La definizione «marxismo analitico» (analytical marxism) si è ormai imposta per identificare alcuni autori che, tra la fine degli anni settanta e la metà degli anni ottanta, hanno tentato una lettura dei testi marxiani e di vari concetti chiave del materialismo storico – quali sfruttamento, classe e coscienza di classe, forze produttive e rapporti di produzione – con gli strumenti della filosofia analitica (G. Cohen) e alla luce di una serie di sviluppi delle scienze sociali del 900, in particolare di alcuni paradigmi che cominciano ad affermarsi pienamente a partire dagli anni 60. Questi paradigmi sono l’individualismo metodologico e il concetto di microfondazione (J. Elster), la teoria dei giochi e la teoria della scelta razionale (J. Roemer). Centrale è anche, per quanto riguarda la proposta teorica di G. Cohen, il concetto di spiegazione funzionale, non tanto nella sua versione sociologica, così come codificata da R.K. Merton in Teoria e struttura sociale[1], ma con riferimento alle analisi di K. Hempel ed E. Nagel[2], volte a chiarire possibilità e limiti di questa forma di spiegazione in un ambito più generale e ad elaborarne una versione epistemologicamente raffinata, in grado di sottrarsi, almeno parzialmente, alle molte critiche formulate nei suoi confronti. Un obiettivo polemico dei paradigmi suaccennati, infatti, è proprio la spiegazione funzionale ingenua. Con questa espressione ci si riferisce, in generale, alla strategia di spiegare qualcosa – si tratti di un comportamento singolo o collettivo, un’istituzione, un gruppo o una classe sociale – attraverso le (presunte) conseguenze positive che ha su qualche altra cosa, a sua volta un gruppo, una classe, un’istituzione o addirittura un sistema sociale in senso ampio. Più analiticamente, possiamo distinguere tra una forma di spiegazione funzionale sincronica, in cui un’istituzione – lo Stato ad esempio – è spiegata attraverso i suoi effetti (la riproduzione del capitalismo), e una diacronica, cioè una forma di teleologia, in cui un supposto stato futuro della società – ad esempio il comunismo – spiega il presente come sua preparazione: il capitalismo crea le basi materiali del comunismo[3].

In opposizione a questo modo di procedere, l’individualismo metodologico, quale modello generale di spiegazione nelle scienze sociali, considera i fenomeni sociali come il risultato della combinazione di azioni, credenze o atteggiamenti individuali. Il concetto di microfondazione specifica che, in particolare dove si enuncia una relazione funzionale tra variabili o si tenta di spiegare l’affermarsi di un interesse collettivo è necessario mettere in luce i meccanismi a livello individuale che, sotto opportune condizioni e attraverso varie forme di aggregazione, danno luogo al fenomeno complesso. Riuscire a specificare i meccanismi di livello individuale che permettono alla relazione funzionale di instaurarsi e di perdurare e all’interesse collettivo di affermarsi, impedisce l’introduzione, in questo tipo di spiegazioni, della forma di teleologia caratteristica della spiegazione funzionale ingenua a cui accenavamo. Impedisce, cioè, di dare per implicito il fatto che un comportamento o un’istituzione si realizzino perché hanno la funzione latente (cioè non riconosciuta e non voluta dagli attori sociali) di essere utili a una certa classe o gruppo sociale. Facendo propri questi due aspetti la spiegazione dei fatti sociali deve, secondo Elster, strutturarsi in tre passaggi: «la spiegazione causale degli stati mentali come i desideri e le credenze; poi la spiegazione intenzionale dell’azione individuale in termini di credenze e desideri soggiacenti. Infine la spiegazione causale dei fenomeni aggregati o globali a partire dalle azioni individuali che contribuiscono alla loro formazione»[4].

Da un punto di vista storiografico il marxismo analitico è stato interpretato sia come una risposta al marxismo althusseriano (o, più generale, strutturalista) e alle sue pretese teoriche in parte ritenute eccessive, sia come una ripresa dei temi della razionalità e della soggettività. Tuttavia, nonostante la diversità dello stile argomentativo, entrambi hanno in comune la critica alla teleologia. Invero, come osserva A. Callinicos, Althusser ha in un certo senso preparato la strada al marxismo analitico mostrando l’irriducibilità di Marx ad Hegel e liberando il materialismo storico dai residui di pensiero hegeliani. Lo sforzo di Althusser e Balibar, in Leggere Il Capitale[5], di ricostruire il materialismo storico in termini strettamente non-hegeliani aveva infatti costituito il punto di avvio per un riesame critico, una chiarificazione sistematica e per una  più coerente riformulazione teorica dei concetti base del materialismo storico, e tali operazioni sono ciò che E. O. Wright considera come caratteristiche fondamentali del marxismo analitico. Il fallimento del progetto althusseriano, percepito come una sorta di prova dall’esito negativo, – osserva Callinicos – ha dato maggiore sostanza a quella che A. Levine e E. O. Wright chiamano «la conclusione provvisoria» alla quale, negli ultimi decenni, era giunto lo studio scrupoloso di Marx da parte di ricercatori di formazione analitica. Secondo questa conclusione, nonostante i numerosi proclami, la metodologia di Marx non presenta caratteristiche particolari, almeno là dove essa approda a conclusioni solide e ben argomentate[6].

Riguardo ad alcune tematiche caratteristiche del marxismo analitico, vale la pena di osservare che il problema del rapporto tra agire intenzionale, scelta individuale e processi socio-economici oggettivi aveva cominciato ad assumere rilevanza anche nell’ambito di posizioni assai meno eterodosse di quelle qui presentate. G. Lukács nell’Ontologia dell’essere sociale [7] aveva tentato di mostrare come Marx non dimentica mai che dietro le «leggi economiche» esistono sempre posizioni intenzionali di singoli individui, le quali possono però produrre risultati non intenzionali. Insistere sul rapporto tra posizioni teleologiche degli individui e leggi economiche significa non solo rifiutare ogni forma di economicismo ma anche ogni sorta di teleologia oggettiva che pone, dietro i fenomeni economici e sociali, una misteriosa necessità non collegata alle intenzioni e agli scopi degli esseri umani che agiscono. L’interpretazione che Lukács cerca di dare di Marx può quindi essere considerata una presa di posizione ante litteram contro le forme di spiegazione funzionalista ingenua.

Sono anche, in particolare, gli anni in cui J. Habermas sviluppa, nell’Etica del discorso[8] e nella Teoria dell’agire comunicativo[9], le tematiche della razionalità e della soggettività, dopo aver già elaborato nel suo testo del 1976, Per la ricostruzione del materialismo storico[10], uno schema dell’evoluzione storica non rigidamente basato sullo sviluppo delle forze produttive e sul loro rapporto con le relazioni di produzione, ma volto piuttosto a concepire una forma di sviluppo autonomo della coscienza morale in cui ontogenesi e filogenesi risultino collegate. Mentre Habermas è però più interessato a definire uno spazio trascendentale di comunicazione libero dal dominio e che valga perciò come punto di riferimento ideale dei processi d’intesa concreti e di processi democratici più generali, i soggetti che il marxismo analitico analizza sono collocati in un quadro conflittuale, in cui centrale è l’agire razionale auto-interessato e le dinamiche strategiche che permeano l’interazione. In questo quadro l’unica intesa possibile è un provvisorio coagularsi di interessi in una forma di azione collettiva.

1. «Rendere Marx sensato?». Teleologia e microfondazione

1.1    J. Elster, nel suo testo Making sense of Marx, legge i testi marxiani alla luce della contrapposizione «individualismo metodologico» / «spiegazione funzionale ingenua e teleologia».

Analizzando vari passi, tratti da diverse opere, egli cerca di mostrare che Marx è caduto spesso in varie forme di spiegazione funzionale e teleologica, mentre ciò che di valido ha scritto può essere ricondotto ai principi dell’individualismo metodologico e al concetto di microfondazione, così come precedentemente definiti. Lo schema teleologico risulterebbe perspicuo, ad esempio, in alcuni passi dei Manoscritti economico-filosofici del1844 e dei Manoscritti del 1861-1863che identificano l’alienazionee la sua soppressione come l’essenza dello sviluppo umano.I tratti generali di questo schema sono noti. In una prima fase l’alienazione– intesa come situazione di non controllo dell’individuo sulle proprie condizioni di vita e di lavoro e sui frutti di quest’ultimo, e quindi di dipendenza materiale da altri, di impossibilità di soddisfare i propri bisogni e di sviluppare in modo creativo la propria personalità –   si afferma in modo necessario a favore dei capitalisti, i quali possono soddisfare i loro bisogni e, attraverso lo sviluppo delle forze produttive che essi favoriscono, sono veicolo di civilizzazione. L’operaio costituisce la base materiale necessaria di questo sviluppo e di questa civilizzazione ma solo in quanto operaio collettivo appropriato al capitale. Come individuo singolo, invece, il suo lavoro non gli appartiene ed egli non può andare oltre la mera sussistenza e il soddisfacimento delle pure funzioni vitali elementari. La soppressione dell’alienazione, cioè la futura società comunista, sancirà la possibilità, per ogni essere umano, di essere padrone del proprio lavoro e dei suoi frutti, di realizzare i propri bisogni e sviluppare la propria piena individualità. Elster cita anche altri passi dei Grundrissee delle Teorie sul plusvalore in cui si fa accenno, ancora, ad una periodizzazione della storia di tipo hegeliano, nella quale, all’iniziale unità dell’uomo con i mezzi di produzione basata su relazioni di dipendenza personale oppure sulla proprietà comune, subentra, con la forma capitalistica, la separazione tra lavoro e mezzi di produzione cui farà seguito, con il comunismo, il recupero della precedente unità in una forma più elevata, non lacerata da forme di dominio personale, quale fine di tutto il processo.

É indubbio che nei passi citati vi sia una dimensione teleologica, ma bisogna considerare il fatto che essi sono tratti da testi o non destinati alla pubblicazione – nessuno sa dunque che forma avrebbero avuto se Marx fosse riuscito a darli alle stampe, che cosa avrebbe lasciato e che cosa avrebbe eliminato – oppure, come i Manoscritti del 1844, da tesi appartenenti alla fase giovanile del suo pensiero, fase rispetto alla quale il tema della teleologia e dell’influsso hegeliano è già stato oggetto di un ampio dibattito. Di conseguenza, è difficile comprendere l’insistenza e l’asprezza della polemica condotta da Elster, autore che, peraltro, opera a volte una strana scelta di citazioni. Trascurando quasi del tutto la linea interpretativa che fa capo all’Ideologia tedesca – testo in cui Marx polemizza con i filosofi che hanno rappresentato il processo storico come la storia dell’«Uomo» e non degli uomini concreti e che hanno visto ogni stadio dello sviluppo storico come scopo di quelli precedenti – Elster si sofferma in maniera minuziosa su passi tratti da alcuni articoli scritti da Marx per il New York Daily Tribune, che hanno, secondo lui, forti accenti teleologici. In tal senso invita ad esempio a soffermarsi su quanto Marx afferma sul suo atteggiamento verso la Turchia, ossia che la Russia «non fu che la schiava inconsapevole e riluttante del fato moderno, la rivoluzione»[11] o che la dominazione britannica in India fu «lo strumento inconsapevole della storia» per provocare la rivoluzione in Asia[12]. A ben guardare però queste espressioni sembrano svolgere una funzione (consapevolmente) narrativa e retorica giustificata dalla cornice giornalistica[13] e, come fa osservare A.Wood[14], non si trovano mai all’interno di insiemi di asserzioni programmatiche più generali sul materialismo storico né tantomeno in loro applicazioni. Appare quindi abbastanza azzardato collegarle a una visione teleologica generale dello sviluppo storico.

Elster cita poi vari passi tratti sia, come nel caso precedente, dai Manoscritti del 1844 e da articoli di giornale, che dal testo Le lotte di classe in Francia e, ancora, dal primo (in particolare dal capitolo sulla giornata lavorativa) e dal terzo libro del Capitale, nei quali, a suo parere, Marx utilizza una forma di spiegazione funzionale ingenua oppure oscilla tra quest’ultima e una forma di spiegazione microfondata . In particolare, dal terzo libro del Capitale, Elster cita un passo molto noto sulla mobilità sociale:

Secondo Elster, Marx spiega qui la mobilità sociale per mezzo dei suoi effetti positivi per la classe dominante e si limita a individuare qualcosa come un meccanismo solo avvalendosi dei vaghi concetti di «azione» e «interesse» del «capitale», nel senso di sistema capitalistico nel suo insieme. Quest’espressione avrebbe un senso se il «capitale» fosse in qualche modo definibile come un attore collettivo. In questo caso, si potrebbe attribuirgli l’elaborazione di un piano con cui, di fatto,  vengono consapevolmente selezionati i talenti migliori delle classi inferiori al fine preciso di rinnovare e rafforzare la classe superiore. Il «capitale» – sempre nel senso di sistema capitalistico complessivo – non è tuttavia trattabile, da un punto di vista strettamente analitico, come un attore collettivo, mentre lo è, almeno in linea di principio, la Chiesa, così come qualsiasi altra organizzazione sociale[17].

Si può tuttavia osservare che in questo passo, così come in realtà negli altri citati, i fenomeni descritti non sono spiegati da Marx esclusivamente attraverso le loro conseguenze favorevoli. Nel passo sulla mobilità sociale, ad esempio, Marx asserisce che la mobilità sociale ha conseguenze benefiche per il capitalismo – cosa che difficilmente può essere messa in dubbio – e non già che la mobilità sociale si verifica nel capitalismo perché ha degli effetti benefici sul sistema. Marx applica dunque il paradigma funzionale debole, precedentemente ricordato[18], che non presenta alcuna difficoltà epistemologica. Inoltre come diversi autori, tra cui D. Schweickart [19], hanno sottolineato, non è dato trovare nel pensatore tedesco, una presa di posizione teorica, di tipo più generale, secondo la quale un certo evento è spiegabile tramite le sue conseguenze.

1.2.    Intrecciato alla critica al presunto uso, da parte di Marx, di forme di spiegazione funzionale ingenua, è il tentativo di ritrovare, nei testi marxiani, analisi che cercano di mettere in evidenza le azioni e le scelte dell’individuo in quanto entità non completamente condizionata da una struttura sociale soverchiante. Sono sviluppati in maniera acuta, dal punto di vista delle dinamiche individuali, diversi concetti tra cui quelli di libertà e alienazione, anche se a volte è rilevabile un’enfasi forse eccessiva sulle alternative e sulle possibilità/libertà di scelta del singolo individuo[20].

Le parti di Making sense of Marx dove tuttavia è possibile cogliere meglio, a nostro avviso, il senso dell’analisi in termini di microfondazione così come i pregi e i limiti di un approccio basato sull’individualismo metodologico, sono quelle dove Elster prende in considerazione la teoria economica marxiana e quei passi della opera di Marx dove quest’ultimo ha posto direttamente o indirettamente il problema dell’ideologia, nonché, infine, quelli dove si è soffermato sulla descrizione delle classi sociali e delle loro dinamiche.

In termini economici, secondo le assunzioni dell’individualismo metodologico in senso stretto (reali sono solo gli individui, le loro intenzioni e i loro stati mentali), reali sono solo i prezzi e non i valori perché coloro che agiscono sul mercato prendono decisioni significative e consapevoli esclusivamente in base ai prezzi. Ciò spinge Elster a un drastico e, secondo noi, non sufficiente motivato rifiuto della teoria del valore. Al di là della critica dal punto di vista logico-metodologico appena accennata e di qualche riferimento più che tradizionale ai suoi punti di debolezza, manca, in effetti, in Making sense of Marx, un confronto e una seria critica a una serie di sviluppi che la teoria del valore ha avuto nella riflessione teorica successiva a Marx. Questi sviluppi mostrano posizioni contrastanti. Da una parte troviamo chi sostiene che il nesso causale che collega valori e prezzi di produzione è piuttosto labile, e può essere abbandonato senza alterare sostanzialmente le tesi di fondo del Capitale; dall’altra, chi invece sostiene che, pur essendo rilevabili delle incoerenze nel procedimento di trasformazione, la teoria del valore rimane fondamentale, al di là del semplice problema della determinazione dei rapporti di scambio tra le merci. Questo dibattito è probabilmente tutt’altro che definitivo, ma ha il merito di chiarire che l’abbandono della teoria del valore non è così scontato come un suo critico estremo, quale Elster si dimostra essere, potrebbe pensare[21].

Il suaccennato rifiuto da parte di Elster della teoria del valore insieme, ancora una volta, alla polemica sulla spiegazione funzionale e teleologica sembra tra l’altro favorire, anche in questa parte del testo, una determinata strategia espositiva. Per quanto riguarda il denaro, ad esempio, Elster riporta solo quei passaggi dei Grundrisse nei quali – secondo lui – Marx lo descrive come un’entità mistica autonoma, dotata di un proprio movimento dialettico, e nei quali la negazione dei principi dell’individualismo metodologico giungerebbe al suo massimo grado. Questa interpretazione trascura gli aspetti più empirici dell’analisi di Marx sviluppati nel Capitale, dove Marx si occupa in modo approfondito e con acutezza di problemi monetari, ritenendoli importanti per comprendere la dinamica di breve periodo dell’economia capitalistica. I fenomeni monetari contribuiscono in modo specifico, secondo Marx, alle fluttuazioni economiche, anche quelle riguardanti l’economia reale[22]. Le analisi di Marx sui problemi monetari connessi al ciclo sono perfettamente compatibili con un’impostazione basata sulla premessa del comportamento razionale degli individui. È discutibile, inoltre, che Marx abbia messo in pratica – come Elster sostiene sempre a proposito di alcuni passi dei Grundrisse sul denaro – un processo di ipostatizzazione mistica delle categorie economiche; ha invece cercato di cogliere un processo di ipostatizzazione reale messo in atto da individui reali secondo ipotesi coerenti con l’individualismo metodologico.

In generale, allora, per quanto riguarda la teoria economica di Marx, Elster salva solo quelle analisi che contengono, secondo lui, spunti coerenti con l’individualismo metodologico e con il concetto di microfondazione, cioè, come già abbiamo sottolineato, con un’impostazione che parte dal comportamento razionale dei singoli individui e da esso deduce entità collettive e fenomeni di livello globale o aggregato. Questa impostazione si ritrova, secondo Elster, in alcune intuizioni sul progresso tecnico e la scelta delle tecniche di produzione, nell’analisi del processo di equalizzazione dei saggi del profitto oltre che nella struttura logica della teoria della caduta tendenziale del saggio del profitto. Queste due spiegazioni in particolare, così come sono formulate da Marx nel terzo libro del Capitale, sono fondate in modo corretto a livello delle motivazioni e delle azioni individuali, si basano cioè sul comportamento razionale dei capitalisti e da questo deducono grandezze aggregate. L’equalizzazione dei saggi del profitto avviene, infatti, attraverso lo spostamento di capitali tra i vari settori messo in atto dagli imprenditori razionalmente motivati a investire in quelli ad alto saggio del profitto. Attraverso una miriade di movimenti di questo tipo, regolati da domanda e offerta (in alcuni settori che erano ad alto saggio la domanda comincia a cadere a causa dell’eccesso di capitali investiti, causando lo spostamento di capitali verso altri settori dove la domanda è ancora alta) si arriva appunto alla formazione di un saggio medio.

Per quanto riguarda la caduta del saggio di profitto, il singolo capitalista è razionale nell’introdurre innovazioni che risparmiano lavoro. Ciò gli permette, infatti, di oggettivare meno lavoro nelle merci da lui prodotte e quindi di venderle ad un valore individuale inferiore al valore sociale, cioè di venderle allo stesso prezzo di mercato anche se i costi di produzione sono minori, ottenendo così un sovra-profitto. Poiché però, ovviamente, questo processo è messo in atto da tutti i capitalisti, nel lungo periodo si avrà complessivamente una riduzione della quantità di lavoro impiegata nei processi produttivi, cioè del capitale variabile, e un aumento del capitale costante. Questo fatto avrà come conseguenza, un aumento della composizione organica data appunto dal rapporto tra capitale costante e capitale variabile (c/v). Anche il saggio di plusvalore (p/v=s) aumenta, in particolare a causa dell’aumento della produttività dell’industria che produce beni-salario. Si consideri ora la formula del saggio di profitto data da r=p/(c+v). Se si divide ogni termine (sia a numeratore che a denominatore) per v essa diventa: r=s/(c+1), cioè saggio del plusvalore/(composizione organica del capitale + 1). Da questa formula, se l’aumento della composizione organica del capitale è, sul lungo periodo, maggiore del saggio di plusvalore, si ottiene la tendenza alla riduzione del saggio di profitto. Un fenomeno aggregato, che riguarda cioè il sistema economico nel suo insieme, è quindi spiegato partendo dal livello micro della razionalità individuale, ovvero la ricerca del profitto da parte dei singoli capitalisti che causa appunto l’aumento della composizione organica.

Non entriamo qui nel merito della discussione che si è svolta sulla validità di questa legge. Marx stesso aveva evidenziato una serie di cause antagoniste alla caduta del saggio del profitto, tra cui il fatto che l’aumento della composizione organica e quindi l’aumento della produttività, a causa dello sviluppo tecnologico e della progressiva meccanizzazione della produzione, si verifica in tutti i settori dell’economia. Si riduce, quindi, il valore non solo dei beni salario ma anche quello dei beni capitali. Per questa ragione la composizione organica in termini di valore potrebbe aumentare in modo lento, o non aumentare affatto. Questa riduzione del valore dei beni capitali potrebbe quindi costituire non – come la definiva Marx – una «causa antagonistica» alla riduzione della composizione organica espressa in valore, che col tempo affievolirà i suoi effetti, ma un ostacolo assoluto. Un altro aspetto significativo è l’andamento del saggio del plusvalore. Per Marx, come si è evidenziato esponendo la struttura della legge stessa, non necessariamente esso è costante, a causa della continua innovazione tecnologica che tende a far diminuire il valore dei beni salario. Nella sua visione, tuttavia, questo fatto compensa la progressiva riduzione del capitale variabile (cioè del numero di operai effettivamente impiegati) soltanto parzialmente, nel senso che il saggio del plusvalore non può aumentare oltre un certo limite. Questo limite, però, se si assume una crescente produttività del lavoro e i salari quasi sempre su livelli di sussistenza, non è per nulla definito. È quindi un fatto empirico determinare la direzione in cui il saggio del profitto si muove. Sul piano strettamente analitico non si può sostenere a priori niente di preciso[23]. Elster, comunque, salva solo la struttura logica della legge negando ad essa qualsiasi validità empirica. Secondo diversi autori, tuttavia, partendo da alcune premesse, come la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo, la teoria della caduta tendenziale del saggio del profitto risulterebbe verificabile empiricamente[24]. In ogni caso, l’insieme di analisi che va sotto il nome di «teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto», staccato dalla sua cornice apocalittica, può diventare la base di una teoria del ciclo economico con minori pretese ma più controllabile. Ad esempio, secondo la teoria economica recente, all’origine dell’inflazione e dei periodi di ristagno vi è la spirale prezzi-salari. Una politica dei redditi, in accordo con le organizzazioni dei lavoratori, è considerata il mezzo più efficace per rendere stabile il livello di occupazione. Marx, pur partendo da un modello di capitalismo di pura concorrenza, riteneva che il salario, nei periodi di espansione, sarebbe salito al di sopra del costo della forza lavoro e avrebbe tolto incentivi a nuovi investimenti. Egli diede così avvio alle spiegazioni «endogene» del ciclo economico oggi ampiamente accettate[25].

Per quanto riguarda l’ideologia, nelle parti della sua opera dove si è soffermato su questo problema, Marx generalmente non ha usato, secondo Elster, spiegazioni funzionaliste ingenue – cioè non ha dato per scontato che una certa visione della realtà si affermi solo in quanto utile a una certa classe sociale – ma è stato coerente con  una forma di spiegazione intenzionale, descrivendo meccanismi alla cui base ci sono individui, i loro interessi i loro stati cognitivi ed emozionali.

È possibile ritrovare in Marx la descrizione di quattro tipi di meccanismi ideologici[26] aventi, quale comune denominatore, la comprensione del tutto dal punto di vista della parte o, da un punto di vista leggermente diverso, la generalizzazione a un ambiente globale di caratteristiche valide solo localmente. Abbiamo allora: 1) l’inversione tra soggetto e predicato. Si tratta di un meccanismo cognitivo-motivazionale, nel quale cioè la spiegazione delle credenze è in parte basata sulla posizione sociale e in parte sull’interesse. Ne costituisce un esempio la critica alla religione ripresa da Feuerbach, a sua volta criticato da Marx per il limite della sua concezione dell’uomo, completamente astratto dai rapporti sociali. Secondo Feurbach, com’è noto, alla base della religione si trova un meccanismo di proiezione: l’uomo proietta i suoi attributi (forza, capacità, amore, intelligenza) nella figura della divinità, rendendola così una potenza autonoma. Il discorso feuerbachiano viene sviluppato da Marx nel concetto di alienazione in ambito economico-sociale, in cui, come nella religione, l’uomo è schiavo del proprio prodotto. Un ulteriore aspetto di quest’inversione è l’astrazione. Con questo termine Marx interpreta, nell’Ideologia tedesca, gli effetti della divisione del lavoro, divisione a causa della quale gli agenti di ogni sfera della produzione non materiale (diritto, politica, religione, morale) fissano il loro ambito di competenza come assoluto, facendone il riferimento ultimo e la forza propulsiva della realtà. Il secondo meccanismo è 2) la rappresentazione dell’interesse particolare di una classe come interesse generale della società, in particolare nei periodi rivoluzionari. Si tratta di un meccanismo «caldo», cioè motivazionale dove la spiegazione delle credenze è basata sull’interesse. Da vari passi dell’Ideologia tedesca, del Diciotto brumaio, de Le Lotte di classe in Francia emerge, in effetti, come Marx ritenesse necessario un meccanismo «caldo» di formazione delle credenze in vista dell’azione politica, più precisamente una forma di wishful thinking, cioè di illusione cognitiva per la quale sovrastimiamo la possibilità di realizzarsi di ciò che torna a nostro vantaggio. Esiste certamente una base oggettiva delle coalizioni tra classi, nel senso che gli interessi della classe che prende l’iniziativa coincidono parzialmente con quelle delle classi che sono chiamate a collaborare. Questa base deve essere tuttavia promossa e affermata attraverso l’illusione dell’universalità dell’azione politica. Questa universalità viene sia propagandata e sostenuta dai politici della classe che sale al potere, sia accettata, almeno parzialmente, da coloro che ad essi danno appoggio. Abbiamo poi 3) l’imperialismo concettuale, meccanismo «freddo», in cui la spiegazione delle credenze è basata sulla posizione sociale. Si verifica quando una forma sociale o una parte di essa, in generale considerata meno avanzata, viene giudicata con categorie proprie di un’altra forma sociale o di una sua parte, considerata, al contrario, più avanzata. In particolare, Elster richiama il fatto che, nelle Teorie sul plusvalore, Marx mette in guardia contro l’applicazione di categorie capitalistiche all’artigiano indipendente o al contadino piccolo proprietario, cioè contro l’applicazione di categorie capitalistiche ai settori non capitalistici di un’economia prevalentemente capitalistica. Alla base di questo errore c’è l’illusione ideologica che i mezzi di produzione siano sempre e comunque capitale.

Il meccanismo generale che è alla base di questi tre esempi, cioè la generalizzazione di caratteristiche locali ad una realtà globale si ritrova anche in forma autonoma. In questo caso 4) la spiegazione delle credenze è basata sulla posizione sociale. Si tratta dell’errore per cui, dal fatto che un certo predicato o un insieme di predicati risulta vero se applicato a un singolo agente, si deduce che sia vero anche quando viene applicato alla totalità degli agenti. Elster cita qui un passo del terzo libro del Capitale in cui Marx coglie questa fallacia in relazione all’uso del capitale come capitale impiegato nella produzione o come capitale che produce interesse[27]. Dal fatto che ognuno possa individualmente usare il proprio capitale non in attività produttive ma come capitale che viene prestato fruttando un interesse, è errato credere che tutti possano farlo. Se ciò si verificasse la produzione reale si arresterebbe e la struttura economica capitalistica non esisterebbe più come tale.

Analisi coerenti con il principio dell’individualismo metodologico si ritrovano anche nella parte delle Teorie sul plusvalore in cui Marx esamina le teorie dei mercantilisti e degli economisti da lui definiti «volgari», dal punto di vista degli errori cognitivi alla base di esse. Elster ha parole di notevole apprezzamento per queste analisi[28]. Sussiste però a nostro avviso una contraddizione tra questa valutazione positiva e il rifiuto sostanziale da parte di Elster della teoria del valore, cui abbiamo precedentemente accennato. Invero, la critica da parte di Marx agli economisti da lui definiti «volgari» si definisce proprio a partire dalla teoria del valore, che si accetti o no questa teoria. In essa, la rendita e il profitto sono viste come parte del plusvalore, a sua volta sottrazione dal valore complessivo oggettivato dall’operaio, in opposizione alla visione degli economisti «volgari» che ritengono, al contrario, che salario profitto e rendita siano una giusta retribuzione per il contributo dei fattori produttivi lavoro, capitale e terra. Essi generalizzano, così, il punto di vista superficiale degli agenti della produzione, ognuno dei quali considera necessaria, da un punto di vista funzionale, la propria partecipazione al processo produttivo. Questo problema né solleva un altro più profondo e cioè la compatibilità della teoria del valore con i principi dell’individualismo metodologico. Come si ricorderà, analizzando il modo in cui Elster legge la teoria economica marxiana, abbiamo cercato di mostrare che il concetto di feticismo può essere conciliabile con i presupposti ontologici dell’individualismo metodologico. Il problema, per quanto riguarda la teoria del valore, è costituito dal rapporto tra valori e prezzi di produzione. Come già abbiamo avuto modo di sottolineare, dal punto di vista di una concezione economica coerente con una forma individualismo metodologico in senso stretto (reali sono solo le azioni di individui basate su intenzioni coscienti), reali sono solo i prezzi perché coloro che agiscono sul mercato prendono decisioni significative esclusivamente in base ad essi. In una concezione siffatta i valori devono necessariamente essere considerati entità sconosciute agli agenti economici, entità che, in altri termini, non entrano nei loro calcoli e nelle loro valutazioni e non influenzano minimamente le dinamiche dell’economia; in una parola: entità «metafisiche». Tuttavia, ciò che Marx voleva dimostrare è proprio il fatto che le dinamiche del valore si impongono alle spalle degli agenti produttivi e che questi hanno, come nell’esempio che abbiamo esaminato, una visione superficiale e contraddittoria della realtà economica basata solo sui prezzi. O si liquida questo aspetto – come Elster effettivamente fa – quale «residuo hegeliano» del pensiero di Marx, oppure, da questo punto di vista, l’individualismo metodologico sembra difficilmente conciliabile con la teoria del valore e, in senso più ampio, con la metodologia marxiana.

Nel capitolo di Making sense of Marx dedicato ai vari spunti marxiani riguardanti una possibile analisi delle classi sociali, Elster si propone di considerare queste ultime come possibili attori collettivi. Ed è questo principio che ispira anche la sua interpretazione dei testi marxiani, sebbene questa parte sia quella che più si allontana dal filo testuale, spostandosi piuttosto verso un tentativo di elaborazione autonoma del concetto di coscienza di classe e della possibilità di una sua microfondazione. Ciò significa spiegarla in base alle motivazioni e agli interessi dei singoli individui, alle condizioni che favoriscono od ostacolano appunto la presa di coscienza di questi interessi e che permettono che essi possano «coagularsi» nell’azione collettiva, senza presupporre che questa coscienza sia data a priori semplicemente in virtù di una particolare collocazione nella struttura sociale. In particolare, riguardo al problema della coscienza di classe, Elster cita alcuni passi in cui Marx sembrerebbe oscillare tra due visioni di questo fenomeno. Da una parte, una visione microfondata, secondo la quale gli sforzi che i lavoratori compiono per ottenere benefici economici cambiano i lavoratori stessi, creando in essi il desiderio di andare oltre questi benefici in nome di obiettivi politici. Gli interessi di più ampio respiro, quindi, non emergono prima dell’organizzarsi stesso dei lavoratori, volto a confrontarsi con i capitalisti sugli interessi più immediati[29]. Dall’altra, una visione teleologica dove quegli sforzi hanno solo la funzione di tramite necessario per creare la coscienza di classe e per promuovere la rivoluzione politica, indipendentemente dai concreti risultati economici. Si osservi comunque che anche in questo caso si tratta di opere non destinate alla pubblicazione o comunque di scritti di circostanza. Dal punto di vista testuale la ricostruzione di Elster del concetto di coscienza di classe parte richiamando un famoso passo del Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte in cui Marx parla della condizione di reciproco isolamento dei contadini francesi definiti come «patate in un sacco» e in opposizione alla quale enuncia i tre requisiti fondamentali affinché si possa parlare di classe per sé. Questi requisiti sono la comunanza di interessi, la presenza di legami nazionali e l’organizzazione politica. Prima di arrivare alla classe per sé, tuttavia, è possibile, secondo Elster, identificare due categorie intermedie, e cioè, innanzitutto, la classe per altri, nel senso dell’identità di un gruppo di persone che si forma semplicemente attraverso l’opposizione a un altro gruppo. A questo proposito, Elster fa l’esempio – tratto dall’antropologia – di un membro di una determinata tribù che vede i membri di un’altra tribù come un gruppo indifferenziato verso il quale egli ha lo stesso schema di comportamento. Egli non dimentica di far osservare che Marx ha comunque sfiorato questo concetto, parlando della classe lavoratrice inglese come classe in opposizione al capitale, ma non ancora per sé, e della borghesia tedesca che già si trova in conflitto con il proletariato, senza essere politicamente costituita come classe[30]. Un secondo livello è la solidarietà. La contrattazione collettiva è un esempio di solidarietà così come, sempre in questo ambito, il rifiuto che una parte della classe operaia può opporre allo stipulare un accordo con i padroni, a proprio vantaggio ma a svantaggio degli altri lavoratori. Elster definisce allora la coscienza di classe in senso affermativo (cioè non definita, come nel caso della classe per altri, per negazione) come «la capacità di superare il problema del free-rider nella realizzazione degli interessi di classe»[31]. Il conflitto principale è quindi quello tra l’interesse del singolo individuo e l’interesse della classe. Tuttavia anche la classe può essere tentata di comportarsi come free-rider, rispetto ai suoi interessi a lungo termine.

Un altro aspetto fondamentale per comprendere le motivazioni all’azione collettiva sempre dal punto di vista della microfondazione sono i guadagni e le perdite di chi vi si impegna. Chi agisce deve quindi valutare: a) il guadagno che gli deriva dalla cooperazione, b) Il guadagno che gli deriva comportandosi da free-rider, c) La perdita che gli deriva se è lui il solo a impegnarvisi. Chiaramente, la probabilità dell’azione collettiva aumenta all’aumentare di a) e diminuisce all’aumentare di b) e c). Sempre dal punto di vista dei requisiti in vista dell’azione collettiva, ulteriori aspetti di una microfondazione della coscienza di classe risultano essere: 1) la comprensione che i membri della classe hanno della situazione in cui si trovano, delle cause che l’hanno determinata e dell’identità delle altre classi; 2) la capacità di andare oltre il conflitto immediato, faccia a faccia, e di capire le varie mediazioni che si oppongono alla comprensione delle vere responsabilità dello sfruttamento (i lavoratori, infatti, non interagiscono direttamente con i proprietari dell’impresa ma con i managers). Un ostacolo al realizzarsi di queste condizioni può essere, tuttavia, la mancanza, nella vita quotidiana, di un’assoluta certezza di dove giace la linea di demarcazione tra le classi. Altre determinanti della motivazione all’azione collettiva sono: 1) l’ampiezza del gruppo; 2) l’isolamento o la vicinanza dei potenziali soggetti dell’azione collettiva; 3) Il livello di turnover del gruppo[32].

L’insieme di fattori così evidenziati, quali determinanti dell’azione collettiva e della formazione della coscienza di classe, deve a sua volta essere integrato da alcuni presupposti metodologici di carattere più generale. Questi presupposti sono: 1) non presumere, a priori, che l’azione collettiva porti dei benefici al gruppo ma considerare, innanzitutto, il singolo attore e attribuirgli un comportamento razionale e autointeressato. Questo è il primo livello su cui deve situarsi la spiegazione; 2) se così non si riesce a spiegare la sua partecipazione all’azione collettiva, occorre considerare delle possibili motivazioni altruistiche. Se neppure in questo modo si giunge a una spiegazione soddisfacente, è sensato introdurre motivazioni irrazionali[33]. Il modello base in cui questi presupposti si incarnano è il gioco del dilemma del prigioniero in cui la non cooperazione è la strategia dominante. In esso la cooperazione può emergere  in due forme distinte, a seconda che il gioco abbia come soggetto la classe operaia o la classe capitalista. Nel primo caso – il dilemma del prigioniero diventa un gioco di assicurazione. Nel secondo diventa un gioco ripetuto indefinitamente. Il passaggio dalla strategia dominante, egoistica, all’altruismo avviene, in entrambi i casi, attraverso la regola-principio «coopera solo se l’altro coopera nel primo round», oppure, da un altro punto di vista, «coopera solo se ti aspetti che l’altro cooperi». Si può parlare, quindi, di preferenza condizionale per la cooperazione, che per realizzarsi necessita di informazioni sulle motivazioni dell’altro.

Come abbiamo poco sopra osservato, questa parte è quella che più si allontana dal filo dell’analisi testuale. Per quanto interessante, quindi, non è chiaro lo statuto dell’insieme di concetti che abbiamo esposto all’interno del lavoro propriamente ricostruttivo elsteriano. A volte rimangono accenni isolati, perciò non si riesce a cogliere completamente quale relazione abbiano con il testo e il pensiero marxiano, come nel caso delle considerazioni svolte da Elster sui presupposti dell’azione collettiva e di alcuni accenni a quella che egli chiama «tecnologia dell’azione collettiva» e che comprende un insieme di analisi più tecniche sui costi e i benefici dell’azione collettiva e sulla sua formazione. Altre volte questi concetti sono visti come almeno compatibili con l’approccio marxiano anche se Marx non li ha usati. Così ad esempio, afferma Elster, Marx nelle sue analisi non accenna mai all’isolamento, al turnover, alla dimensione o all’omogeneità del gruppo come fattori che possono influenzare l’azione collettiva, ma essi risulterebbero perfettamente compatibili con le sue concezioni generali[34]. Altre volte ancora Elster lo accusa di non aver saputo cogliere alcuni problemi, lasciando sottintendere che alla base vi sia, come al solito, una carenza del quadro metodologico d’insieme[35]. Così, sempre a proposito del problema del free rider applicato alla classe come attore collettivo, egli scrive: «se i gruppi d’interesse latenti risolvono il loro problema del free rider e riescono a organizzarsi, può sorgere tra i gruppi un problema di free riding di ordine superiore. Ogni gruppo ha interesse ad accrescere la sua parte del prodotto sociale, anche se, così facendo, riduce il totale da suddividere a causa delle perdite secche associate ai monopoli, ai costi di contrattazione ecc. Marx non ha mai preso in considerazione questa eventualità»[36].

Certo, è piuttosto problematico collegare, in maniera non estrinseca, questi concetti così tecnici e specifici e, in generale, questo tipo di analisi, che presuppongono lo sviluppo di una vasta parte delle scienze sociali di questo secolo, a un pensatore come Marx che aveva un diverso quadro teorico di riferimento e altre preoccupazioni sia metodologiche che di ordine sostanziale. Tuttavia, al di là di qualche forzatura legata all’impostazione «micro» (come abbiamo sottolineato, non sembra facile per il singolo individuo, nell’immediatezza della vita quotidiana, riuscire a calcolare i costi e i benefici dell’azione collettiva. Gli si attribuisce una razionalità quasi impossibile da avere in molte situazioni) le intenzioni di Elster sono qui fondamentalmente apprezzabili. Marx, infatti, sottolinea che un insieme di individui diventa un fattore d’importanza sociale significativa, quando intraprende un’azione collettiva e assume quindi una dimensione politica. Le difficoltà cominciano, in effetti, proprio qui. Marx è stato consapevole del rapporto profondamente problematico tra classe in senso strutturale – intesa cioè come caratteristiche di un insieme di individui generate da un dato sistema economico – e classe come attore dinamico del processo storico. Egli ha prestato, tuttavia, un’attenzione molto minore al secondo gruppo di problemi e al modo in cui le classi assumono forme sociali e politiche «attive» e definite. In generale, inoltre, il nesso tra coscienza dello sfruttamento e coscienza della possibilità di un cambiamento dell’ordine economico sembra essere, nelle società odierne, piuttosto labile. La prima forma di coscienza è abbastanza diffusa la seconda si verifica invece raramente[37]. Le analisi di Elster danno un contributo al chiarimento di questi aspetti  anche se, data la prospettiva metodologica di fondo, rimangono in ombra molti problemi con cui la teoria marxista ha dovuto confrontarsi quando ha cercato di spiegare, da un punto di vista non soltanto formale, il sorgere o meno della coscienza di classe nei lavoratori[38].

1.3.   A conclusione della nostra esposizione, vogliamo soffermarci più approfonditamente sul concetto di individualismo metodologico e di quello connesso di riduzionismo quali chiavi di lettura delle analisi marxiane. Seguendo J. Sensat, possiamo fissare alcuni requisiti che devono definire in modo più preciso l’individualismo metodologico. Questi aspetti sono: 1) individualismo ontologico; 2) psicologismo; 3) generalità delle leggi che riguardano il livello di spiegazione individuale; 4) a-socialismo[39].

Il requisito dell’individualismo ontologico implica chesolo gli individui in carne ed ossa siano reali, e solo ad essi siano pertanto attribuibili proprietà di vario livello. Non esistono cioè proprietà che riguardano pensieri, intenzioni, stati mentali di entità sopraindividuali. Le spiegazioni a livello individuale devono inoltre richiamarsi sempre a una forma di psicologismo, devono, in altri termini, porre come primarie le disposizioni cognitive e motivazionali del soggetto in un determinato contesto. Questo contesto può anche essere sociale, ma deve in ogni caso essere definito psicologicamente. Ad esempio, reti di potere in termini di preferenze, intenzioni e aspettative reciproche delle persone, quindi, per chiarire, non in termini giuridici, sulla base di codici e regolamenti, né in termini di risorse. La generalità delle leggi fondamentali che riguardano il livello di spiegazione individuale è il terzo requisito. Esse devono essere applicabili a qualsiasi contesto e non solo a situazioni specifiche. Così ad esempio, se volessimo spiegare la reazione di rabbia di x verso i propri capi, quale risposta a una mancata promozione, dovremmo fare riferimento non a una particolare disposizione di x (è ambizioso e quindi è rimasto particolarmente deluso), né alla particolare dinamica legata all’ambiente di lavoro (è normale, se non si riceve una  promozione che ci si aspettava, sviluppare rabbia contro i propri superiori), ma a una disposizione generale dell’essere umano che prescinde da tratti particolari del carattere del singolo attore e dal particolare ambiente in cui è situato. Essa può essere  enunciata come segue[40]:se l’azione di un individuo non riceve la ricompensa che questi si attendeva o dà luogo a un castigo imprevisto, l’individuo metterà in atto con più probabilità un comportamento aggressivo e giudicherà più validi i risultati di questo comportamento. Il criterio appena definito è determinante per definire un effettivo livello individuale di spiegazione, livello che deve quindi portare questa dimensione di generalità nell’approccio al comportamento in contesti sociali. Il quarto requisito è l’a-socialismo (asocialism). Esso richiede, in modo rigoroso, che il vocabolario usato al livello di spiegazione individuale non comprenda attributi sociali dei soggetti. Si deve, cioè, riuscire a definire gli stati mentali, fisici ed emozionali degli individui senza far riferimento alle dinamiche relazionali ed istituzionali in cui questi individui sono coinvolti, quindi in termini esclusivamente psicologici. Il vincolo dell’a-socialismo non nega che gli eventi sociali possano determinare negli individui credenze e desideri. Il problema è semmai la natura di quelle credenze e di quei desideri: detto altrimenti, il problema è, usando il vocabolario adeguato, se sia possibile definirli in modo autonomo rispetto al livello della realtà sociale, oppure se qualsiasi loro occorrenza debba essere spiegata come non determinabile indipendentemente da un processo sociale di qualche tipo.

Indipendentemente dalla possibilità e dall’utilità di verificare se una teoria sociale soddisfi o no questi requisiti, l’analisi di Marx non può essere inserita in una metodologia che rispetti i punti summenzionati, eccezion fatta per l’individualismo ontologico. Nel pensatore tedesco si ritrova infatti una netta opposizione a un tipo di analisi sovrastorica e generalizzante. Illuminante a questo proposito è l’analisi svolta, sempre da Sensat,del modo in cui Marx tratta il concetto di concorrenza. Marx, senza rifiutare l’individualismo ontologico, rifiuta però una descrizione a-sociale della concorrenza. Quest’ultima è una caratteristica immanente del capitalismo sviluppato e non qualcosa di contingente, che si aggiunge, per così dire, dall’esterno, attraverso decisioni individuali dei capitalisti. Non è possibile definire il capitalista come ruolo sociale senza la relazione di concorrenza[41]. Il fatto di cercare in tutti i modi di tener bassi i salari, ad esempio, non è una scelta rispetto alla quale il capitalista potrebbe avere alternative. Anche se i singoli capitalisti possono, in effetti, percepire la concorrenza come qualcosa che esercita una costrizione contro il loro presunto libero arbitrio, non avrebbe senso affermare che se non fossero costretti dalla concorrenza, essi non farebbero ogni sforzo per limitare i salari e pagherebbero di più gli operai. Infatti se non ci fosse la concorrenza che impone questa dinamica significherebbe che l’economia non è di tipo capitalistico e quindi non esisterebbero neppure i capitalisti e i lavoratori salariati. Allo stesso modo, quando Marx, nell’Introduzione al primo libro del Capitale, afferma di trattare il capitalista esclusivamente come personificazione di una categoria economica e come portatore di relazioni e di interessi di classe, sta negando la possibilità di una forma di riduzionismo psicologico. Esistono leggi di una determinata sfera sociale (in questo caso leggi del mercato) che sono indipendenti dalle motivazioni individuali e alle quali ci si deve adattare qualsiasi possano essere queste motivazioni. Queste leggi quindi costituiscono un livello esplicativo sociale soverchiante, rappresentato dalla necessità di essere competitivi attraverso varie strategie e quindi dalla necessità di reinvestire continuamente i profitti per riprodurre il ciclo denaro–merce–maggiore denaro. Ad esso possono corrispondere, a livello psicologico, varie motivazioni: semplice sete di denaro, di prestigio sociale e di potere, oppure accumulazione di denaro con l’intenzione, da un certo momento in poi, di vivere di rendita e coltivare i propri hobbies, di avviare un progetto di beneficenza o persino, per assurdo, di finanziare la rivoluzione proletaria. Marx quindi, senza negare possibilità d’azione al singolo individuo, cerca di collegarla a delle strutture sociali dotate di una loro autonomia e stabilità[42]. D’altra parte Marx esclude anche il concetto di generalità. Come precedentemente precisato, esso specifica che le leggi fondamentali che riguardano il livello di spiegazione individuale non devono essere applicabili soltanto a delle situazioni sociali particolari, dovendo essere appunto generali. Infatti, nel Capitale, Marx nega utilità esplicativa al concetto di produzione in generale, espressione che dovrebbe indicare un insieme di leggi sovrastoriche della produzione. Queste ultime, pur essendo in qualche modo determinabili, non contribuiscono, se non in maniera trascurabile, alla comprensione del funzionamento di un determinato modo di produzione. In conclusione Marx può dunque essere considerato un anti-riduzionista. L’antiriduzionismo riconosce l’importanza di considerare il microlivello nella spiegazione dei fatti sociali, ma tiene ferma l’irriducibilità delle spiegazioni di macrolivello.

Stefano  Bracaletti

CONSECUTIO RERUM

Rivista critica della Postmodernità

fonte

Di the milaner

foglio informativo indipendente del giornale

Un pensiero su “Il Marxismo analitico”

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