntamente dall’ICC.[9] Il fatto che l’ICC operi con parzialità e che, negli interessi del gruppo dei Paesi occidentali, si rifiuti di perseguire penalmente figure appartenenti ai Paesi NATO è un qualcosa che i rappresentanti di diversi continenti hanno ravvisato. Tra i vari motivi, è anche per questo che hanno dichiarato il proprio ritiro dallo Statuto, in particolare, il Burundi e le Filippine.[10]
C’è anche un altro aspetto ad attirare l’attenzione. “Per qualche motivo”, rimanevano sistematicamente esclusi dal campo visivo dell’ICC gli avvenimenti verificatisi in Paesi nei quali la giustizia, la pace e lo spirito di umanità erano concetti di cui si poteva soltanto sognare, ma nei quali gli USA e i suoi alleati dell’Alleanza atlantica stavano promuovendo i propri interessi. Ecco, i militari dei Paesi NATO hanno condotto attivamente per quasi vent’anni (dal 2001 al 2021) operazioni militari sul territorio dell’Afghanistan, Paese che ha aderito all’ICC nel 2003. Per tutto quel tempo, secondo quanto riportato dai media, quei militari hanno commesso azioni che avrebbero potuto essere ritenute crimini di guerra.[11] E tuttavia, non una volta la Corte Penale dell’Aja le ha attenzionate come tali.
Ancora un altro esempio. Nel novembre del 2017, l’allora Procuratore Capo in carica dell’ICC, Fatou Bensouda, si rivolse alla Camera Preliminare della Corte per ottenere l’autorizzazione ad avviare delle indagini in relazione ai crimini contro l’umanità e ai crimini di guerra perpetrati dai membri del movimento di opposizione afghano dei “Taliban”*, così come in relazione ai crimini di guerra commessi dalle forze di sicurezza governative afghane e in relazione ai crimini di guerra commessi sul territorio afghano sin dal 1 maggio del 2003 dal personale militare USA e dai funzionari della CIA. La Camera Preliminare prese in esame l’istanza, che rimase pendente per un anno e mezzo, e poi nell’aprile del 2019 respinse la richiesta del Procuratore Capo, dopo aver stabilito che “un’indagine dei fatti verificatisi in Afghanistan, in questa fase, non servirebbe gli interessi della giustizia”[12]. Nei confronti di tale decisione il Procuratore dell’ICC depositò un ricorso presso la Camera d’Appello, la quale nel marzo del 2020 annullò la decisione [della Camera Preliminare, n.d.t.][13], offrendo all’Ufficio del Procuratore dell’ICC la possibilità di avviare un’indagine preliminare, tra le altre cose anche in merito ai crimini di guerra commessi sul territorio dell’Afghanistan da personale militare e da cittadini USA.
In seguito, il Governo degli Stati Uniti, che non aderiscono all’ICC, reagì in maniera molto brusca di fronte alla possibilità che il suo personale militare e i suoi cittadini venissero perseguiti penalmente nell’ambito di un organo giudiziario internazionale. Nel giugno del 2020, l’allora Presidente USA Donald Trump dichiarò che la pretesa dell’ICC di rivendicare la propria giurisdizione sul personale USA, fosse esso impiegato in ambito militare, nell’intelligence o in altri settori, nel corso di un’indagine su atti compiuti, come si supponeva, da quello stesso personale in o in relazione all’Afghanistan, “costituisce una minaccia straordinaria e inusitata alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti”[14]. Invocando la legislazione USA, Trump firmò l’Ordine Esecutivo № 13928, ai sensi del quale il Segretario di Stato USA, dopo aver svolto delle consultazioni con il Ministro del Tesoro e con il Procuratore Generale, avrebbe avuto facoltà di identificare un qualunque “individuo straniero” che, in particolare, fosse direttamente coinvolto nel lavoro dell’ICC mirato a svolgere indagini, ordinare l’arresto, trattenere o perseguire penalmente qualunque membro del personale USA senza il consenso degli USA, o che collaborasse materialmente, promuovesse o fornisse appoggio finanziario, materiale o tecnologico, beni o servizi in supporto a tale lavoro dell’ICC.
Le proprietà di tali individui, qualora si trovassero sotto la giurisdizione USA, potevano essere congelate, mentre a loro poteva essere vietato l’ingresso sul territorio degli USA[15]. Il 2 settembre del 2020, il Governo degli USA ha disposto sanzioni personali[16] nei confronti del Procuratore Capo dell’ICC Fatou Bensouda e del funzionario dell’Ufficio del Procuratore dell’ICC Phakiso Mochochoko[17].
In sintesi, nonostante il fatto che gli fosse stato riconosciuto il diritto di avviare un’indagine in merito ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità commessi in Afghanistan, quello che ormai è il nuovo Procuratore Capo dell’ICC a oggi non ha avanzato nessuna accusa nei confronti dei militari americani che presero parte alle operazioni militari in Afghanistan.
Cinque anni dopo, Donald Trump, appena tornato al potere, per prima cosa ha dato continuità alla precedente politica da lui adottata nei confronti dell’ICC. E non si è limitato a mere parole di condanna. Il 6 febbraio del 2025, il Presidente degli USA ha firmato un Ordine Esecutivo per mezzo del quale sono state disposte delle sanzioni nei confronti della Corte Penale Internazionale, sanzioni in risposta alle “azioni illegittime e infondate dirette agli Stati Uniti d’America e a un suo fedele alleato, Israele”[18]. Il Presidente USA ha definito quella dell’ICC “una condotta che minaccia di insidiare la sovranità degli Stati Uniti”[19]. I funzionari, i dipendenti e le altre risorse dell’ICC, ma anche i loro parenti più stretti, sono stati minacciati di “conseguenze tangibili e significative”, tra le quali figurano il congelamento di beni e proprietà e il divieto di ingresso negli USA[20].
È significativo che il primo individuo contro il quale il Presidente americano recentemente eletto ha disposto delle sanzioni sia il Procuratore Capo dell’ICC, Karim Ahmad Khan: lo stesso Procuratore su istanza del quale la Corte Penale dell’Aja ha emesso il mandato di arresto nei confronti del Presidente della Federazione Russa. L’Ordine Esecutivo di Trump nei confronti di Khan, in particolare, ha vietato temporaneamente al Procuratore l’ingresso negli USA, e ha congelato le sue proprietà qualora esse si trovino o vengano a trovarsi sul territorio degli USA[21].
4.
Ma l’ICC ha raggiunto le sue vette più alte in termini di assurdità e inutilità con i suoi mandati di arresto emessi nei confronti di Capi di Stato in carica di Paesi sovrani, tra i quali il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin, con riferimento alla situazione in Ucraina[22]. Nell’emettere tali sentenze, i funzionari della Corte erano perfettamente a conoscenza del fatto che, nella pratica, esse non avrebbero trovato realizzazione. Sempre se non se ne considera l’impatto in termini di propaganda, e ciò, naturalmente, negli interessi del mondo anglosassone.
Naturalmente, non si deve pensare che i giudici e i funzionari dell’ICC siano degli stolti o degli sconsiderati. Si tratta di giuristi di grande esperienza, i quali conoscono perfettamente il contenuto dei trattati internazionali e riconoscono appieno i limiti della loro autorità. E tuttavia, di adempiere a un “ordine di natura ideologica” non si sono mai rifiutati. Specialmente nel caso dei Capi di Stato di Paesi sovrani.
Nell’istituire la Corte Penale dell’Aja[23], i firmatari dello Statuto di Roma hanno acconsentito a un compromesso. Da un lato, nel testo dello Statuto hanno disposto che l’immunità dei Capi di Stato e di altre figure di Stato di alto rango, prevista dal diritto internazionale, “non debba ostacolare l’esercizio” da parte della Corte Penale dell’Aja “della sua giurisdizione su tali individui” (Articolo 27). D’altra parte, dal medesimo documento scaturisce anche l’obbligo della Corte di “garantirsi la cooperazione” dello Stato in questione in materia di revoca dell’immunità a un suo funzionario di alto profilo (Articolo 98).
Di fatto però, la Corte Penale dell’Aja, pur in assenza di revoche [dell’immunità a un funzionario di alto profilo, n.d.t.] da parte degli Stati in questione, ha introdotto nella sua pratica l’emissione di mandati di arresto nei confronti di alcuni Capi di Stato in carica in Paesi sovrani (solitamente non occidentali). I primi mandati di questo tipo sono stati emessi in relazione ai procedimenti riguardanti il Presidente del Sudan, Omar Hasan Ahmad al-Bashir (nel 2009) e del Capo di Stato ad interim della Libia, Mu’ammar Gheddafi (nel 2011). Il caso riguardante Gheddafi fu chiuso in seguito alla sua morte, mentre il mandato di arresto emanato nei confronti del figlio nonché suo protetto, Saif al-Islam Gheddafi, che all’epoca di fatto rivestiva la carica di Primo Ministro della Libia, fino a oggi non ha trovato esecuzione (il procedimento è in fase di udienza preliminare).
Per quanto riguarda Omar al-Bashir, il Sudan si rifiutò di eseguire il mandato emesso dalla Corte, sottolineando che si trattava di un documento “politico” il quale entrava in contraddizione con la legislazione nazionale. Da parte sua, l’ICC non dispone di giurisdizione su azioni di questi tipo. Il mandato non è stato eseguito neppure in diversi altri Stati Parte dell’ICC (Malawi, Giordania, Uganda, Chad, Repubblica Sudafricana e altri), che Omar al-Bashir soleva visitare. Le posizioni giuridiche di alcuni di questi Paesi sono state prese in esame dalle varie Sezioni giudiziarie dell’ICC. E queste ultime hanno contribuito in larga misura a determinare la posizione dell’ICC sulla questione dell’immunità dei funzionari di Stato di alto profilo dei Paesi che non aderiscono all’ICC. Essenzialmente, l’opinione dell’ICC in merito alla questione in esame viene delineata nella Sentenza emanata dalla Camera d’Appello in riferimento alla mancata consegna di Omar al-Bashir alla Corte da parte della Giordania.
Secondo l’ICC, “…nessuna immunità garantita ai sensi del diritto internazionale consuetudinario può avere effetto in quei casi in cui essa vada a ostacolare la Corte Internazionale nell’esercizio della sua giurisdizione”[24]. In tal modo, sostanzialmente, l’ICC parte dal presupposto che non esistono norme di diritto internazionale consuetudinario che garantiscano l’immunità dall’arresto e dalla consegna all’ICC di un Capo di Stato in carica di un Paese che non aderisce allo Statuto di Roma, da parte di uno Stato che invece aderisce allo Statuto di Roma, sulla base di un mandato di arresto e di consegna emesso dalla Corte Penale dell’Aja[25].
Questa e altre asserzioni sono altamente controverse e hanno suscitato giuste critiche da parte degli esperti nell’ambito del diritto internazionale, così come, naturalmente, anche da parte di coloro che rappresentano il sistema giudiziario nazionale di diversi Paesi.
In particolare, desidero sottolineare quanto segue. Indipendentemente da come si interpretino gli Articoli 27 e 98 dello Statuto di Roma, l’emissione da parte della Corte Penale dell’Aja di mandati di arresto nei confronti di Capi di Stato di Paesi sovrani deve essere qualificata per sua intrinseca natura quale violazione del diritto internazionale, e in primo luogo della Carta dell’ONU. Le motivazioni sono le seguenti.
In primo luogo, le disposizioni contenute nella Carta dell’ONU hanno la prevalenza sugli articoli contenuti nello Statuto di Roma, fatto che abbiamo già menzionato in precedenza.
In secondo luogo, il principio dell’uguaglianza sovrana di tutti i Paesi membri dell’ONU costituisce il fondamento dell’ONU stessa (Articolo 2). I Capi di Stato rappresentano il potere sovrano di tali Paesi e in virtù di quella fonte primaria di diritto internazionale che è rappresentata dalla consuetudine internazionale, “godono dell’immunità dalla giurisdizione di altri Stati, immunità sia civile che penale”[26]. La violazione di tale norma da parte della Corte Penale dell’Aja costituisce un illecito.
In terzo luogo, il tentativo da parte del Tribunale dell’Aja atto a limitare la sovranità di uno Stato (nel caso della Russia, stiamo parlando anche di un membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU) facendo pressioni affinché il suo Capo di Stato venga arrestato, andando così a ostacolarlo nell’esercizio delle sue funzioni, dev’essere qualificato anche come crimine contro il diritto internazionale. E questo, prima di tutto, in virtù della grande responsabilità in capo al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che risiede nel mantenimento della pace e della sicurezza globali (Articolo 24 della Carta dell’ONU).
In quarto luogo, la Corte Penale dell’Aja trascura il fatto incontrovertibile che tre dei cinque Paesi che ricoprono il ruolo di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU non aderiscono allo Statuto di Roma. Tale decisione nel corso degli anni è stata presa dalla Cina, dalla Russia e dagli USA. Dunque, in virtù dell’Articolo 34 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 e in virtù, altresì, del diritto internazionale consuetudinario[27], per questi Paesi che non vi aderiscono, lo Statuto di Roma non produce alcun obbligo, neppure tra quelli che vengono imposti dalla Corte Penale dell’Aja.
In quinto luogo, i funzionari dell’ICC dovrebbero riconoscere che, nel tentativo di limitare l’operato del Capo di Stato di un Paese sovrano che è altresì membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, stanno tentando al tempo stesso di ostacolare il normale funzionamento del principale organo delle Nazioni Unite, l’unico ad avere la responsabilità di operare ai fini del mantenimento della pace globale. In un’epoca nella quale la comunità internazionale si divide su questioni di principio e il nostro mondo si trova di fatto sull’orlo di una Terza Guerra Mondiale, la Sentenza dell’ICC [relativa all’emissione del mandato di arresto nei confronti del Presidente russo, n.d.t.] ha di per se stessa determinato un aumento dei fattori di rischio a livello globale. La responsabilità legata all’aggravarsi di una tale minaccia per l’umanità è altresì da attribuirsi a figure ben precise tra i funzionari della Corte Penale dell’Aja.
5.
Come è noto, anche prima del clamoroso “ordine politico” emesso nei confronti del Presidente russo, alla Corte Penale dell’Aja era già capitato di eseguire compiti piuttosto “scivolosi” che i suoi burattinai le avevano affidato da dietro le quinte. A seguito del colpo di Stato condotto a Kiev nel 2014 con la collaborazione degli USA[28], del rifiuto da parte delle popolazioni della Crimea e del Donbass di riconoscere la legittimità di tale colpo di Stato, dei continui bombardamenti sul territorio del Donbass per disposizione delle autorità insediatesi a Kiev e del genocidio di fatto perpetrato ai danni della sua popolazione, la Russia adottò delle misure in difesa dei suoi connazionali. La Corte Penale dell’Aja, senza prendersi il disturbo di condurre un’analisi giuridica dei dati di fatto elencati sopra e del diritto applicabile, ha supportato con spirito di servilismo la “guerra giuridica” scatenata dagli USA e dai suoi satelliti contro il nostro Paese. Si è usato il termine molto controverso di “aggressione”. Esso, peraltro, non fu affatto incluso subito nell’elenco delle condotte che rientrano nella giurisdizione dell’ICC, ma bensì soltanto a seguito di discussioni durate per lunghi anni. Al momento della sottoscrizione dello Statuto di Roma nel 1998, non si era ancora riusciti ad elaborare una definizione giuridicamente accettabile del termine “aggressione”. La questione fu sottoposta all’Assemblea degli Stati Parte, la quale nel 2010 formulò delle modifiche allo Statuto. In esse veniva individuata una definizione della cerchia di individui da ritenere responsabili qualora venisse commesso tale crimine, e vi si specificava la procedura secondo la quale queste avrebbero dovuto comparire presso la Corte Penale dell’Aja. Tuttavia, le norme introdotte, notoriamente, non producevano standard di carattere universale.
Sotto le pressioni esercitate dagli USA, l’Operazione Militare Speciale per la difesa del Donbass, nei documenti dell’Assemblea Generale dell’ONU, fu definita dalla maggioranza dei Paesi come “aggressione” (Risoluzione ES-11/1, “Aggression against Ukraine” del 2 marzo 2022; Risoluzione ES-11/2, “Humanitarian consequences of the aggression against Ukraine” del 24 marzo 2022; e altri documenti emanati dall’Assemblea Generale). A questo hanno dato il loro contributo anche altre organizzazioni controllate dall’Occidente, tra le quali il Fondo Monetario Internazionale (IMF)[29], l’Istituto di Diritto Internazionale[30], e altre. E infine, nel marzo del 2023, la Corte Penale dell’Aja dichiarò con gran servilismo di aver emesso dei mandati di arresto nei confronti del Presidente della Federazione Russa e del Commissario russo per i diritti dell’infanzia.
Dal punto di vista giuridico, tale mossa, di nuovo, non sarebbe in grado di reggere nessuna critica. I Paesi occidentali nelle loro argomentazioni usano in maniera prettamente formale quella stessa definizione del concetto di “aggressione” che veniva attribuita al termine nella Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU adottata nel 1974. Secondo tale Risoluzione, un’aggressione consiste “…nel ricorso alla forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’inviolabilità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato, oppure in qualche altro modalità che non è compatibile con la Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite…”, modalità che “… comporta una responsabilità internazionale”[31] (corsivo mio, Dmitry A. Medvedev). Applicando tale definizione all’Operazione Militare Speciale, gli Stati occidentali trascurano le più importanti questioni di fatto e di diritto, e in primo luogo il fatto, già menzionato, relativo al colpo di Stato avvenuto a Kiev nel 2014, voluto da Washington, che ha evidentemente costituito una violazione del Paragrafo 7, Articolo 2 della Carta dell’ONU (sul divieto di interferenza negli affari interni di uno Stato). A seguito di tale coup d’état, l’Ucraina de facto aveva cessato di essere uno Stato sovrano.
L’Occidente collettivo trascura anche la circostanza relativa al fatto che quando uno Stato impiega la sua forza armata nelle modalità che sono permesse dal diritto internazionale (nell’ordine della legittima difesa, anche di carattere preventivo), non si tratta di aggressione. Ma la falla maggiore nella posizione degli Stati occidentali sul piano del diritto internazionale è ben più grave: loro trascurano il fatto che, ai sensi della Carta dell’ONU, ad avere facoltà di stabilire che il fatto costituisce un’“aggressione” e di intraprendere azioni in risposta a tale atto di aggressione è soltanto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, previo assenso espresso dai cinque Paesi che ne sono membri permanenti; e non un altro organo, sia esso un organismo che fa capo all’ONU o meno, oppure un’organizzazione internazionale.
Comunque, non hanno ritenuto necessario ottemperare alla sentenza dell’ICC neppure quegli Stati che ancora aderiscono allo Statuto di Roma. Uno di questi Paesi, la Mongolia, il Presidente della Federazione Russa l’ha visitata a inizio settembre del 2024[32]. La visita si è svolta in un’atmosfera amichevole e si è conclusa con successo. Questo fatto ha suscitato nella Corte Penale dell’Aja una reazione quasi isterica. La Corte a quel punto si è scagliata contro la Mongolia accusandola di non aver adempiuto ai suoi obblighi ai sensi dello Statuto di Roma poiché non aveva arrestato il Presidente della Federazione Russa, non facendo quindi seguito alla richiesta di cooperazione da parte della Corte Penale dell’Aja.
Secondo l’ICC, gli Stati Parte dello Statuto di Roma hanno l’obbligo di porre sotto arresto gli individui nei confronti dei quali la Corte ha emesso mandati di cattura, e ciò “indipendentemente dalla loro posizione ufficiale o dalla loro nazionalità”. In tale contesto suona incredibilmente ipocrita la dichiarazione della Corte Penale dell’Aja in merito al fatto che essa svolgerebbe le sue funzioni nei casi di “gravi violazioni delle norme fondamentali del diritto internazionale”[33]. Tanto più che, ostacolando nell’adempimento delle sue funzioni il Capo di Stato di un Paese sovrano che è altresì membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, sono proprio i funzionari della Corte Penale dell’Aja a far sì che aumenti il rischio che presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU non vengano prese decisioni atte a rispondere ai fattori che minacciano la pace globale.
Nel documento della Corte Penale dell’Aja nel quale si accusa la Mongolia di aver violato i suoi obblighi a collaborare ai sensi dello Statuto di Roma, si menziona il fatto che l’Articolo 98(1) dello Statuto non andrebbe a integrare, né a modificare l’Articolo 27(2) e non prevedrebbe eccezioni rispetto a quanto in esso disposto. Ovvero, secondo la Corte, lo Statuto “non prevede eccezioni” per quanto riguarda il fatto che l’immunità dei Capi di Stato dei Paesi sovrani non deve costituire un ostacolo all’esercizio della giurisdizione della Corte. Qualunque altra interpretazione, come ritenuto dalla Corte, renderebbe inevitabilmente “privi di significato” gli obblighi in capo ai Paesi Parte, mentre renderebbe l’intero sistema su cui si regge la Corte “inutile e in contrasto con il principio di efficacia” (“ut res magis valeat quam pereat”)[34], principio che scaturisce dall’Articolo 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, “ai sensi della quale i trattati devono essere interpretati in maniera tale che ne sia garantita l’efficacia di esecuzione”[35]. In merito all’“inutilità”, è impossibile non essere d’accordo. La Corte Penale dell’Aja ha già più volte dato prova di questa sua caratteristica.
Per quanto riguarda invece il principio di efficacia, non è superfluo notare che l’argomento avanzato dalla Corte ne rappresenta una comprensione distorta. Nell’interpretare i trattati internazionali, esso suggerisce che l’interprete del trattato “debba attribuire significato ed effetto a tutte le condizioni del trattato” e che “l’interprete non è libero nell’accettare una lettura che comporterebbe il ricondurre interi articoli o punti sanciti nei trattati a un risultato di ridondanza o inutilità”[36].
Interessante è anche il fatto che, in precedenza, l’ICC riconosceva la presenza di una “tensione intrinseca” tra l’Articolo 27(2) e l’Articolo 98(1) dello Statuto dell’ICC[37], e le contraddizioni tra loro esistenti sono state analizzate dettagliatamente in dottrina[38]. Tutto questo, indubbiamente, testimonia dei difetti dello Statuto di Roma[39] sul piano tecnico e giuridico, i quali fanno di uno strumento già assai imperfetto un dispositivo totalmente inadeguato all’uso.
Nelle Conclusioni sulla Mongolia, la Camera Preliminare dell’ICC indicava distintamente che l’Articolo 34 della Convenzione di Vienna “…non ha nulla a che vedere con la questione in esame (questione che prendeva in esame se gli Stati non aderenti allo Statuto fossero vincolati dalle disposizioni in esso sancite, Dmitry A. Medvedev), dal momento che la Corte non cerca di imporre gli obblighi sanciti nello Statuto su quelli che non sono Stati Parte, ma piuttosto ricerca una cooperazione con gli Stati Parte nei procedimenti a carico di individui che si presume abbiamo commesso crimini ai sensi dell’Articolo 5 dello Statuto sul territorio di quegli Stati sui quali la Corte ha giurisdizione”. E tuttavia, anche tale posizione è inconsistente: la mancata garanzia di immunità da parte di uno Stato Parte che aderisce allo Statuto di Roma nei confronti di un funzionario di alto profilo di uno Stato che non aderisce allo Statuto costituisce un’estensione dello Statuto dell’ICC su tale Stato, in quanto quest’ultimo ha il diritto di esigere che l’immunità dei suoi funzionari di alto profilo venga garantita, mentre lo Stato ospite ha l’obbligo di garantire tali immunità. Se, in virtù del Paragrafo 2, Articolo 27 dello Statuto dell’ICC, lo Stato ospite non adempie a ciò, dunque si dovrà ritenere o che esso stia violando il diritto internazionale consuetudinario, oppure che abbia esteso la norma sancita nel Paragrafo 2 , Articolo 27 dello Statuto dell’ICC a uno Stato terzo, e nello specifico a un suo funzionario di alto profilo. Non esistono opzioni alternative.
Inoltre, l’ICC ha confermato, con gran disinvoltura, che “qualunque opinabile obbligo bilaterale che la Mongolia possa assumere nei confronti della Federazione Russa in relazione all’osservanza di qualunque tipo di immunità applicabile che secondo il diritto internazionale può essere garantita ai Capi di Stato, non potrà sostituirsi all’obbligo che la Mongolia ha di fronte alla Corte [[“is not capable of displacing the obligation that Mongolia owes to the Court”], la quale è investita del dovere di esercitare la propria giurisdizione”[40]. Ecco, è esattamente così: tutti gli accordi internazionali svaniscono di fronte allo Statuto dell’ICC, secondo i faziosi commentatori che provengono dalla Corte stessa.
Nella corrispondenza intercorsa con la Corte Penale dell’Aja, la Mongolia ha invocato la norma del diritto consuetudinario riguardante le immunità dei Capi di Stato, così come la Sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU (2002) sul caso “Mandato di arresto dell’11 aprile 2000”, la quale conferma l’esistenza di tale norma. In risposta, la Corte dell’Aja ha ribadito ostinatamente la sua posizione: “… mentre le immunità personali hanno effetto nei rapporti tra Stati, esse non proteggono però gli individui, a inclusione dei Capi di Stato, dai procedimenti giudiziari avviati da corti penali internazionali”, giustificando tale posizione con il fatto che l’ICC “… è fondamentalmente indipendente dagli Stati, è rigorosamente imparziale e opera nel comune interesse della comunità internazionale”[41].
Tutti questi argomenti sono assolutamente politicizzati e giuridicamente insignificanti. E nonostante questo, i funzionari della Corte dell’Aja hanno pretenziosamente dichiarato che la Mongolia stava ostacolando la Corte “… nell’adempimento delle sue funzioni e nell’esercizio dei suoi poteri…”, e che il Paese “non aveva adempiuto ai suoi obblighi internazionali ai sensi dello Statuto…”[42], respingendo in questo modo tutte le obiezioni avanzate dalla Mongolia, contenute nella sua richiesta di ricorso riguardante il caso in questione.
È necessario rammentare che ai sensi del Paragrafo 2, Articolo 98 dello Statuto di Roma, “La Corte non può presentare richieste relative all’esecuzione di mandati di consegna che richiederebbero allo Stato destinatario del mandato di attuare delle condotte che sono incompatibili con i suoi obblighi derivanti dagli accordi internazionali, ai sensi dei quali, ai fini dell’esecuzione del mandato di consegna di un individuo alla Corte, si rende necessario il consenso da parte dello Stato d’origine [dell’individuo oggetto del mandato, n.d.t.]”. Il Trattato sulle relazioni amichevoli e sul partenariato strategico globale tra la Federazione Russa e la Mongolia del 2019 (entrato in vigore nel settembre del 2020), in questo senso è applicabile. Secondo l’Articolo 4 di questo Trattato internazionale, la Russia e la Mongolia “si astengono dall’aderire a qualunque azione o dal fornire supporto ad azioni mirate a danneggiare la loro Controparte”.
Tutto questo trambusto simil-giudiziario non ha avuto nessuna conseguenza particolare né per la Mongolia, né per la Russia. Quali sono le misure che l’Assemblea degli Stati Parte dell’ICC riterrà necessario adottare nei confronti del “disubbidiente”, starà alla Corte deciderlo. Nello Statuto dell’ICC non è prevista alcuna sanzione nei confronti di un Paese Parte che non abbia cooperato in maniera adeguata con l’ICC nell’esercizio delle sue funzioni. E come mostra la pratica, fino a oggi simili sanzioni non sono state applicate. Lo stesso Presidente del Sudan Omar al-Bashir, durante i sette anni che seguirono all’emissione da parte dell’ICC del primo mandato di arresto nei suoi confronti del 2009, si è recato in visita in più di 20 Paesi, tra i quali alcuni aderivano anche all’ICC, e in nessuno di questi Paesi è mai stato arrestato[43]. A ciò non ha fatto mai seguito nessuna misura nei confronti di tali Stati. E ciò, nonostante il mandato di arresto nei confronti di Omar al-Bashir fosse stato emanato nell’ambito di un procedimento avviato su iniziativa del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (il quale, a differenza dell’ICC, ha la facoltà di imporre sanzioni di diritto internazionale).
Questo, per l’ennesima volta, dimostra quanto siano inutili sia questa Corte che le sentenze che emette. E tuttavia, non si possono sottovalutare né l’entità né le possibili ripercussioni di quella “guerra giuridica” che l’Occidente continua a portare avanti contro la Russia servendosi della giustizia internazionale, assieme a tutte le altre iniziative ostili e le restrizioni illegittime. In sostanza, adesso l’operato dell’ICC si colloca davvero a un passo dal giustificare giuridicamente il sequestro, operato sul territorio di Paesi che non aderiscono allo Statuto di Roma, di funzionari che godono dell’immunità; tanto più che l’ICC si è ormai trasformata non soltanto in una specie di imbuto nel quale, qualora vi sia un ordine politico o sopraggiunga anche solo questa volontà, si può trattenere un funzionario di qualsiasi Stato, ma è diventata anche un banale strumento attraverso il quale portare avanti una guerra politica.
Senza voler parlare poi dei mandati di arresto nei confronti di Vladimir Putin e di Maria L’vova Belova, è emblematica in questo senso anche la storia relativa all’avvio delle indagini da parte della Corte in merito alla situazione nelle Filippine e al susseguente mandato di arresto dell’11 marzo 2025, con la consegna alla Corte dell’ex Presidente delle Filippine Rodrigo Duterte.
Il 15 settembre del 2021, la Camera Preliminare ha autorizzato il Procuratore Capo dell’ICC a dare inizio alle indagini sulla situazione nelle Filippine in merito a crimini che rientravano nella giurisdizione ICC, i quali, si presumeva, erano stati commessi sul territorio di quel Paese dal 1 novembre 2011 fino al 16 marzo 2019, anche nell’ambito della cosiddetta campagna legata alla “lotta contro le sostanze stupefacenti”[44]. Tale sentenza e gli eventi che la seguirono sono degni di nota per le ragioni che seguono. In primo luogo, l’ICC non aveva alcuna giurisdizione ratione temporis su tali eventi, in quanto la sua indagine era stata autorizzata da parte della Camera il 15 settembre 2021, mentre l’adesione delle Filippine allo Statuto di Roma era stata ritirata già il 17 marzo del 2019. E tuttavia, ciò non ha impedito ai giudici dell’ICC di individuare fondamenti a sostegno della sua giurisdizione sul caso, facendo riferimento alla sua stessa prassi di interpretazione dell’Articolo 127 dello Statuto di Roma[45], che segue il principio secondo cui “se lo si vuole davvero, allora si può fare”. In secondo luogo, l’arresto e la consegna all’ICC dell’ex Presidente delle Filippine Rodrigo Duterte non derivavano da un riconoscimento della giurisdizione dell’ICC da parte delle Filippine, che ormai non aderivano più allo Statuto di Roma, ma erano legati bensì alla consegna da parte del clan Marcos (Ferdinand Romualdez Marcos Jr. è il Presidente in carica delle Filippine) di un oppositore politico appartenente al clan dei Duterte[46]; e cioè l’ICC, di fatto, si è tramutata in uno strumento funzionale alla guerra politica in corso nelle Filippine. Per questo motivo l’opinione che si incontrava di frequente nei media in merito al fatto che la storia dell’avvio delle indagini in merito alla situazione nelle Filippine “…lancia un’ombra scura sulla capacità della Corte di svolgere il suo lavoro in maniera indipendente, senza il rischio di politicizzazione…” [47] rispecchia in maniera piuttosto precisa il modo in cui la natura della Corte è andata a modificarsi: da strumento di giustizia, essa è divenuta uno strumento in mano alla politica più sporca.
Quante altre illegalità nella condotta dell’ICC seguiranno ancora, non lo sappiamo. L’Occidente, che sta rapidamente perdendo il suo status a livello globale e che ormai non è più nella condizione di imporre alla gran parte dell’umanità il suo volere, sta rischiando il tutto per tutto e non si fermerà di fronte a nulla. Si tratta di un pericolo da tenere in considerazione. Ecco, mi è già capitato di dover scrivere quali conseguenze potrebbero seguire all’attuazione di una sentenza illegittima dell’ICC nei confronti di un Capo di Stato di un Paese che non aderisce allo Statuto della Corte. L’attuazione di una tale sentenza di per se stessa potrebbe costituire un casus belli nei confronti dei Paesi che hanno contribuito alla sentenza. E vale forse la pena di parlare dei pericoli di tali sentenze quando vengono emesse nei confronti della leadership di un Paese che è una potenza nucleare e che è anche membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU? Senza poi parlare del fatto che gli individui che hanno preso una simile decisione possono e devono essere perseguiti dagli organi investigativi e giudiziari dei Paesi le cui autorità vengono illegittimamente chiamate a rispondere di fronte alla Corte.
6.
Bisogna ricordare che tra i Paesi che accusano la Russia di aver commesso un’“aggressione” non ci sono solo gli USA[48]. Tali dichiarazioni sono state fatte sia da Stati membri della NATO[49], che dalla maggiorparte degli Stati membri del Consiglio d’Europa e dei Paesi del G7[50], i Paesi leader nell’economia globale. A coloro che imputano alla Federazione Russa la colpa di aver commesso una violazione del diritto internazionale attentando all’“integrità territoriale e alla sovranità nazionale dell’Ucraina”, si è unita anche l’Unione Africana[51].
Eppure non bisogna confidare nel fatto che, ad esempio, le Risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’ONU formalmente non hanno carattere vincolante sul piano giuridico. La consuetudine dimostra che nei contenziosi giudiziari e nei procedimenti di arbitrato economico contro la Russia e a carico di persone di nazionalità russa, i richiami a questo tipo di documenti hanno valore ai fini di un’“opera di convincimento interna” del giudice o del giudice arbitrale.
Anche nei casi in cui siano mosse accuse infondate, la risposta quindi deve essere esaustiva. A tal proposito, ritengo sia necessario formulare ancora una volta e in maniera precisa la nostra posizione in merito alla cosiddetta “aggressione” di cui l’Occidente accusa con così tanta ostinazione la Russia, così come la nostra posizione in merito alle azioni dell’ICC in quanto tentativi di conferire efficacia giuridica a tali accuse.
Pertanto, andiamo a riassumere quanto asserito sopra.
Punto primo. A seguito del colpo di Stato di Kiev del 2014, è giunto al potere un regime politico non indipendente, totalmente controllato dai Paesi occidentali. Parte dell’ex Ucraina, plagiata e governata da tale regime, de facto non è più uno Stato sovrano. Di conseguenza, l’operazione di difesa, da parte della Russia, del Donbass, il quale non ha riconosciuto la legittimità del colpo di Stato ed è stato attaccato dall’autorità insediatasi a Kiev, ormai illegittimamente al potere dal 2014, non può qualificarsi sul piano giuridico come un’“aggressione”.
Punto secondo. Ai sensi della Carta dell’ONU, ad avere facoltà di stabilire che un fatto costituisce un’“aggressione” e di intraprendere azioni in risposta a tale atto di aggressione è soltanto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU (previo assenso espresso dai cinque Paesi che ne sono membri permanenti). Nessun altro organo, sia esso un organismo che fa capo all’ONU o meno, oppure un’altra organizzazione internazionale, dispone di tali poteri. Le loro dichiarazioni sarebbero prive di fondamento sul piano normativo e pertanto sarebbero giuridicamente nulle.
Punto terzo. Il tentativo da parte del Tribunale dell’Aja atto a limitare la sovranità di uno Stato che è anche membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (chiedendo che il suo Capo di Stato venga arrestato, andando così a ostacolarlo nell’esercizio delle sue funzioni) dev’essere qualificato come crimine contro il diritto internazionale. E questo, prima di tutto, in virtù della grande responsabilità in capo al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che risiede nel mantenimento della pace e della sicurezza globali (Articolo 24 della Carta dell’ONU).
Punto quarto. La Russia non aderisce più allo Statuto di Roma del 1998, Statuto sulla base del quale è stata istituita la Corte Penale Internazionale. Nel 2016, la Russia ha ritirato la sua adesione a questo trattato internazionale. Di conseguenza, dallo Statuto della Corte non scaturisce alcun obbligo per il nostro Paese.
Punto quinto. L’operato della Corte Penale dell’Aja e la sua posizione sono in contrasto con il principio “pacta tertiis nес nocent nес prosunt” (un accordo non costituisce obblighi o diritti per uno Stato terzo senza che questo non vi abbia dato il suo consenso), principio che trova espressione nel diritto internazionale consuetudinario e nell’Articolo 34 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969.
Punto sesto. Secondo lo Statuto di Roma, il senso dell’emissione di un mandato di arresto risiede nella susseguente facoltà dell’ICC di esigere dagli Stati che aderiscono allo Statuto, in particolare, di arrestare l’individuo nei confronti del quale è stato emesso il mandato, e di consegnarlo alla Corte (Articolo 58 dello Statuto di Roma). Tuttavia, nel caso in cui tale individuo goda dell’immunità in qualità di funzionario di uno Stato che non aderisce allo Statuto, e nel caso in cui la Corte Penale dell’Aja non si sia garantita la cooperazione da parte di quello Stato, l’emissione di tale mandato e l’invio, da parte della Corte a un Paese Parte, della richiesta di arrestare l’individuo indicato e di consegnarlo alla Corte contraddicono l’Articolo 98 dello Statuto.
Punto settimo. Il Presidente della Federazione Russa, in quanto Capo di Stato in carica di un Paese sovrano, gode dell’immunità assoluta dalla giurisdizione penale estera: sia dell’immunità ratione materiae[52], sia dell’immunità ratione personae[53]. In assenza di un’esplicita revoca di tale immunità, la giurisdizione degli organi giudiziari internazionali non si estende al Capo di uno Stato sovrano.
Punto ottavo. Secondo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU del 14 febbraio 2002 sul caso “Mandato di arresto dell’11 aprile 2000”, “nel diritto internazionale è fatto ampiamente consolidato che, come per gli agenti diplomatici e consolari, determinati individui che ricoprono incarichi di alto profilo a livello statale, quali i Capi di Stato, i Capi di Governo e i Ministri degli Affari Esteri, godono dell’immunità dalla giurisdizione degli altri Stati: immunità che è sia civile, sia penale”[54]. Il fatto che questa norma di diritto internazionale si applichi anche nei casi in cui emerge la questione relativa alla possibilità di arresto, da parte di uno Stato che aderisce allo Statuto di Roma e su richiesta dell’ICC, di un Capo di Stato di un Paese che invece non aderisce allo Statuto di Roma, è riconosciuto anche nella dottrina[55].
Inoltre, in un caso specifico persino l’ICC riconobbe il fatto dell’assenza di eccezioni a questa norma relativamente a situazioni nelle quali uno Stato agisca a suo nome[56].
L’Articolo 27 dello Statuto di Roma, ai sensi del quale l’immunità di un funzionario non costituisce un ostacolo all’esercizio, nei suoi confronti, della giurisdizione della Corte, contraddice il diritto internazionale consuetudinario consolidato. La concessione, sancita nello Statuto di Roma, relativamente alla possibilità di perseguire penalmente i Capi di Stato in carica di Paesi sovrani contraddice i principi fondamentali del diritto internazionale sanciti nella Carta dell’ONU, e in primo luogo il principio di uguaglianza sovrana di tutti i membri dell’ONU, così come il principio di non interferenza in quegli affari che per loro natura rientrano nella competenza interna degli Stati.
Punto nono. Al febbraio 2025, gli Stati Parte dello Statuto di Roma sono 125[57](i membri dell’ONU sono invece 193)[58]. Quale che sia il numero degli Stati Parte, l’ICC nel suo complesso non costituisce una comunità internazionale di Stati e non opera sotto tale nome. A essa non aderiscono tre dei cinque Stati che rivestono il ruolo di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Russia, Cina e USA), né diversi Stati industrializzati e densamente popolati dell’Asia (India, Pakistan, Turchia, Malesia e Indonesia), né molti dei Paesi arabi del Medio Oriente[59].
Punto decimo. I giudici, i procuratori e gli altri funzionari che hanno preso decisioni illegittime possono e devono essere perseguiti per i crimini previsti dal diritto penale russo.
7.
In relazione alla posizione qui delineata, sorge una domanda legittima: in linea di principio, che cosa ne sarà in futuro della giustizia penale internazionale? È necessario che i giuristi russi esprimano in maniera dettagliata e con dovizia di argomentazioni una critica professionale nei confronti delle sentenze dell’ICC in tutte le possibili sedi internazionali, e che illustrino la posizione della Russia, dal punto di vista del diritto internazionale, in merito all’Operazione Militare Speciale, al conflitto ucraino e alle altre problematiche scottanti che riguardano la comunità giuridica globale, i media e i cittadini dei diversi Paesi.
Serve che chiariscano in maniera convincente le questioni che sono oggetto di controversia, e che lo facciano in maniera attiva e costante. Serve che ribadiscano la nostra fedeltà alla Carta dell’ONU e, in primo luogo, ai principi dell’uguaglianza sovrana degli Stati e di non interferenza in quegli affari che rientrano nella loro competenza interna. Ed è necessario che si assicurino che quei funzionari della Corte Penale dell’Aja che violano tali principi si facciano carico delle proprie responsabilità ai sensi del diritto internazionale e del diritto nazionale russo.
Appare pienamente realizzabile anche la realizzazione di uno studio approfondito a livello interregionale (ad esempio nell’ambito dei BRICS) in merito al progetto di istituzione di un organo di diritto internazionale da proporre come alternativa alla Corte Penale dell’Aja. Il nuovo organo giudiziario dei BRICS potrebbe ribadire l’intento condiviso dagli Stati che fanno parte di questo raggruppamento di osservare scrupolosamente i principi della Carta dell’ONU, a inclusione del principio relativo all’immunità dei Capi di Stato di Paesi sovrani da qualunque giurisdizione estera e al divieto di interferenza negli affari interni degli Stati, ivi compreso attraverso illegittime spinte e istruzioni fornite dall’esterno ai leader appartenenti alle opposizioni.
Per quanto riguarda l’ICC, al momento attuale se ne può constatare con rammarico la totale inconsistenza nell’adempimento del suo compito principale, ovvero il condurre di fronte alla giustizia tutti gli individui colpevoli di aver commesso atti di genocidio, aggressione, crimini di guerra, e che sono sfuggiti a una condanna nell’ambito della legislazione nazionale. Proprio tutti, a inclusione di quelli che sono cittadini di Paesi occidentali e di Stati membri della NATO. Ci sono, naturalmente, grossi dubbi sul fatto che la Corte penale dell’Aja, nel ruolo e nella forma in cui si presenta adesso, possa intraprendere tali sforzi. È per questo che essa dovrebbe sprofondare nell’oblio.
Ma l’aspirazione alla giustizia che accomuna gli individui di tutto il mondo è più forte di qualsiasi sanzione, pressione, ipocrisia o menzogna. E il diritto internazionale, elaborato dalla comunità globale, è più forte della legge del potere. Se della Corte dell’Aja sono propri gli attuali, insormontabili difetti, i Paesi interessati troveranno l’opportunità di istituire un’altra corte penale internazionale, che sia priva di tali difetti. L’accordo costitutivo di tale Tribunale dovrà fondarsi sulla totalità delle norme del diritto internazionale contemporaneo generalmente riconosciute, a inclusione delle norme che tutelano l’immunità assoluta dei funzionari di Stato di alto profilo. Inoltre, la sua giurisdizione potrà essere estesa ai crimini di genocidio, ai crimini di guerra, ai crimini contro l’umanità, finanche agli atti di terrorismo. Tali atti non di rado vengono preparati e messi in atto sul territorio di due o più Stati. Alla cooperazione internazionale facente capo a quest’organo di nuova istituzione sarà data la possibilità di porre fine a tali atti.
Auspichiamo che questa nuova corte possa realizzare quegli obiettivi che trovarono espressione nello Statuto di Roma dell’ICC, ma che l’ICC si è dimostrata incapace di raggiungere.