Il nuovo impianto normativo consentirà alle Regioni di chiedere competenze e risorse su 23 materie, tra cui sanità, istruzione, energia, trasporti, ambiente e cultura. La norma è stata fortemente voluta dalla Lega ed è contestata dalle opposizioni, che hanno annunciato l’intenzione di raccogliere le firme per un referendum abrogativo. Di autonomia differenziata si discute da tempo, ma fino ad ora non è mai stata attuata. Principalmente perché, sebbene la concessione di “forme e condizioni particolari di autonomia” venga prevista dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, inserito dalla riforma del Titolo V varata nel 2001, la sua introduzione potrebbe acuire le differenze economiche e sociali tra regioni, peggiorando la condizione di quelle più povere. Oltre a quelle delle opposizioni, forti voci contrarie si sono levate anche dai sindacati del lavoro e della scuola, nonché dalle rappresentanze dei medici e dalle associazioni ambientaliste, secondo cui l’entrata in vigore della legge inasprirà le disuguaglianze fra i territori e i cittadini appartenenti a differenti fasce di reddito.
La riforma
Nello specifico, l’autonomia differenziata consiste nel riconoscimento, da parte dello Stato, dell’attribuzione a una Regione di una autonomia normativa rispetto a materie di competenza concorrente (quelle su cui le Regioni esercitano la potestà legislativa nel rispetto dei principi fondamentali statali) e, in alcuni casi, su materie di competenza esclusiva dello Stato. La nuova legge offre inoltre alle Regioni la possibilità di trattenere il gettito fiscale, che dunque non verrebbe più distribuito a livello nazionale in base alle necessità collettive. Le Regioni, prima di avanzare la richiesta all’autorità centrale, dovranno acquisire i pareri dei propri enti territoriali. Tale richiesta viene trasmessa al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro per gli affari regionali e le autonomie, a cui compete di avviare il negoziato con la Regione interessata ai fini dell’approvazione dell’intesa.
L’atto (o gli atti) d’iniziativa di ogni Regione possono concernere una o più materie o ambiti di materie. Spetta al Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, approvare lo schema di intesa preliminare negoziato tra l’autorità statale e la Regione, che deve essere corredato da una relazione tecnica. Esso deve essere subito trasmesso alla Conferenza unificata, tenuta a esprimere un parere entro 60 giorni, e poi inoltrato alle Camere, per l’esame “da parte dei competenti organi parlamentari” che si esprimono al riguardo “con atti di indirizzo”. Solo a quel punto, il governo andrà a predisporre lo schema di intesa definitivo, eventualmente al termine di un ulteriore negoziato con la Regione, che potrà procedere alla sua approvazione. Il disegno di legge di approvazione dell’intesa e la medesima intesa allegata, dopo essere stati approvati dall’esecutivo, verranno poi trasmessi alle Camere per la deliberazione. All’interno dell’intesa vengono individuate anche le disposizioni di legge statale che cessano di avere efficacia, nel territorio della Regione, con l’entrata in vigore delle leggi regionali attuative dell’intesa.
I Livelli Essenziali di Prestazione
È importante precisare che, come sancito da un emendamento alla riforma presentato da FDI, per 14 delle 23 materie complessive, prima di poter procedere andranno definiti i LEP (Livelli Essenziali di Prestazione) sui diritti civili e sociali, che dovranno essere uniformemente garantiti su tutto il territorio nazionale sulla base delle risorse disponibili in legge di bilancio. Il concetto alla base dei LEP è il medesimo dei LEA (Livelli essenziali di assistenza), che nel nostro Paese sono già in vigore – seppure, in molti casi, non rispettati – da molti anni. Il governo avrà due anni di tempo dal momento dell’entrata in vigore del provvedimento per approvare i decreti legislativi che delineeranno livelli e importi dei LEP. A mettere mano a una complessiva ricognizione in merito a materie e criteri che dovranno essere garantiti sarà una commissione formata in egual misura da membri di Stato e regioni – i quali hanno 5 mesi per trovare un accordo -, supportata da una cabina di regia composta dai ministri competenti presso il ministero degli Affari regionali.
Le intese possono durare in totale fino a 10 anni ed essere successivamente rinnovate. Sarà possibile anche disdirle, essendo però necessario un preavviso di 12 mesi. Le 9 materie per cui i tempi dovrebbero essere più rapidi sono quelle che non necessitano dei LEP, ovvero: Organizzazione della giustizia di pace; Commercio con l’estero; Professioni; Protezione civile; Previdenza complementare e integrativa; Coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; Casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; Enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale; Rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni. Le nuove norme prevedono che i LEP siano periodicamente aggiornati attraverso D.P.C.M., sui cui relativi schemi sono acquisiti i pareri della Conferenza unificata e delle Commissioni parlamentari competenti.
Il parere di Ue e Bankitalia
Una delle maggiori critiche tra quelle mosse all’autonomia differenziata riguarda il fatto che la definizione dei LEP sarà determinata dal governo “a partire da una ricognizione della spesa storica dello Stato in ogni Regione nell’ultimo triennio” e “senza nuovi oneri” per la finanza pubblica, sancendo dunque – secondo gli oppositori – le diseguaglianze già esistenti e ben visibili tra i vari quadranti dello Stivale. Una critica condivisa dalla Commissione Europea, che ha bocciato la riforma. «Mentre il disegno di legge attribuisce specifiche prerogative al governo nei negoziati con le regioni – ha evidenziato l’istituzione UE – esso non fornisce alcun quadro comune di riferimento per valutare le richieste di competenze aggiuntive da parte delle regioni. Inoltre, poiché i LEP garantiscono solo livelli minimi di servizi e non riguardano tutti i settori, vi sono rischi di ulteriore aumento delle disuguaglianze regionali”. Secondo la Commissione, l’attribuzione di poteri aggiuntivi alle regioni in modo differenziato aumenterebbe «anche la complessità istituzionale, con il rischio di maggiori costi sia per le finanze pubbliche che per il settore privato».
A esprimersi sulle criticità del provvedimento è stata anche Banca d’Italia, che ha fatto notare come «un assetto istituzionale estremamente differenziato potrebbe risultare poco trasparente per i cittadini, accrescendo i costi di coordinamento e indebolendo l’accountability dei diversi livelli di governo», producendo effetti negativi anche sulle «scelte delle imprese», ad esempio «richiedendo a quelle che operano su scala sovraregionale di adeguarsi a quadri regolamentari, per le materie devolute, che potrebbero essere anche molto diversi», nonché sui «lavoratori nelle occupazioni regolate», dal momento che «l’esistenza di certificazioni e abilitazioni su base regionale può rappresentare un ostacolo alla mobilità geografica e alla contendibilità stessa dei mercati». In particolare, poi, la gestione a livello decentrato di molte materie andrebbe in contrasto con una necessaria «capacità di azione tempestiva e di coordinamento a livello nazionale e spesso sovranazionale». A questo proposito, Banca d’Italia cita a titolo di esempio «la recente esperienza della pandemia», che ha «messo in luce la dimensione sempre più globale della tutela della salute, evidenziando come la rapidità e la qualità dei processi decisionali possano risentire della frammentazione delle competenze su più livelli di governo».
Le anime della protesta
Oltre alle opposizioni, a muoversi contro il provvedimento sono associazioni di categoria, sindacati, ordini professionali ed enti del terzo settore. «La possibilità concessa alle Regioni ricche (il Nord) di trattenere più gettito fiscale configura un extra finanziamento destinato ad alimentare prestazioni sanitarie aggiuntive per alcuni cittadini rendendo un diritto costituzionale funzione del reddito e della residenza», ha dichiarato il Segretario Nazionale Anaao Assomed, Pierino Di Silverio, che ha fatto notare come siano molti i poteri concessi in sanità dall’autonomia differenziata: «determinazione di tariffe e tickets; gestione dei fondi integrativi, con il rischio del risorgere di sistemi mutualistici-assicurativi; governance delle aziende, con la possibilità di un sistema arlecchino; mano libera sul sistema di formazione post laurea. Fino alla nascita di un mercato competitivo per l’ingaggio dei professionisti, l’avvio di una concorrenza selvaggia nell’acquisizione delle risorse umane nutrita dal dumping salariale e dalle incentivazioni regionali, che svuoterà di valore il Ccnl dei dipendenti». Sulle stesse posizioni la Fondazione Gimbe, che denuncia come, con l’autonomia differenziata, sia stato dato «anche il colpo di grazia al Servizio Sanitario Nazionale, pilastro della nostra democrazia e strumento di coesione sociale, per un machiavellico ‘scambio di cortesie’ tra le forze politiche di maggioranza». Anche le organizzazioni sindacali del lavoro si compattano contro la riforma. La Cgil, insieme alle oltre cento associazioni che compongono il network “La via Maestra”, ha parlato di una legge che «non colpisce solo il Mezzogiorno, ma l’intero Paese», mettendo a rischio «il diritto alla sanità pubblica, all’istruzione, alla salvaguardia dell’ambiente, alla sicurezza sul lavoro, alla possibilità stessa di promuovere nuove politiche industriali e di sviluppo capaci di creare lavoro stabile e di qualità».
Anche le associazioni ambientaliste sono sul piede di guerra. In una nota, il WWF ha scritto che «i boschi come i fiumi, la fauna selvatica come le falde idriche, gli inquinamenti e l’impollinazione, non conoscono i confini amministrativi di una regione, per cui una tutela differenziata al ribasso su base regionale compromette la conservazione di specie ed habitat», evidenziando come emergeranno «differenziazioni di diritti dei cittadini – a cominciare da quello della salute – a seconda delle regioni in cui vivono». In ultimo, si è mobilitato anche il mondo dell’Istruzione, con alcuni sindacati pronti a impugnare gli atti per diversi profili di incostituzionalità. «Senza la garanzia di LEP omogenei e armonizzati tra le regioni – ha affermato Marcello Pacifico, presidente nazionale di ANIEF -, la legge si realizzerà con evidenti limiti di attuazione. Perché la scuola pubblica non può fare la fine della Sanità: sono emblematiche, in questo senso, le richieste di modifica al disegno di legge, poi non accolte, proposte dagli stessi partiti di maggioranza per garantire la parità di risorse per il raggiungimento comune dei livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi su tutto il territorio nazionale».
Stefano Baudino